E’ guerra delle Valute

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Che cosa sta succedendo all’economia Russa? In principio, dopo il blocco dello SWIFT, il congelamento delle riserve in valuta estera e il crollo del rublo, sembrava imminente il default economico, ma poi l’Orso ha reagito con una zampata; dapprima alzando i tassi d’interesse della banca centrale, sino al 20%, e successivamente obbligando i Paesi Occidentali ad aprire conti per la conversione degli euro in rubli presso Gazprom Bank. E in questo modo, tra mosse e contromosse artificiali, si è consumato un conflitto economico che pare ora prossimo all’epilogo, con l’avvicinarsi di un default che di reale non ha nulla, ma i cui effetti avranno modo di propagarsi ben oltre i confini russi.

La forza del dollaro

Le armi economiche sono da sempre parte dell’arsenale tattico americano, da quando cioè gli Stati Uniti si sono imposti non solo come guardiani dell’ordine globale, ma anche come possessori dell’unica moneta in grado di dettar legge nel mondo economico. Ciò fu dapprima possibile grazie al golden standard (1922), un sistema che consentiva la convertibilità del dollaro con l’oro, e poi, dal 1981, grazie a una politica monetaria molto stringente imposta da Regan e Volcker. Come scrive Luca Fantacci, su Ispi, “l’attuale paradossale versione dell’egemonia monetaria, in cui la moneta chiave (il dollaro) è tanto più forte (in termini di diffusione globale) quanto più debole (in termini di competitività) è l’economia dell’emittente: in effetti, l’accumulazione di riserve in dollari in tutto il mondo è semplicemente il riflesso dei deficit di bilancia dei pagamenti americani. Questa peculiarità del biglietto verde per eccellenza, lo ha reso la moneta più utilizzata per gli scambi commerciali internazionali (dove occupa il 40% dei pagamenti tra Paesi) e come punto di riferimento sia per il mercato, sia per l’apprezzamento delle altre valute di riserva (come l’euro, la sterlina, lo Yen e i Renminbi). Non è quindi inusuale la presenza di ingenti quantità di dollari nella quota di valuta estera detenuta dagli Stati, come nel caso della Russia, né l’utilizzo della stessa come moneta per il rimborso delle cedole sui Bond. Sempre gli Stati Uniti, oltre alla moneta, hanno da sempre usato mezzi di pressione economica per destabilizzare economie di Paesi avversi, dal celebre embargo su Cuba agli 8,9 mld versati nel 2014 da Bnp Paribas, sanzionata dall’Ofac (Office of Foreing Assets Control), per aver fatto operazioni non consentite con Sudan, Iran e altri Paesi ritenuti ostili da parte di Washington. Di fatto esisteva una black list e un modus operandi a modi “bando” ben prima dell’attuale guerra in Ucraina, anche se questa volta ci sono almeno un paio di peculiarità degne di nota.

La guerra dei numeri

La prima è che la Russia rischia di finire in default non per incapienza o diniego nei confronti del contratto, ma perché non può materialmente adempiere al contratto, a differenza di quanto accaduto in Argentina e in Pakistan. Fino al 24 maggio, infatti, era in vigore una licenza, la 9A, che consentiva alla Russia di pagare i propri debiti in valuta esterna, ma il suo mancato rinnovo fissa oggi la data del default russo al 23-24 giugno, quando andranno in scadenza le prossime cedole. Se quindi il ministero delle finanze moscovita non dovesse riuscire a scoprire metodi alternativi per saldare i propri contratti esteri, ecco che scatterebbe l’avvio della procedura per il default, con altri 30 giorni di vita prima della definitiva messa al bando economico, sancito dall’attivazione dei Credit default swaps (già aumentati dell’85% su base settimanale).

Tuttavia, alla bancarotta russa mancherebbero quei presupposti di base che si verificarono col caso argentino. Il rublo, infatti, grazie ai continui flussi di denaro europeo (quasi un miliardo al giorno) e agli obblighi di conversione della valuta estera, aveva raggiunto il suo valore massimo degli ultimi 4 anni, per poi perdere terreno in questi giorni (a seguito del taglio degli interesse da parte della banca centrale russa, oggi scesi dal 20% all’11%). Un balzo, quello del rublo, talmente forte da imporre continue revisioni nei confronti della strategia manipolatoria adottata dalla banca centrale russa. D’altronde, nessuno vuole più i rubli e quindi l’aumento improvvido della domanda interna è un risultato del tutto artificiale, frutto dell’obbligo, per qualunque soggetto russo che tratti valuta estera, di convertirla immediatamente. Una mossa questa, che di recente ha subito un brusco dietrofront da parte della banca centrale russa stessa, che ha passato la quota di valuta da convertire in rubli dall’80% al 50%. La ragione di questa mossa è molto semplice, il rapporto tra import ed export ha creato un forte avanzo commerciale, la russa esporta materie prime ma non importa più quasi nulla; e tutto ciò non è un bene, soprattutto per un Paese che vive di esportazioni verso l’esterno, da qui la necessità di rallentare l’apprezzamento del rublo sull’euro e sul dollaro. Nei fatti però, al netto delle mosse e contromosse per compensare l’effetto delle sanzioni, l’economia russa non gode di buona salute. Il Pil, ad esempio, è già dato in caduta libera con una forchetta che oscilla tra un meno 8/10% (e solo per il 2022), mentre l’inflazione è scesa solo di qualche decimo di punto, dal 17,8 al 17,5%, restando comunque talmente alta da obbligare Putin stesso ad aumentare 10% le pensioni e il salario minimo; lasciando così intendere che l’aumento dei prezzi non calerà tanto velocemente.

In breve, è vero, la caduta dell’economia russa è frutto delle sanzioni, le quali (nonostante il continuo approvvigionamento di soldi da parte dei Paesi dell’Ue) stanno colpendo duramente Mosca. Tuttavia, vi è dell’artificio sia nel venturo default tecnico, sia nelle mosse volte a scongiurare questo epilogo. Di fatto, Russia e Stati Uniti stanno partecipando e barando allo stesso gioco e con analoghi strumenti. Da una parte si sta sostenendo la moneta domestica, il rublo, con artifici di ogni sorta, da obblighi a conti correnti paralleli, mentre dall’altra parte si dichiara un default quando lo Stato debitore, in questo caso la Russia, sarebbe disposta a pagare quanto dovuto, ma semplicemente non può. Si arriva così alla seconda peculiarità di questo duello ambientato sullo scacchiere economico internazionale, ed è il rischio che a perdere siano entrambi i contendenti, anche se per ragioni differenti.

Le conseguenze

Non è necessario essere degli indovini per capire che il contraccolpo più pesante di questa guerra economica sarà assorbito dalla Russia, come testimonia il direttore del dipartimento di Ricerca e previsione della banca centrale russa stessa, Alexander Morozov, il cui intervento è stato riportato in versione integrale da Il Foglio. Lo choc dal lato dell’offerta sarà, secondo Morozov, paragonabile a quello della recessione degli anni ’90, tranne per il fatto che serviranno più anni per riprendersi. E ciò è dovuto al fatto che i comparti ad alta innovazione tecnologica necessitano di componenti di provenienza estera, i quali sarà molto difficile, se non impossibile, sostituire, rallentando così efficienza e produttività. D’altronde, com’è stato anche per l’embargo su Cuba, il rischio è che la Russia debba regredire o nel caso migliore accontentarsi di standard tecnologici più bassi rispetto a quelli attuali e pre-invasione dell’Ucraina. Per Morozov, inoltre, “si prevede che il declino della trasformazione tecnologica dell’economia russa continuerà in questa fase, con l’invecchiamento delle strutture materiali e tecniche e la loro sostituzione con prodotti sostitutivi meno produttivi”. Nei fatti, i russi non torneranno a guidare le Lada, ma poco ci mancherà (almeno sul piano tecnologico). Sul piano internazionale, invece, il default peggiorerà ulteriormente la reputazione di Mosca, rendendo ancor più difficile l’accesso a capitali per finanziare il proprio debito. Certo, siano a quando la Russia potrà contare sui miliardi che i Paesi dell’Ue le inviano ogni giorno per gas e petrolio, l’accesso ad ulteriore credito potrebbe non servire, ma il sesto pacchetto di sanzioni potrebbe vedere la luce nelle prossime settimane rendendo imminente un cambio di strategia per il Cremlino.

Sul versante europeo, invece, il default russo potrebbe avere delle conseguenze non trascurabili, anzi. In un articolo uscito su Domani, a firma di Vittorio da Rold, viene illustrato come il debito mondiale abbia ormai raggiunto livelli preoccupati, con un importo complessivo pari a 303 mila miliardi di dollari e di come un default russo potrebbe innescare un effetto panico sui mercati di tutto il mondo. Come riportato da Rold Gopinath (numero due del Fondo Monetario Internazionale) il quale afferma che l’eventuale default russo avrebbe conseguenze soprattutto in Europa e ha nominato l’Austria e l’Italia come le più esposte alla Russia dei paesi europei. Il ministro dell’Economia Franco ha però rassicurato sul fatto che l’Italia risulta esposta con la Russia solo per 8 mld di euro, ma il commento di Gopinath era riferito soprattutto all’alto debito del nostro Paese, il quale potrebbe subire più di altri le turbolenze di un mercato irrequieto. Occorre inoltre considerare che diversi istituti di credito italiano sono esposti ben di più rispetto ai valori dichiarati dal ministro Franco. La Stampa, a marzo, riportava un’esposizione complessiva pari a 25 mld di euro di crediti elargiti dal settore bancario italiano verso la Russia e il 27 maggio, Milano Finanza, quantificava a 7,5 i mld concessi a Mosca dalla sola Unicredit.

Oltre allo choc immediato sulla finanza russa e su quella europea, non è poi da escludersi che l’arma economica impiegata dagli Usa non possa nuocere anche al dollaro stesso. Sono in molti, infatti, a ritenere che dopo questa entrata a gamba tesa sulla solvibilità dei conti di un Paese straniero possa andarsi affermando un sistema non più dollaro-centrico, magari sostituito dai renminbi. Ad oggi è solo uno scenario ipotetico, ma la Cina si è già mossa nella creazione di un sistema di pagamento internazionale sganciato dallo SWIFT e lo Yuan digitale è già una realtà, a differenza delle valute Occidentali, senza considerare poi che una gran parte del mondo ha votato contro la risoluzione che condannava la Russia per l’invasione dell’Ucraina.

L’Occidente è oggi in grado di vincere la guerra economica contro la Russia, ma non sarà a costo zero e potrebbe rivelarsi, soprattutto nel lungo periodo, un boomerang. D’altronde l’attuale domanda interna di combustibili fossili sta venendo rimpiazzata con fornitori dal pedigree non meno autocratico rispetto a quello russo e non è chiara quale sia la politica estera intrapresa dell’Europea…

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

La mancanza di consapevolezza del mondo che verrà

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Il conflitto in Ucraina è riuscito a riunire i Paesi europei sotto il vessillo della Nato, in difesa della democrazia e contro l’aggressione a uno Stato sovrano. Per questo, dal 24 febbraio ad oggi, sono stati varati 5 pacchetti di sanzioni contro la Russia e inviate armi per la resistenza dell’Ucraina. Ma al di là delle nobili intenzioni, gli Stati europei sembrano sottovalutare sia i costi economici, sia quelli morali che questa presa di posizione comporta.

“Non è finita, finché non è finita.” Così diceva Yogi Berra, famoso giocatore di baseball statunitense, in merito alla necessità di non arrendersi mai fin tanto che anche una piccolissima possibilità di vittoria resta viva. Ed è a tale possibilità che oggi si stanno affidando milioni di cittadini ucraini, che da più di due mesi lottano per difendere il proprio territorio disumanamente e illegalmente invaso dalle forze russe. Ogni giorno le notizie che ci provengono dai territori di guerra ci raccontano di situazioni militari, civili e umanitarie tanto aberranti quanto distanti da quell’idea illuministica di pace tra i popoli e risoluzioni diplomatiche tra le nazioni su cui si è fondata l’Europa stessa.

Un mondo in guerra

D’altra parte, quello che non dobbiamo nasconderci è che l’attuale conflitto ucraino non è un’eccezione e probabilmente non sarà nemmeno l’ultima. Questo perché le guerre non hanno mai smesso di comparire, né sull’emisfero boreale, né su quello australe e dalla caduta del muro di Berlino in poi ci hanno accompagnato sino ad oggi: dalle due guerre del golfo, a quella contro il terrorismo combattuta in Afghanistan e in Iraq, a cui sono poi seguite quella in Siria e in Libia. Nel loro insieme tutte queste guerre formano una collana di perle nere gemmate dall’assenza di timore per le conseguenze, perché lontane da noi, e con l’interesse, spesso occidentale, di parteciparvi nel bene e nel male.

Ed è probabilmente per via della sua prossimità ai confini europei che l’attuale conflitto in Ucraina ha scosso così profondamente le opinioni pubbliche europee, smuovendone le radici. Certo, in passato v’era stata anche la guerra in Kosovo, anch’essa nel perimetro dell’Ue, ma non c’erano sul tavolo né l’ipotesi di un conflitto nucleare, né la possibilità di assistere in diretta allo scontro, così come hanno reso possibile le nuove tecnologie, e non vi era neppure una sfida così diretta all’intero impianto valoriale e ideologico su cui si basa lo stile di vita Occidentale.

Sin da subito, infatti, la guerra in Ucraina è stata raccontata come uno scontro tra visioni del mondo: “noi contro loro”, l’Occidente, guidato dall’arsenale della democrazia, che si oppone a un Oriente autocratico composto da Russia e Cina. Una narrazione convincente, ma non sempre corroborata dai fatti, i quali mostrano invece abusi e crimini commessi anche in regimi democratici. D’altronde, la guerra è sempre una cosa sporca, sia che la portino avanti i paladini della democrazia illuminista, sia che a guidarla sia una dittatura. A prescindere dagli schieramenti, ciò che lascia un conflitto sono macerie e vite spezzate in virtù di ragioni geopolitiche e tattiche militari che rendono impossibile l’individuazione di un “uomo” o una società senza peccato. Se quindi è indubbia l’adesione a uno schieramento, pro o contro un sistema valoriale e ideologico a cui fa capo la società stessa, ed in questo caso a favore dell’Ucraina, un Paese invaso e sull’orlo dell’abisso, contro un’autocrazia che si colloca in uno spazio assolutista, guidata da un uomo che si pone al di sopra della Storia, resta pur sempre aperto il tema delle implicazioni di questa scelta di campo.

Lo scenario economico

Da un punto di vista strettamente economico è ormai certa la frenata economica a cui stiamo andando incontro, che si tratti della sola recessione, o della stagflazione, sarà giusto il tempo a dirlo, ma lo scenario non è roseo. L’Unione Europea esce dalla crisi pandemica peggiore che la storia recente ricordi e probabilmente anche dalla crisi economica peggiore dalla sua fondazione, nel 1957. Il 2020 è stato un anno nero, controbilanciato con efficacia dal 2021, grazie soprattutto alla vaccinazione e al fronte comune di stimolo fiscale varato dai 27. Tant’è che l’iniziale spauracchio dovuto al rincaro dell’inflazione, insorto in coda al 2021 a seguito della carenza di materie prime (i famigerati colli di bottiglia), fu ben presto etichettato come una circostanza limitata nel tempo e dovuta all’eccezionale ripresa della domanda di beni. E per questo, nei fatti, rinomati studiosi se non proprio la BCE stessa intimavano prudenza e contenimento del panico circa l’ascesa dell’inflazione, sicuri della sua transitorietà ed incapacità di influenzare la struttura macroeconomica della zona euro in maniera profonda e duratura. Infatti, prima dello scoppio della guerra, la fiducia generale stava crescendo e l’occupazione riprendeva, incoraggiando una visione ottimista del prossimo futuro. Ma poi il 24 febbraio tutto è cambiato, anzi, il mondo è cambiato.

Immediatamente l’Occidente si è schierato contro la Russia, colpevole di aver minato l’indipendenza di uno stato sovrano. Le dichiarazioni, da parte dei vari capi di stato occidentali, a supporto dell’Ucraina si sono fatte via via più affollate e dalle parole, la UE e gli Stati membri, sono passati quindi ai fatti con l’approvazione di sanzioni commerciali mai viste prime, accompagnate dall’invio di armi per sostenere la resistenza.

Ad oggi l’Ue ha varato ben 5 pacchetti di sanzioni, ognuno di portata maggiore rispetto al precedente, ma giunti al sesto (che prevede, sulla carta, uno stop all’importazione di petrolio russo) la macchina europea si è inceppata sul diritto di veto e sulle necessità (geopolitiche, poiché sia geografiche che strategiche) a cui sono soggetti alcuni dei Paesi del patto di Varsavia. Di fatto, i cinque pacchetti già varati coinvolgono svariati ambiti: dal divieto, a partire da agosto 2022, di acquistare, importare o trasferire nell’Ue carbone e altri combustibili fossili solidi (investendo così il comparto energetico), al divieto di esportazione di altri beni, come i prodotti del lusso (ma non solo), e il sequestro di quelli privati (come gli yacht degli oligarchi). Ma dal punto di vista strategico ed economico, le sanzioni più pesanti hanno riguardato l’accesso ai porti dell’Ue per le navi registrate sotto la bandiera della Russia e il fermo del settore finanziario russo. L’Occidente ha costretto l’autocrazia russa all’autarchia, fatta eccezione per il rapporto che Mosca intrattiene con la Cina e con tutti quei Paesi che non hanno varato la risoluzione dell’Onu che condannava l’invasione ai danni dell’Ucraina.

E da un punto di vista etico, non c’è dubbio che queste sanzioni abbiano una natura ammirevole e condivisibile. Tuttavia, ognuno di questi pacchetti ha portato con sé degli effetti economici. Effetti che non solo sono molto più lenti ad apparire ma, proprio per la loro lentezza nel mostrarsi, sono ancora poco considerati tra i governi europei. Ma ad ogni azione corrisponde sempre una reazione.

E qualche segnale si è già palesato nella vita quotidiana. Ad esempio, da transitoria l’inflazione sembra destinata a radicarsi per almeno 2 anni e forse più. Il gas e la benzina, il pane e la pasta, il costo dei mutui e dei prestiti, solo per citarne alcuni, stanno salendo vertiginosamente ed aggredendo una base economica ancora fragile e convalescente dal post pandemia. La differenza sostanziale rispetto a quest’ultima, infatti, è che i prezzi erano fermi e quindi i tassi d’interesse generali rimanevano bassi e stabili, oggi invece i prezzi schizzano e le banche centrali non possono fare altro che rendere il denaro più oneroso per cercare di stabilizzarli. Ed è quello che ha fatto la Fed pochi giorni fa, senza tra l’altro riuscire a frenare un’inflazione all’8,3%. Ma un denaro più oneroso significa anche un aumento del costo per i debiti e per i finanziamenti, col rischio di innescare una paralisi creditizia. Blocco che si aggiungerebbe a quello, anch’esso potenziale, del settore manifatturiero, suscettibile al costo delle utenze del gas, della luce e del petrolio. In breve, una situazione piuttosto pericolosa per il futuro. È chiaro che le boccate d’aria date dai bonus sono sì necessarie, ma non sufficienti e presto bisognerà trovare nuovi mercati (e l’Italia qualcosa sta già facendo con accordi in Africa) per sopperire alla domanda di materie prime: ma il prospetto per il futuro non pare certo rose e fiori. Si sta comunque limitando “un’industria” con dei colpi protezionistici non da poco (per buona pace dei sovranisti). Si stima che milioni di persone nel mondo soffriranno la fame per questa guerra (!). E l’impatto sociale dovuto alla crisi economica si manifesterà anche a causa della crisi migratoria impellente, se la guerra non finirà nei prossimi mesi e nulla lascia presagire un esito differente.

Un dibattito a senso unico

Dal punto di vista morale questa guerra ha già prodotto più di un illustre vittima. Sin dall’inizio, come fu profetizzato da Monti stesso, i principali organi di stampa hanno preso partito senza sé e senza ma, conducendo uno scontro ben più acceso di quello tra no-vax e pro-vax. La logica di fondo suona più o meno così: c’è un aggressore e un aggredito, e persino un cretino capirebbe da che parte stare, perché è ovvio. Ed in parte forse è anche così, peccato che vi sia altro di cui tener conto. Come ha ben argomentato Francesco Fronterotta sul Riformista, la storia (come materia di studio) esiste per capire le cause di qualcosa, così come il dibattito ci aiuta a ragionare sulle parti coinvolte in un evento. Invece, ciò che accade, è che si sovrappongano due parole con significati diversi, come sono spiegare e giustificare, che in questa vicenda vengono usate alla stregua di sinonimi, com’è stato negli anni per favola e fiaba. Quest’ultima è priva di morale, mentre la prima deve alla morale stessa la sua genesi.

E purtroppo, operare dei distinguo non ha salvato dalle liste di proscrizione insigni intellettuali e studiosi, da Luciano Canfora a Lucio Caracciolo. Il primo accusato a vario titolo di essere un comunista filoputinista, una sorta di ossimoro vivente, mentre il direttore di Limes, nota rivista di geopolitica, ha osato sostenere che quella attuale sia una guerra per procura. Ed in quest’ultimo caso è interessante notare come l’onta per aver sollevato un simile dubbio non abbia scalfito Dario Fabbri, che dagli studi di La7 conduce Mentana e il suo pubblico nel mondo geopolitico e che sul primo numero di Domino ha scritto: “Di nuovo alla testa di un compatto fronte occidentale, in Ucraina gli Stati Uniti stanno stravincendo la guerra per procura”. Sarà anche Fabbri al soldo di Mosca? Già, perché la ricerca di chi cerca di spiegare ha condotto il Copasir a investigare sugli ospiti dei Talk Show, sempre che la Rai non li cancelli prima, risolvendo così il problema alla radice. Non che sulle altre reti il dibattito sia più pacato e le ipotesi di cura più sobrie, anzi, come ben dimostra lo scambio tra Scurati e Feltri, ormai dialogare pubblicamente in modo pacato della guerra in Ucraina è pressoché impossibile.

Eppure, cercare di capire, darsi un metodo per indagare i fenomeni del mondo rappresenterebbe il fondamento dell’illuminismo e ciò che l’ha distinto dalla fede e dalle altre forme di credenze dogmatiche. Perché ora non è più così? Forse perché di fatto, ci piaccia o meno, l’Ue è in guerra così come lo sono gli Stati Uniti e quindi, una volta operata la scelta di campo, diventa impossibile leggere il conflitto da una diversa angolatura, poiché vi si è coinvolti mente e corpo. E quando viene meno la distinzione tra il soggetto e l’oggetto di studio, cessa di conseguenza ogni analisi metodica; d’altronde, in guerra la comunicazione è questa, nulla di cui stupirsi. Salvo per il fatto che una vera voce unica, almeno in Europa, non è ancora pervenuta, anzi, regna ancora il caos e le posizioni di mediazione, seppur vi sia una guerra e sia stata presa una posizione netta. Se vi è quindi una convergenza su chi condannare per la guerra, come potrebbe fare da sé qualunque cretino, restano molti dubbi sulle strategie e gli obiettivi da perseguire, nonché sulle modalità d’azione dell’Ue: anche se di questi temi e sul ruolo di storici e studiosi di geopolitica, è meglio non parlare, almeno ad alta voce e in pubblico. Beata democrazia.

In breve

Di conseguenza, siamo davvero consapevoli di che cosa implicano le scelte circa questo conflitto e di come ci stiano modificando? È fantastico difendere i principi di libertà e democrazie, ma saremo pronti e maturi a patire anche lacrime e sangue, quando verrà il momento? Siamo consapevoli che è ancora possibile che nonostante tutto la Russia vinca il conflitto, e che cosa succederà alle sanzioni? Resteranno? E come faremo a riaprirci al diverso in un clima da caccia alle streghe com’è quello attuale? A questi interrogativi dovremo saper rispondere molto presto, perché avere la botte piena e la moglie ubriaca non sarà di certo possibile e c’è pure il rischio che alla fine non riusciremo neppure ad ottenere nessuna delle due.

di Roberto Biondini e Claudio Dolci

I soldi non fanno i vincitori: occorre una strategia

Come l’industria bellica influenza le decisioni politiche

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Correva l’anno 1961 quando il 34esimo Presidente americano, Dwight D. Eisenhower, pronunciò le seguenti parole: “Nel governo dobbiamo stare in guardia contro le richieste non giustificate dalla realtà del complesso industriale militare. Esiste e persisterà il pericolo della sua disastrosa influenza progressiva. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione metta in pericolo la nostra democrazia. Solo il popolo allertato e informato potrà costringere ad una corretta interazione la gigantesca macchina da guerra militare….in modo che sicurezza e libertà possano prosperare insieme”. Ed oggi, a 60 anni di distanza, è difficile non intravederne il valore profetico e l’influenza che il comparto militare continua ad esercitare sulle democrazie di tutto il mondo.

Il mercato delle armi

Secondo i dati pubblicati da Sipri (l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma), nel 2020 gli Stati Uniti hanno speso ben 778 mld di dollari in difesa (equivalenti al 3,52% del Pil americano), seguiti dalla Cina (252 mld), dall’India (72,9 mld) e dalla Russia (61,7 mld). Nel complesso, i 10 Paesi che nel 2020 hanno speso di più in difesa coprono il 75% dell’intero mercato d’armi del mondo, ed hanno investito complessivamente 1.482 mld di dollari. E a beneficiare maggiormente di questo importo sono state Lockheed Martin Corp., Boeing, Raytheon Technologiese, Northrop Grumman e General Dynamics: ovvero, le 5 più importanti aziende produttrici d’armi al mondo. Neanche a dirlo, sono tutte americane e nell’insieme formano un oligopolio arginato solo dal lavoro degli enti federali. La Lockheed Martin Corp., ad esempio, qualche mese fa era in procinto di acquisire la Aerojet Rocketdyn, quando la US Trade Federal Commission (TFC) è intervenuta per fermare l’affare. La TFC ha motivato il suo intervento con la necessità di preservare quel poco di competitività di cui ancora dispone il mercato delle armi americano. Con l’acquisto della Aerojet Rocketdyn, infatti, si sarebbe ridotto ulteriormente il numero di aziende attive nel settore, comportando un aumento di spese per i contribuenti americani, così come riportato dal Financial Times e dalla Senatrice Elizabeth Warren; la quale ha aggiunto “ondate di attività di fusione e di consolidamento hanno trasformato l’industria della difesa della nazione da un mercato competitivo con oltre 50 aziende a un oligopolio di soli 5 grandi rivali. Di fatto, dal 1961, data del discorso di Eisenhower, ad oggi, il mercato degli armamenti americano si è letteralmente trasformato in un circolo per pochi eletti.

E dove finiscono la maggior parte delle armi prodotte? Da soli, gli States guidano saldamente la classifica dei 10 più grandi esportatori d’armi al mondo (e dal 2017), con una quota pari 39% dell’intera torta, e a comprare è la Nato e chiunque voglia muovere guerra e non abbia contrasti con la patria delle libertà a stelle e strisce. Numeri alla mano, dal 2015 ad oggi, l’Ue ha investito 1.510 mld di dollari in armamenti, mentre la Russia 414 mld. E all’interno dell’Ue, chi spende di più in esercito è la Grecia, col 3,82 del Pil (pari a 723 mln$), ma se guardiamo il valore monetario, cioè i miliardi davvero spesi, è facile rendersi conto come la classifichi la guidino alla pari la Francia (2,1% del Pil, pari a 52,7 miliardi di dollari) e la Germania (1,38% del Pil, pari a 52,8 mld$), seconde solo al Regno Unito (col 2,29% del Pil, pari a 59,2 mld$), che però oggi figura fuori dall’Europa, pur restando sempre all’interno del perimetro della Nato. E bastano questi pochi numeri per trarre almeno due considerazioni. La prima è che falso sostenere che l’Ue abbia destinato pochi miliardi alla difesa, anzi, ha speso 3,5 volte in più dell’intera Russia (nel periodo che va dal 2015 ad oggi). Secondo, che lo standard del 2% del Pil per la difesa, fissato dalla Nato, è un traguardo importante, ma che non fotografa efficacemente i miliardi spesi dai singoli Paesi. In altre parole, lo sforzo che ogni governo compie in rapporto al Pil è lo stesso, ovvero 2%, ma i miliardi spesi sono di ben altra entità, basti guardare ai milioni di euro spesi dalla Grecia contro i miliardi degli altri Paesi dell’Ue.

Che fine fanno i soldi europei?

L’Europa spende miliardi in armamenti, ma a conti fatti si ritrova con un esercito frammentato e tecnologicamente arretrato. È come se dalla montagna di soldi europei fuoriuscisse sempre un topolino. Nel dettaglio, su La Verità, in un articolo a firma di Claudio Antonelli, vengono riportate le voci di spesa dell’esercito italiano ed è subito evidente che immettere altri denari nell’apparato militare non sia di per sé sufficiente, occorre infatti pensare strategicamente e saper spendere. “Secondo prassi Nato – scrive Antonelli – metà del budget (per la difesa) dovrebbe andare al personale, il 25% alle spese di esercizio, manutenzione e addestramento, il rimanente 25% per l’innovazione tecnologica. Nel nostro caso (in Italia), il 70% se ne va in personale (che include caserme e pensioni), il rimanente è suddiviso sulla parte operativa”. Ma il caso italiano non è l’unico in cui si presentano disfunzionalità ed inefficienze. La Germania, ad esempio, ha sì deciso di destinare 100 mld di euro alla difesa (oltre al 2% del Pil annuno), ma si ritrova con arsenale così antiquato da dover correre ai ripari senza se e senza ma. Scholz, infatti, ha deciso di sostituire i Tornado con gli F-35, i quali possono trasportare testate nucleari, e di acquistare gli Eurofighter Typhoon, nati da un consorzio che vede partecipare insieme UK, Spagna e Italia. Peccato che la Germania fosse già impegnata con la Spagna e la Francia nel Future Combat Air System (FCAS), che a sua volta coinvolge l’azienda Airbus e che nel 2040 dovrebbe sfornare il nuovo caccia europei. Ma la guerra incombe e quindi gli accordi saltano mettendo a nudo la fragilità che accomuna i singoli Paesi della zona Ue. E a tal proposito, Claudia Major, del German Institute for International Security Affari, ha detto, al Financial Times, che “Fin dall’inizio [FCAS] è stato l’esempio della difficile cooperazione industriale europea, della sfiducia e di tutti coloro che cercano di difendere il proprio interesse industriale.

Di fatto quel che manca in Europa è una politica che sappia sfruttare decentemente due dei principi cardine dell’economia aziendale: le economie di scala e quelle del raggio d’azione. La prima ci dice che all’aumentare della capacità produttiva seguirà un calo dei costi unitari di produzione; tradotto, a un’azienda costa molto di più produrre un’auto personalizzata (come una Pagani), invece di una 500 (di cui magari ne vengono realizzati milioni di esemplari). L’economia del raggio d’azione, invece, ci dice che il costo per produrre due oggetti che condividono il medesimo processo di fabbricazione è inferiore a quello che dovremmo sostenere per produrli singolarmente. In breve, se l’acciaio di cui necessitano carrarmati e aerei proviene dalla medesima acciaieria, questo sarà un vantaggio rispetto alle costruzioni di tante piccole acciaierie sparse in tutta Europa per altrettante fabbriche d’armi. In entrambi i principi economici vi è del buon senso, mentre nell’agire dei singoli Paesi europei emerge principalmente la paura e la necessità di proteggere sé stessi (ed i propri interessi).

Sarebbe sufficiente frammentare il mercato delle armi quel tanto che basta per bilanciare tra di loro costi e potere delle aziende, barattando un costo produttivo maggiore per una riduzione del rischio di creare oligopoli (com’è invece accaduto negli States). Ed inoltre, sarebbe opportuno creare delle strutture di difesa comuni per migliorare la coordinazione e l’efficienza dell’arsenale bellico europeo, ma al momento tutto questo è letteralmente fantapolitica. Tra l’altro, tali problemi gestionali si stanno ora accompagnando a un rinnovato entusiamo del mercato finanziario per la guerra, tanto che le armi sono oggi diventate improvvisamente sostenibili.

Gli Esg e le armi stringono un’alleanza contro il pianeta

Da qualche tempo a Wall Street il vento è cambiato, gli investitori hanno compreso che le loro scelte finanziarie hanno un impatto sul futuro del pianeta e che dare soldi ad aziende del fossile e di tutti quei comparti che minacciano la specie umana risulti insensato sia sul breve che sul medio-lungo periodo. Per questo sono nati gli Esg (Environmental, Social, Governance), dei prodotti finanziari che dovrebbero tener conto degli standard ambientali, di quelli sociali e in generale di una corretta governance, abbandonando così quella strada di avidità intrapresa mezzo secolo fa con Milton Friedman. Sulla carta sembrava filare tutto liscio e Wall Street pareva aver sviluppato una coscienza, ma oggi, analizzando nel dettaglio gli Esg, ci si rende conto che il concetto di “sostenibilità” può essere storpiato così tanto da farci rientrare dentro persino l’industria bellica.

D’altronde i soldi sono pur sempre soldi, e di fronte agli incrementi delle azioni del settore militare è difficile restare impassibili sui propri principi. Numeri alla mano, le azioni dell’azienda italiana Leonardo (al tredicesimo posto tra le aziende produttrici d’armi al mondo) sono passate dai 6,08€ ad azione del 7 di febbraio scorso, ai 9,35€ di oggi, ed un balzo simile l’hanno registrato anche la francese Thales (+47,9%), la britannica Bea Systems (+33,2%) ed ovviamente l’americana Lockheed Martin Corp. che è passata dai 387$ ad azione di febbraio, agli attuali 447$. Il mercato delle armi è oggi talmente redditizio che persino la banca svedese Seb, che neanche un anno fa aveva dismesso tutti i suoi investimenti in armi, ha deciso di consentire (dal 1° aprile) a 6 fondi di tornare a puntare sulla difesa. E solo un anno fa, l’Ue voleva etichettare l’industria militare come dannosa, mentre oggi le carte in tavola sono già cambiate.

Su La Stampa, in un articolo a firma di Fabrizio Goria, il direttore commerciale di AcomeA Sgr, Matteo Serio, suggerisce come in “un futuro prossimo in cui il concetto di sostenibilità rifletterà anche una prospettiva di contributo alla sicurezza nazionale in senso più ampio, con implicazioni ad oggi non scontate”. E Goria stesso ha poi esplicitato meglio il concetto: Nel mondo Esg 2.0 il focus non è più sul settore “buono” o meno, sottolinea il manager di AcomA, bensì sulla singola azienda, sulla propria politica d’impresa atta, per esempio, a contenere gli sprechi energetici o a includere procedure di svolgimento delle attività che abbiano ricadute positive sul contesto locale”. Tutto questo significa che la geopolitica ha ormai preso il sopravvento anche in quei settori della finanza, che per marketing o ideali, cercavano di traghettare il mondo altrove rispetto al passato, e così il mondo degli Esg sta oggi investendo in energie fossili ed armi.

Per Wall Street tutto questo è routine, visto che in un passato recente la quotazione di Aramco aveva già ristabilito i rapporti di forza rispetto alle economie della Silicon Valley. Tuttavia, qui il problema non è solo di natura economica, ma politica, poiché investire miliardi di euro in armi e fossile potrebbe anche risultare efficace a una situazione contingente, com’è quella della guerra Russo-Ucraina, ma l’assenza di una strategia e di una coordinazione europea è pericoloso. In Europa, a differenza degli Usa (che pur sempre sono un aggregato di Stati federali accomunati da moneta e legge condivisa – come in Ue), manca totalmente una visione strategica. E l’attuale impiego di risorse monetarie, che potrebbero sostenere il welfare e la crescita, vengono qui dissipate in tanti micro-eserciti, non coordinati e numericamente inferiori rispetto alle grandi minacce del presente. Tra l’altro, l’Ue sta già impiegando nella difesa (complessivamente) più risorse della Russia e della Cina, ma non riesce a conseguire gli stessi risultati.

E ad oggi purtroppo non c’è solo il rischio che l’industria militare continui ad esercitare la sua influenza sui singoli Stati (europei e non), così come profetizzato da Eisenhower 60 anni fa, ma per di più si sta facendo largo anche il ritorno agli Stati nazione, i quali agiscono soddisfando le proprie paure, senza alcun coordinamento e/o strategia di lungo periodo che preservi l’unico interesse davvero comune a tutti: la pace.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini