Nein! Un bicchiere mai pieno

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Nein! La svolta tanto attesa, ed invocata ormai 8 mesi fa dal dimissionario governo Draghi, è stata sonoramente stroncata dai vertici europei. Si dovrà dunque attendere sino al 6 ottobre per sapere se ci sarà o meno un price cap al tetto del gas e ciò dovuto al veto imposto dall’Ungheria, dalla Slovenia, dall’Austria, dai Paesi Bassi, dalla Repubblica Ceca e infine dalla Germania. Inutile dirlo, a pesare maggiormente è stato il dissenso di quest’ultima, la quale teme il blocco totale di qualunque fornitura di gas russo e con essa uno stop della propria industria, un aumento della disoccupazione e il rischio di tensioni sociali: in breve, no gas, no Pil. Di fronte a questa decisione gli osservatori economici si sono divisi in due blocchi, quello degli ottimisti da una parte e dei pessimisti dall’altra.

Dalla parte degli ottimisti

Chi nonostante tutto continua a vedere il bicchiere mezzo pieno confida nella razionalità degli attori economici e nelle aspettative, si spera positive, del mercato (le quali, almeno al momento, riemergono puntualmente nelle analisi statistiche). Dal lato razionale, l’idea che in breve tempo la Russia possa reindirizzare i propri gasdotti verso la Cina e l’India, così come si potrebbe fare con la canna per irrigare il giardino, risulta priva di fondamento. Da ciò ne consegue che senza l’Europa a spingere la domanda, al gas russo non resti che venir bruciato in Siberia (come già avviene) per mantenere la stabilità dei giacimenti. Sempre in quest’ottica, è ritenuto altrettanto assurdo che l’establishment russo continui nell’autoflagellazione della propria economia, la quale registra un calo del Pil a doppia cifra. Certo, c’è chi, soprattutto in Italia, dirà che tutto sommato poteva andare peggio e che quindi le sanzioni funzionino poco, il realtà il quadro è più complesso. La Russia sta letteralmente facendo di tutto per mantenere stabile la propria economia e ci riesce grazie a importazioni ridotte e maggiori entrate dal comparto commodities (grano, gas, petrolio, fertilizzanti ecc.). Tuttavia, proprio le scarse importazioni fanno presagire un venturo collasso della produzione interna, dovuto principalmente alla difficoltà nel reperire componenti ad alto contenuto tecnologico, ormai da anni in outsourcing (come, ad esempio, le turbine della Siemens per i gasdotti). Certo, se Atene piange Sparta non ride e l’attuale inflazione europea (trainata soprattutto dal comparto energetico, oltre che dai colli di bottiglia) n’è la prova; ma al momento dire chi, tra Ue e Russia, spunterà partita non è facile.

Un altro elemento a favore degli ottimisti è quello che riguarda il livello di stoccaggio delle riserve di gas nazionali, a cui si sta ora accompagnando una politica di risparmio energetico e la solidarietà promossa in seno all’Ue. Il governo Draghi, infatti, ha appena approvato il piano di risparmio energetico nazionale, che entro poche settimane dovrebbe essere reso operativo, il quale prevede che il riscaldamento si accenda più tardi, resti in funzione un’ora in meno e si abbassi di un grado per l’intera stagione invernale. Insieme a queste misure il Ministero della Transizione Ecologica ha ha fornito anche i numeri sull’approvvigionamento alternativo per evitare eventuali shock causati dallo stop al gas russo; come ad esempio la massimizzazione della produzione a carbone e a olio delle centrali già esistenti e regolarmente in servizio, che contribuirà da solo (per il periodo 1° agosto 2022 – 31 marzo 2023) a una riduzione di circa 2,1 miliardi di metri cubi di gas.

Le stime sull’impatto di tutte le misure di contenimento previste dal Mite porteranno ad un potenziale risparmio di circa 5,3 miliardi di Smc di gas, conteggiando anche la massimizzazione della produzione di energia elettrica da combustibili diversi dal gas (circa 2,1 miliardi di Smc di gas) e i risparmi connessi al contenimento del riscaldamento (circa 3,2 miliardi di Smc di gas), cui si aggiungono le misure comportamentali da promuovere attraverso campagne di sensibilizzazione degli utenti ai fini di ottonere un atteggiamento più virtuoso nei confronti dei consumi. Attualmente, e come già anticipato, il piano di stoccaggio nazionale di gas in vista del prossimo inverno (quale potenziamento dalle misure anticrisi energetica approvate successivamente alla guerra in Ucraina) procede puntualmente. Al primo settembre 2022 gli stoccaggi erano all’83%, in linea con l’obiettivo di riempimento superiore al 90%.

A questa lettura ottimistica del presente si accompagna a braccetto anche l’ultimo report trimestrale dell’Istat che vede un’economia italiana non ancora duramente colpita dalla crisi energetica, anzi, i dati riportati nel report sono tutt’altro che negativi. Nel secondo trimestre del 2022 il Pil nazionale è aumentato dell’1,1% rispetto al trimestre precedente e del 4,7% nei confronti del secondo trimestre del 2021. La variazione quindi acquisita per il 2022 è pari a +3,5%. Rispetto al trimestre precedente, invece, tutti i principali aggregati della domanda interna sono in ripresa, con un aumento dell’1,7% sia dei consumi finali nazionali, sia degli investimenti fissi lordi. Infine, le importazioni e le esportazioni sono aumentate, rispettivamente, del +3,3% e del +2,5%.

Il bicchiere mezzo vuoto e la crisi in arrivo

Chi invece vede il bicchiere mezzo vuoto legge i dati del momento come l’annuncio dell’imminente recessione. Goldman Sachs, ad esempio, ha previsto un aumento dei costi energetici europei, a partire dall’inizio del 2023, per un importo di 2 trilioni di dollari, pari al 15% del Pil europeo (e lo scenario migliore, nel peggiore si parla 4 trilioni e del 30% del Pil). Dal punto di vista del consumatore ciò si tradurrebbe con un aumento mensile delle bollette pari a 500€ (nel migliore degli scenari) e di 590€ nel peggiore. Considerando l’affitto, una macchina e l’inflazione che divora il potere d’acquisto, anche uno stipendio medio rischia di non essere più uno scudo efficace contro il caro vita. Sempre per restare in tema aumenti, anche Confartigianato ha annunciato che col caro energia sono a rischio 881.264 micro imprese e quindi 3.529.000 di posti di lavoro. Già ora le bollette stanno mettendo in ginocchio le imprese, soprattutto quelle energivore, che poi sono quelle che forniscono i materiali per la trasformazione degli altri prodotti. Un esempio esplicativo è quello delle vetrerie che devono mantenere accesi i forni e il cui vetro serve per praticamente di tutto, dalle bottiglie per il vino ai barattoli per la conserva. Infine, ad annunciare che il canarino in miniera è prossimo alla morte, si è aggiunta anche l’agenzia di rating Fitch, la quale stima che con un flusso di gas russo pari al 20% (sempre miglior scenario) si avrà un effetto negativo sul Pil tedesco pari al 3% e su quello italiano del 2,5%.

Che cosa succederà nei prossimi mesi?

Chi ha ragione? Lo si vedrà solo col tempo, ma due sono gli aspetti che devono far riflettere. Il primo, come ha ammesso la stessa Lagarde, è che la Bce ha sbagliato le proprie valutazioni circa l’impatto del Covid e della guerra in Ucraina sull’inflazione. Come riportato dall’agenzia Ansa, Lagarde ha affermato che “Abbiamo fatto degli errori nelle previsioni sull’inflazione, come tutte le istituzioni internazionali, come molti economisti, perché è virtualmente impossibile prevedere e includere nei modelli il Covid, la guerra in Ucraina, il ricatto sull’energia. Me ne assumo la colpa perché sono il capo dell’istituzione; aggiungendo poi, “Abbiamo fatto errori, abbiamo capito le cause, e vi posso assicurare che lo staff aggiorna costantemente, integra quello che finora non era stato preso in considerazione”.

Il secondo, invece, riguarda il fatto che la moneta (l’euro) e il mercato (Ttf) restano preminenti rispetto alla crescita. L’euro continua infatti a oscillare sulla parità col dollaro e in questi ultimi tempi è sceso addirittura sotto. I motivi sono tanti: crisi ucraina, crisi energetica, tassi d’interesse ancora bassi. E se da un lato una moneta debole permette di agevolare le esportazioni, dall’altro il rovescio della medaglia è presto detto: l’import subisce un colpo molto forte. E se il mercato (Ttf) dove il gas viene scambiato rimane a livelli estremi, il risultato di questa addizione è presto detta. D’altra parte, per apprezzare la moneta (anche se si ricorda che non fa parte degli obiettivi della BCE) occorre aumentare i tassi, come ha fatto Francoforte l’altro giorno per bloccare l’inflazione. Ma come si sa, un aumento dei tassi significa costo del denaro più alto, mutui più cari, rischio paralisi economica. La via è stretta, non vi è dubbio. Ma sta alla politica fiscale, non a quella monetaria, trovare una soluzione efficace per edulcorare l’impatto economico della crisi.

A conti fatti l’accoppiata tra questi due elementi (poiltiche monetarie e modelli previsionali) rischia di complicare ulteriormente la situazione dei ceti meno abbienti, soprattutto se accompagnata dalla cecità nei confronti della lettura geopolitica del momento storico. D’altronde, come sostengono da mesi Fabbri e Caracciolo, il popolo russo vive di gloria immateriale: se il blocco del gas si renderà strategico non ci sarà valutazione economica e/o razionale che possa impedire alla Russia di continuare la sua azione di stop all’occidente.

Difficile sapere come andrà a finire ed ancor più difficile è sapere quando la crisi potrà finire. L’Europa ha di fatto scelto una via etica di grande valore: sanzionare la Russia per aver invaso uno Stato straniero. Ma gli stati europei saranno altrettanto pronti a scontare una crisi economica quasi inevitabile per i loro ideali?

Di Claudio Dolci e Roberto Biondini

In gas veritas. Come nasce la dipendenza dal gas russo e dove ci porterà

Di chi è la colpa della dipendenza dal gas russo e quale governo ha contribuito maggiormente? Con l’aumento dei prezzi del gas, dovuti sia al disallineamento tra domanda e offerta (blocco dei gasdotti russi) sia alle speculazioni borsistiche (Ttf), è partito l’ormai classico scarica barile tra le forze politiche. Dapprima ad attaccare è stata la destra, con Berlusconi, che dalle colonne del Corriere ha rivendicato i successi dei suoi governi, da qui il contrattacco da sinistra. Ma di chi è davvero la responsabilità?

Le accuse della destra

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera (il 31 Agosto), Silvio Berlusconi ha dichiarato: «Con il mio ultimo governo, all’inizio del 2011, avevamo ridotto la quota del gas russo al 19,9 per cento. Tre anni dopo, all’inizio del 2014, con il governo Letta la dipendenza dalla Russia era salita al 45,3 per cento: più del doppio. Con il governo Conte nel 2019 ha raggiunto il livello record del 47,1 per cento». I dati riportati dal Cavaliere sono imprecisi, come dimostrato dalla ricostruzione di Pagella Politica, ma nel complesso dicono il vero. La dipendenza da Gazprom ha effettivamente ripreso a correre molto velocemente dopo la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, anche se una tendenza all’aumento era già in essere nel 2011, con le importazioni al 27% e non il 19,9% (un dato questo, relativo al 2010).

Imprecisioni a parte, è stato sufficiente il grafico delle importazioni per fornire ad Affari e Verità la possibilità di lanciare una stoccata al Pd Lettiano, inferta per mezzo di un articolo a firma di Franco Bechis. Quest’ultimo ripercorre le tappe del post-berlusconismo rintracciando uno per uno i responsabili dell’aumento delle importazioni: Monti e Letta (i più visibili), giungendo infine a Prodi (il regista occulto). Scrive il direttore di Affari e Verità: “è stato il professore di Bologna – Prodi – a preparare il cammino per lo sfondamento di Gazprom in Italia”. Ma come? Attraverso incontri privata e bilaterali. “Ai primi di gennaio – racconta Bechis – del 2014 Gazprom rese pubblici i suoi dati di bilancio, spiegando con soddisfazione di avere aumentato l’export verso la Ue del 20%. Ma la gemma di quel rapporto era stata proprio l’Italia di Letta (e forse di Prodi): l’export di gas verso Roma era cresciuto del 68%, più di tre volte la media europea”. La ricostruzione di Bechis collima con le parole di Berlusconi e col grafico sull’andamento delle importazioni, ma elude le ragioni sottostanti a quegli accordi.

Ciò che la destra non dice sul gas russo

Il primo grande escluso dal dibattito sul gas è il contesto geopolitico. Negli anni in cui si è scelto di affidarsi a Gazprom, nel nord d’Africa si stava via via diffondendo quella che poi verrà chiamata la primavera araba. Tunisia, Egitto, Libia e Yemen erano attraversate da proteste civili, molto violente, le cui ragioni erano sia economiche (l’inflazione aveva raggiunto livelli allarmanti, colpendo i generi alimentari e quindi soprattutto le fasce più deboli), sia politiche (con la richiesta di maggiore democrazia). Si temeva il tracollo delle autocrazie e con esse dei contratti con le aziende del comparto energetico, così ci si guardò attorno, verso altri partner. Il problema è che già all’epoca, come riportato da Formiche.net, la Russia possedeva ambizioni geopolitiche tutt’altro che innocue: nel 2009, Gazprom (per mano del governo) aveva iniziato quello che oggi potremmo definire come l’incipit della guerra in Ucraina, ponendo uno stop arbitrario alle industrie ucraine. Come riportato da Marco Mayer “In Europa si reagisce avviando un processo di diversificazione dei paesi di provenienza per ridurre la dipendenza dal gas russo. In Italia (e in Germania) NO”. Questa difformità rispetto alle mosse degli altri membri dell’Ue può essere spiegata, come fa Mayer, studiando la ramificazione di Gazprom a seguito delle liberalizzazioni che hanno coinvolto l’Italia dell’epoca. “A partire dal 2008 – scrive Mayer –  Gazprom raggiunge un accordo per l’acquisto di ENIA, sigla una intesa con A2A GazpromBank e GazpromExport  assumono il controllo di un importante gruppo di trading: Centrex”.

Responsabilità negate: l’azione geopolitica della Russia di Putin

A conti fatti nessun governo può dirsi né dalla parte della ragione, né da quella dei diritti, ed è quest’ultimo punto a ferire maggiormente. Già nel 2009 la Russia aveva dimostrato di considerare l’Ucraina un ostacolo, tanto da inficiarne le capacità produttive, e nel 2014 diede l’avvio alla guerra del Donbass, eppure, in entrambi i casi, l’Italia continuò ad approvvigionarsi da Gazprom con volumi via via più consistenti. Ma perché? Una risposta a questa domanda la fornisce Stefano Silvestri, Presidente dell’Iai e direttore di Affari Internazionali, che intervistato dal Riformista non lascia scampo a chiunque provi a scansare le responsabilità sulla dipendenza dal gas russo. “Abbiamo cercato di andare d’accordo con tutti, facendo del cerchiobottismo la cifra del nostro agire in politica estera. E quel poco o tanto che si è fatto è andato via via scemando fino a scomparire […] c’è una politica dell’ENI, come al solito e giustamente, ma poi il vuoto. E come dare torto a Silvestri? In politica estera l’Italia segue la direzione di un’azienda privata, che ha i suoi interessi specifici, e poco altro; prova ne è il fatto che l’ultimo Ministro degli Esteri è stato Luigi di Maio. Se chiunque può dirigere la Farnesina, meglio ancora se tecnico (come sostenuto da Silvestri), allora vuol dire che la politica italiana in campo estero non esiste.

Per decenni si è lasciato che il piano inclinato facesse il suo corso, senza che Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e II, provassero ad invertire la rotta, anzi. Si dirà che in un governo di coalizione è difficile imporre cambi di passo radicali, oppure che servono anni per anche solo avviare un processo di diversificazione; eppure, il governo Draghi, in soli quattro mesi, ha fatto quello che chi era venuto prima di lui semplicemente non aveva il polso di fare; per inciso, la Russia non è diventata un’autarchia dal 2022.

La conseguenza del cerchiobottismo italiano

Le certezze sono entità sdrucciolevoli, perché quando si pensa di poter far affidamento su di esse svaniscono lasciando solo il vuoto dell’ignoto. Tuttavia, alla luce di quanto emerge oggi, è possibile fare qualche ipotesi molto simile a una certezza.

La prima è che la crisi inflazionistica che sta colpendo l’Ue sia differente da quella a stelle e strisce. Negli States l’inflazione galoppa, ma gli indicatori macroeconomici mostrano comunque una ripresa sufficientemente forte da poter assorbire un incremento di tassi più ampio di quello già messo in campo dalla Fed. Come ha scritto l’economista Alessandro Penati, su Domani, a luglio negli Stati Uniti c’erano due offerte di lavoro per ogni disoccupato, le imprese (dell’S&P 500) avevano già iniziato a far fronte all’inflazione trasferendo i costi aumentando il margine operativo lordo e soprattutto, grazie allo scisto, petrolio e gas non hanno mai rappresentato un problema (salvo sul piano ambientale…). Per Penati, se l’Ue “segue la Fed (nel rialzo continuo dei tassi) la recessione non è più un rischio, ma una certezza” e visto che il Tpi (lo scudo anti-spread) non è ancora mai entrato in funzione, non si sa come si comporteranno i mercati nei confronti del debito italiano.

La seconda certezza riguarda il fatto che nessun Paese possa davvero salvarsi da solo, un concetto questo, che fatica a giungere a destinazione. Vista la lentezza nell’approvare il debito comune europeo, negato durante la Grande Recessione, è difficile che una soluzione europea arrivi in tempo utile per salvare le imprese già adesso in ginocchio. Purtroppo, ad oggi l’Ue marcia ancora divisa sul fronte energetico, ci sono sì degli spiragli, come il tetto al prezzo del gas e lo scorporo dell’energia rinnovabile da quella prodotta col fossile sul Ttf, ma è ancora tutto avvolto da eccessiva vaghezza e lentezza. Occorre poi considerare che per gli esperti del settore energetico, Tabarelli (di Nomisma) e Scaroni (ex A.D. di Eni), il tetto al prezzo del gas è fantascienza. Lo scorporo delle fonti energetiche sul Ttf, invece, rischia (soprattutto se accoppiato a uno stop delle quote di emissione, ETS) di rallentare l’avanzata delle rinnovabili. Oggi, infatti, ci si stupisce del fatto che gas ed eolico vengano quotati allo stesso prezzo, ma come riportato anche dal Corriere della Sera, questo meccanismo in passato ha favorito l’espansione delle rinnovabili; quando il loro costo di realizzazione era sconveniente rispetto al fossile. Anche se però è corretto sostenere che, in questo periodo transitorio di alto livello dei prezzi dovuti a tensioni geopolitiche piuttosto che ad aumenti di costi di produzione, il prezzo delle energie rinnovabili debba essere sganciato da quello delle energie fossili, così da evitare una speculazione redditizia per le industrie ed onerosa per la società.

La terza certezza riguarda proprio l’inverno che ci attende. Il riempimento delle riserve di gas non ci salverà da un’ipotetica, ma assai verosimile, chiusura totale di Nord Stream e non lo faranno neppure i contratti stipulati dal governo Draghi negli ultimi mesi. Quest’ultimi purtroppo diventeranno operativi solo col tempo, mentre le riserve di gas servono perlopiù per coprire i picchi di richiesta e non per sopperire in toto alla domanda energetica interna del Paese. Un dato confermato anche dalle parole di Benjamin Moll, professore di economia alla London School of Economics, il quale ha detto “è utile avere uno stoccaggio di gas pieno, ma anche se è pieno, dovremo ridurre la domanda”. Come riportato da Palombi, sul Fatto Quotidiano, la Germania non ha solo riempito le proprie riserve, ma ha anche ridotto i consumi, con l’obiettivo di fare a meno del 20% della domanda interna entro l’autunno. In Italia, invece, non si considera credibile uno stop totale delle forniture russe e pertanto si è scelto per il momento di non ridurre i consumi, che nei primi sei mesi del 2022 sono scesi di solo il 2%, contro il 15% della Germania. Anche se ad oggi qualcosa in più si sta facendo. Esiste infatti una proposta del governo di ridurre fino a 2 gradi e di un paio d’ore l’uso del gas nelle abitazioni. Un sacrificio non oneroso tecnicamente, ma politicamente scomodo da sostenere in campagna elettorale e per questo scansato dai leder politici.

Si dice che errare sia umano, mentre perseverare sia diabolico. Ecco, forse questa è la cifra che descrive il panorama politico italiano dove lo sport nazionale, lo scarica barile, impedisce di cogliere l’immobilismo della classe dirigente che negli anni ha ignorato il problema energetico perché priva di una qualsivoglia agenda geopolitica.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

E’ guerra delle Valute

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Che cosa sta succedendo all’economia Russa? In principio, dopo il blocco dello SWIFT, il congelamento delle riserve in valuta estera e il crollo del rublo, sembrava imminente il default economico, ma poi l’Orso ha reagito con una zampata; dapprima alzando i tassi d’interesse della banca centrale, sino al 20%, e successivamente obbligando i Paesi Occidentali ad aprire conti per la conversione degli euro in rubli presso Gazprom Bank. E in questo modo, tra mosse e contromosse artificiali, si è consumato un conflitto economico che pare ora prossimo all’epilogo, con l’avvicinarsi di un default che di reale non ha nulla, ma i cui effetti avranno modo di propagarsi ben oltre i confini russi.

La forza del dollaro

Le armi economiche sono da sempre parte dell’arsenale tattico americano, da quando cioè gli Stati Uniti si sono imposti non solo come guardiani dell’ordine globale, ma anche come possessori dell’unica moneta in grado di dettar legge nel mondo economico. Ciò fu dapprima possibile grazie al golden standard (1922), un sistema che consentiva la convertibilità del dollaro con l’oro, e poi, dal 1981, grazie a una politica monetaria molto stringente imposta da Regan e Volcker. Come scrive Luca Fantacci, su Ispi, “l’attuale paradossale versione dell’egemonia monetaria, in cui la moneta chiave (il dollaro) è tanto più forte (in termini di diffusione globale) quanto più debole (in termini di competitività) è l’economia dell’emittente: in effetti, l’accumulazione di riserve in dollari in tutto il mondo è semplicemente il riflesso dei deficit di bilancia dei pagamenti americani. Questa peculiarità del biglietto verde per eccellenza, lo ha reso la moneta più utilizzata per gli scambi commerciali internazionali (dove occupa il 40% dei pagamenti tra Paesi) e come punto di riferimento sia per il mercato, sia per l’apprezzamento delle altre valute di riserva (come l’euro, la sterlina, lo Yen e i Renminbi). Non è quindi inusuale la presenza di ingenti quantità di dollari nella quota di valuta estera detenuta dagli Stati, come nel caso della Russia, né l’utilizzo della stessa come moneta per il rimborso delle cedole sui Bond. Sempre gli Stati Uniti, oltre alla moneta, hanno da sempre usato mezzi di pressione economica per destabilizzare economie di Paesi avversi, dal celebre embargo su Cuba agli 8,9 mld versati nel 2014 da Bnp Paribas, sanzionata dall’Ofac (Office of Foreing Assets Control), per aver fatto operazioni non consentite con Sudan, Iran e altri Paesi ritenuti ostili da parte di Washington. Di fatto esisteva una black list e un modus operandi a modi “bando” ben prima dell’attuale guerra in Ucraina, anche se questa volta ci sono almeno un paio di peculiarità degne di nota.

La guerra dei numeri

La prima è che la Russia rischia di finire in default non per incapienza o diniego nei confronti del contratto, ma perché non può materialmente adempiere al contratto, a differenza di quanto accaduto in Argentina e in Pakistan. Fino al 24 maggio, infatti, era in vigore una licenza, la 9A, che consentiva alla Russia di pagare i propri debiti in valuta esterna, ma il suo mancato rinnovo fissa oggi la data del default russo al 23-24 giugno, quando andranno in scadenza le prossime cedole. Se quindi il ministero delle finanze moscovita non dovesse riuscire a scoprire metodi alternativi per saldare i propri contratti esteri, ecco che scatterebbe l’avvio della procedura per il default, con altri 30 giorni di vita prima della definitiva messa al bando economico, sancito dall’attivazione dei Credit default swaps (già aumentati dell’85% su base settimanale).

Tuttavia, alla bancarotta russa mancherebbero quei presupposti di base che si verificarono col caso argentino. Il rublo, infatti, grazie ai continui flussi di denaro europeo (quasi un miliardo al giorno) e agli obblighi di conversione della valuta estera, aveva raggiunto il suo valore massimo degli ultimi 4 anni, per poi perdere terreno in questi giorni (a seguito del taglio degli interesse da parte della banca centrale russa, oggi scesi dal 20% all’11%). Un balzo, quello del rublo, talmente forte da imporre continue revisioni nei confronti della strategia manipolatoria adottata dalla banca centrale russa. D’altronde, nessuno vuole più i rubli e quindi l’aumento improvvido della domanda interna è un risultato del tutto artificiale, frutto dell’obbligo, per qualunque soggetto russo che tratti valuta estera, di convertirla immediatamente. Una mossa questa, che di recente ha subito un brusco dietrofront da parte della banca centrale russa stessa, che ha passato la quota di valuta da convertire in rubli dall’80% al 50%. La ragione di questa mossa è molto semplice, il rapporto tra import ed export ha creato un forte avanzo commerciale, la russa esporta materie prime ma non importa più quasi nulla; e tutto ciò non è un bene, soprattutto per un Paese che vive di esportazioni verso l’esterno, da qui la necessità di rallentare l’apprezzamento del rublo sull’euro e sul dollaro. Nei fatti però, al netto delle mosse e contromosse per compensare l’effetto delle sanzioni, l’economia russa non gode di buona salute. Il Pil, ad esempio, è già dato in caduta libera con una forchetta che oscilla tra un meno 8/10% (e solo per il 2022), mentre l’inflazione è scesa solo di qualche decimo di punto, dal 17,8 al 17,5%, restando comunque talmente alta da obbligare Putin stesso ad aumentare 10% le pensioni e il salario minimo; lasciando così intendere che l’aumento dei prezzi non calerà tanto velocemente.

In breve, è vero, la caduta dell’economia russa è frutto delle sanzioni, le quali (nonostante il continuo approvvigionamento di soldi da parte dei Paesi dell’Ue) stanno colpendo duramente Mosca. Tuttavia, vi è dell’artificio sia nel venturo default tecnico, sia nelle mosse volte a scongiurare questo epilogo. Di fatto, Russia e Stati Uniti stanno partecipando e barando allo stesso gioco e con analoghi strumenti. Da una parte si sta sostenendo la moneta domestica, il rublo, con artifici di ogni sorta, da obblighi a conti correnti paralleli, mentre dall’altra parte si dichiara un default quando lo Stato debitore, in questo caso la Russia, sarebbe disposta a pagare quanto dovuto, ma semplicemente non può. Si arriva così alla seconda peculiarità di questo duello ambientato sullo scacchiere economico internazionale, ed è il rischio che a perdere siano entrambi i contendenti, anche se per ragioni differenti.

Le conseguenze

Non è necessario essere degli indovini per capire che il contraccolpo più pesante di questa guerra economica sarà assorbito dalla Russia, come testimonia il direttore del dipartimento di Ricerca e previsione della banca centrale russa stessa, Alexander Morozov, il cui intervento è stato riportato in versione integrale da Il Foglio. Lo choc dal lato dell’offerta sarà, secondo Morozov, paragonabile a quello della recessione degli anni ’90, tranne per il fatto che serviranno più anni per riprendersi. E ciò è dovuto al fatto che i comparti ad alta innovazione tecnologica necessitano di componenti di provenienza estera, i quali sarà molto difficile, se non impossibile, sostituire, rallentando così efficienza e produttività. D’altronde, com’è stato anche per l’embargo su Cuba, il rischio è che la Russia debba regredire o nel caso migliore accontentarsi di standard tecnologici più bassi rispetto a quelli attuali e pre-invasione dell’Ucraina. Per Morozov, inoltre, “si prevede che il declino della trasformazione tecnologica dell’economia russa continuerà in questa fase, con l’invecchiamento delle strutture materiali e tecniche e la loro sostituzione con prodotti sostitutivi meno produttivi”. Nei fatti, i russi non torneranno a guidare le Lada, ma poco ci mancherà (almeno sul piano tecnologico). Sul piano internazionale, invece, il default peggiorerà ulteriormente la reputazione di Mosca, rendendo ancor più difficile l’accesso a capitali per finanziare il proprio debito. Certo, siano a quando la Russia potrà contare sui miliardi che i Paesi dell’Ue le inviano ogni giorno per gas e petrolio, l’accesso ad ulteriore credito potrebbe non servire, ma il sesto pacchetto di sanzioni potrebbe vedere la luce nelle prossime settimane rendendo imminente un cambio di strategia per il Cremlino.

Sul versante europeo, invece, il default russo potrebbe avere delle conseguenze non trascurabili, anzi. In un articolo uscito su Domani, a firma di Vittorio da Rold, viene illustrato come il debito mondiale abbia ormai raggiunto livelli preoccupati, con un importo complessivo pari a 303 mila miliardi di dollari e di come un default russo potrebbe innescare un effetto panico sui mercati di tutto il mondo. Come riportato da Rold Gopinath (numero due del Fondo Monetario Internazionale) il quale afferma che l’eventuale default russo avrebbe conseguenze soprattutto in Europa e ha nominato l’Austria e l’Italia come le più esposte alla Russia dei paesi europei. Il ministro dell’Economia Franco ha però rassicurato sul fatto che l’Italia risulta esposta con la Russia solo per 8 mld di euro, ma il commento di Gopinath era riferito soprattutto all’alto debito del nostro Paese, il quale potrebbe subire più di altri le turbolenze di un mercato irrequieto. Occorre inoltre considerare che diversi istituti di credito italiano sono esposti ben di più rispetto ai valori dichiarati dal ministro Franco. La Stampa, a marzo, riportava un’esposizione complessiva pari a 25 mld di euro di crediti elargiti dal settore bancario italiano verso la Russia e il 27 maggio, Milano Finanza, quantificava a 7,5 i mld concessi a Mosca dalla sola Unicredit.

Oltre allo choc immediato sulla finanza russa e su quella europea, non è poi da escludersi che l’arma economica impiegata dagli Usa non possa nuocere anche al dollaro stesso. Sono in molti, infatti, a ritenere che dopo questa entrata a gamba tesa sulla solvibilità dei conti di un Paese straniero possa andarsi affermando un sistema non più dollaro-centrico, magari sostituito dai renminbi. Ad oggi è solo uno scenario ipotetico, ma la Cina si è già mossa nella creazione di un sistema di pagamento internazionale sganciato dallo SWIFT e lo Yuan digitale è già una realtà, a differenza delle valute Occidentali, senza considerare poi che una gran parte del mondo ha votato contro la risoluzione che condannava la Russia per l’invasione dell’Ucraina.

L’Occidente è oggi in grado di vincere la guerra economica contro la Russia, ma non sarà a costo zero e potrebbe rivelarsi, soprattutto nel lungo periodo, un boomerang. D’altronde l’attuale domanda interna di combustibili fossili sta venendo rimpiazzata con fornitori dal pedigree non meno autocratico rispetto a quello russo e non è chiara quale sia la politica estera intrapresa dell’Europea…

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

La mancanza di consapevolezza del mondo che verrà

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Il conflitto in Ucraina è riuscito a riunire i Paesi europei sotto il vessillo della Nato, in difesa della democrazia e contro l’aggressione a uno Stato sovrano. Per questo, dal 24 febbraio ad oggi, sono stati varati 5 pacchetti di sanzioni contro la Russia e inviate armi per la resistenza dell’Ucraina. Ma al di là delle nobili intenzioni, gli Stati europei sembrano sottovalutare sia i costi economici, sia quelli morali che questa presa di posizione comporta.

“Non è finita, finché non è finita.” Così diceva Yogi Berra, famoso giocatore di baseball statunitense, in merito alla necessità di non arrendersi mai fin tanto che anche una piccolissima possibilità di vittoria resta viva. Ed è a tale possibilità che oggi si stanno affidando milioni di cittadini ucraini, che da più di due mesi lottano per difendere il proprio territorio disumanamente e illegalmente invaso dalle forze russe. Ogni giorno le notizie che ci provengono dai territori di guerra ci raccontano di situazioni militari, civili e umanitarie tanto aberranti quanto distanti da quell’idea illuministica di pace tra i popoli e risoluzioni diplomatiche tra le nazioni su cui si è fondata l’Europa stessa.

Un mondo in guerra

D’altra parte, quello che non dobbiamo nasconderci è che l’attuale conflitto ucraino non è un’eccezione e probabilmente non sarà nemmeno l’ultima. Questo perché le guerre non hanno mai smesso di comparire, né sull’emisfero boreale, né su quello australe e dalla caduta del muro di Berlino in poi ci hanno accompagnato sino ad oggi: dalle due guerre del golfo, a quella contro il terrorismo combattuta in Afghanistan e in Iraq, a cui sono poi seguite quella in Siria e in Libia. Nel loro insieme tutte queste guerre formano una collana di perle nere gemmate dall’assenza di timore per le conseguenze, perché lontane da noi, e con l’interesse, spesso occidentale, di parteciparvi nel bene e nel male.

Ed è probabilmente per via della sua prossimità ai confini europei che l’attuale conflitto in Ucraina ha scosso così profondamente le opinioni pubbliche europee, smuovendone le radici. Certo, in passato v’era stata anche la guerra in Kosovo, anch’essa nel perimetro dell’Ue, ma non c’erano sul tavolo né l’ipotesi di un conflitto nucleare, né la possibilità di assistere in diretta allo scontro, così come hanno reso possibile le nuove tecnologie, e non vi era neppure una sfida così diretta all’intero impianto valoriale e ideologico su cui si basa lo stile di vita Occidentale.

Sin da subito, infatti, la guerra in Ucraina è stata raccontata come uno scontro tra visioni del mondo: “noi contro loro”, l’Occidente, guidato dall’arsenale della democrazia, che si oppone a un Oriente autocratico composto da Russia e Cina. Una narrazione convincente, ma non sempre corroborata dai fatti, i quali mostrano invece abusi e crimini commessi anche in regimi democratici. D’altronde, la guerra è sempre una cosa sporca, sia che la portino avanti i paladini della democrazia illuminista, sia che a guidarla sia una dittatura. A prescindere dagli schieramenti, ciò che lascia un conflitto sono macerie e vite spezzate in virtù di ragioni geopolitiche e tattiche militari che rendono impossibile l’individuazione di un “uomo” o una società senza peccato. Se quindi è indubbia l’adesione a uno schieramento, pro o contro un sistema valoriale e ideologico a cui fa capo la società stessa, ed in questo caso a favore dell’Ucraina, un Paese invaso e sull’orlo dell’abisso, contro un’autocrazia che si colloca in uno spazio assolutista, guidata da un uomo che si pone al di sopra della Storia, resta pur sempre aperto il tema delle implicazioni di questa scelta di campo.

Lo scenario economico

Da un punto di vista strettamente economico è ormai certa la frenata economica a cui stiamo andando incontro, che si tratti della sola recessione, o della stagflazione, sarà giusto il tempo a dirlo, ma lo scenario non è roseo. L’Unione Europea esce dalla crisi pandemica peggiore che la storia recente ricordi e probabilmente anche dalla crisi economica peggiore dalla sua fondazione, nel 1957. Il 2020 è stato un anno nero, controbilanciato con efficacia dal 2021, grazie soprattutto alla vaccinazione e al fronte comune di stimolo fiscale varato dai 27. Tant’è che l’iniziale spauracchio dovuto al rincaro dell’inflazione, insorto in coda al 2021 a seguito della carenza di materie prime (i famigerati colli di bottiglia), fu ben presto etichettato come una circostanza limitata nel tempo e dovuta all’eccezionale ripresa della domanda di beni. E per questo, nei fatti, rinomati studiosi se non proprio la BCE stessa intimavano prudenza e contenimento del panico circa l’ascesa dell’inflazione, sicuri della sua transitorietà ed incapacità di influenzare la struttura macroeconomica della zona euro in maniera profonda e duratura. Infatti, prima dello scoppio della guerra, la fiducia generale stava crescendo e l’occupazione riprendeva, incoraggiando una visione ottimista del prossimo futuro. Ma poi il 24 febbraio tutto è cambiato, anzi, il mondo è cambiato.

Immediatamente l’Occidente si è schierato contro la Russia, colpevole di aver minato l’indipendenza di uno stato sovrano. Le dichiarazioni, da parte dei vari capi di stato occidentali, a supporto dell’Ucraina si sono fatte via via più affollate e dalle parole, la UE e gli Stati membri, sono passati quindi ai fatti con l’approvazione di sanzioni commerciali mai viste prime, accompagnate dall’invio di armi per sostenere la resistenza.

Ad oggi l’Ue ha varato ben 5 pacchetti di sanzioni, ognuno di portata maggiore rispetto al precedente, ma giunti al sesto (che prevede, sulla carta, uno stop all’importazione di petrolio russo) la macchina europea si è inceppata sul diritto di veto e sulle necessità (geopolitiche, poiché sia geografiche che strategiche) a cui sono soggetti alcuni dei Paesi del patto di Varsavia. Di fatto, i cinque pacchetti già varati coinvolgono svariati ambiti: dal divieto, a partire da agosto 2022, di acquistare, importare o trasferire nell’Ue carbone e altri combustibili fossili solidi (investendo così il comparto energetico), al divieto di esportazione di altri beni, come i prodotti del lusso (ma non solo), e il sequestro di quelli privati (come gli yacht degli oligarchi). Ma dal punto di vista strategico ed economico, le sanzioni più pesanti hanno riguardato l’accesso ai porti dell’Ue per le navi registrate sotto la bandiera della Russia e il fermo del settore finanziario russo. L’Occidente ha costretto l’autocrazia russa all’autarchia, fatta eccezione per il rapporto che Mosca intrattiene con la Cina e con tutti quei Paesi che non hanno varato la risoluzione dell’Onu che condannava l’invasione ai danni dell’Ucraina.

E da un punto di vista etico, non c’è dubbio che queste sanzioni abbiano una natura ammirevole e condivisibile. Tuttavia, ognuno di questi pacchetti ha portato con sé degli effetti economici. Effetti che non solo sono molto più lenti ad apparire ma, proprio per la loro lentezza nel mostrarsi, sono ancora poco considerati tra i governi europei. Ma ad ogni azione corrisponde sempre una reazione.

E qualche segnale si è già palesato nella vita quotidiana. Ad esempio, da transitoria l’inflazione sembra destinata a radicarsi per almeno 2 anni e forse più. Il gas e la benzina, il pane e la pasta, il costo dei mutui e dei prestiti, solo per citarne alcuni, stanno salendo vertiginosamente ed aggredendo una base economica ancora fragile e convalescente dal post pandemia. La differenza sostanziale rispetto a quest’ultima, infatti, è che i prezzi erano fermi e quindi i tassi d’interesse generali rimanevano bassi e stabili, oggi invece i prezzi schizzano e le banche centrali non possono fare altro che rendere il denaro più oneroso per cercare di stabilizzarli. Ed è quello che ha fatto la Fed pochi giorni fa, senza tra l’altro riuscire a frenare un’inflazione all’8,3%. Ma un denaro più oneroso significa anche un aumento del costo per i debiti e per i finanziamenti, col rischio di innescare una paralisi creditizia. Blocco che si aggiungerebbe a quello, anch’esso potenziale, del settore manifatturiero, suscettibile al costo delle utenze del gas, della luce e del petrolio. In breve, una situazione piuttosto pericolosa per il futuro. È chiaro che le boccate d’aria date dai bonus sono sì necessarie, ma non sufficienti e presto bisognerà trovare nuovi mercati (e l’Italia qualcosa sta già facendo con accordi in Africa) per sopperire alla domanda di materie prime: ma il prospetto per il futuro non pare certo rose e fiori. Si sta comunque limitando “un’industria” con dei colpi protezionistici non da poco (per buona pace dei sovranisti). Si stima che milioni di persone nel mondo soffriranno la fame per questa guerra (!). E l’impatto sociale dovuto alla crisi economica si manifesterà anche a causa della crisi migratoria impellente, se la guerra non finirà nei prossimi mesi e nulla lascia presagire un esito differente.

Un dibattito a senso unico

Dal punto di vista morale questa guerra ha già prodotto più di un illustre vittima. Sin dall’inizio, come fu profetizzato da Monti stesso, i principali organi di stampa hanno preso partito senza sé e senza ma, conducendo uno scontro ben più acceso di quello tra no-vax e pro-vax. La logica di fondo suona più o meno così: c’è un aggressore e un aggredito, e persino un cretino capirebbe da che parte stare, perché è ovvio. Ed in parte forse è anche così, peccato che vi sia altro di cui tener conto. Come ha ben argomentato Francesco Fronterotta sul Riformista, la storia (come materia di studio) esiste per capire le cause di qualcosa, così come il dibattito ci aiuta a ragionare sulle parti coinvolte in un evento. Invece, ciò che accade, è che si sovrappongano due parole con significati diversi, come sono spiegare e giustificare, che in questa vicenda vengono usate alla stregua di sinonimi, com’è stato negli anni per favola e fiaba. Quest’ultima è priva di morale, mentre la prima deve alla morale stessa la sua genesi.

E purtroppo, operare dei distinguo non ha salvato dalle liste di proscrizione insigni intellettuali e studiosi, da Luciano Canfora a Lucio Caracciolo. Il primo accusato a vario titolo di essere un comunista filoputinista, una sorta di ossimoro vivente, mentre il direttore di Limes, nota rivista di geopolitica, ha osato sostenere che quella attuale sia una guerra per procura. Ed in quest’ultimo caso è interessante notare come l’onta per aver sollevato un simile dubbio non abbia scalfito Dario Fabbri, che dagli studi di La7 conduce Mentana e il suo pubblico nel mondo geopolitico e che sul primo numero di Domino ha scritto: “Di nuovo alla testa di un compatto fronte occidentale, in Ucraina gli Stati Uniti stanno stravincendo la guerra per procura”. Sarà anche Fabbri al soldo di Mosca? Già, perché la ricerca di chi cerca di spiegare ha condotto il Copasir a investigare sugli ospiti dei Talk Show, sempre che la Rai non li cancelli prima, risolvendo così il problema alla radice. Non che sulle altre reti il dibattito sia più pacato e le ipotesi di cura più sobrie, anzi, come ben dimostra lo scambio tra Scurati e Feltri, ormai dialogare pubblicamente in modo pacato della guerra in Ucraina è pressoché impossibile.

Eppure, cercare di capire, darsi un metodo per indagare i fenomeni del mondo rappresenterebbe il fondamento dell’illuminismo e ciò che l’ha distinto dalla fede e dalle altre forme di credenze dogmatiche. Perché ora non è più così? Forse perché di fatto, ci piaccia o meno, l’Ue è in guerra così come lo sono gli Stati Uniti e quindi, una volta operata la scelta di campo, diventa impossibile leggere il conflitto da una diversa angolatura, poiché vi si è coinvolti mente e corpo. E quando viene meno la distinzione tra il soggetto e l’oggetto di studio, cessa di conseguenza ogni analisi metodica; d’altronde, in guerra la comunicazione è questa, nulla di cui stupirsi. Salvo per il fatto che una vera voce unica, almeno in Europa, non è ancora pervenuta, anzi, regna ancora il caos e le posizioni di mediazione, seppur vi sia una guerra e sia stata presa una posizione netta. Se vi è quindi una convergenza su chi condannare per la guerra, come potrebbe fare da sé qualunque cretino, restano molti dubbi sulle strategie e gli obiettivi da perseguire, nonché sulle modalità d’azione dell’Ue: anche se di questi temi e sul ruolo di storici e studiosi di geopolitica, è meglio non parlare, almeno ad alta voce e in pubblico. Beata democrazia.

In breve

Di conseguenza, siamo davvero consapevoli di che cosa implicano le scelte circa questo conflitto e di come ci stiano modificando? È fantastico difendere i principi di libertà e democrazie, ma saremo pronti e maturi a patire anche lacrime e sangue, quando verrà il momento? Siamo consapevoli che è ancora possibile che nonostante tutto la Russia vinca il conflitto, e che cosa succederà alle sanzioni? Resteranno? E come faremo a riaprirci al diverso in un clima da caccia alle streghe com’è quello attuale? A questi interrogativi dovremo saper rispondere molto presto, perché avere la botte piena e la moglie ubriaca non sarà di certo possibile e c’è pure il rischio che alla fine non riusciremo neppure ad ottenere nessuna delle due.

di Roberto Biondini e Claudio Dolci

I soldi non fanno i vincitori: occorre una strategia

Come l’industria bellica influenza le decisioni politiche

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Correva l’anno 1961 quando il 34esimo Presidente americano, Dwight D. Eisenhower, pronunciò le seguenti parole: “Nel governo dobbiamo stare in guardia contro le richieste non giustificate dalla realtà del complesso industriale militare. Esiste e persisterà il pericolo della sua disastrosa influenza progressiva. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione metta in pericolo la nostra democrazia. Solo il popolo allertato e informato potrà costringere ad una corretta interazione la gigantesca macchina da guerra militare….in modo che sicurezza e libertà possano prosperare insieme”. Ed oggi, a 60 anni di distanza, è difficile non intravederne il valore profetico e l’influenza che il comparto militare continua ad esercitare sulle democrazie di tutto il mondo.

Il mercato delle armi

Secondo i dati pubblicati da Sipri (l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma), nel 2020 gli Stati Uniti hanno speso ben 778 mld di dollari in difesa (equivalenti al 3,52% del Pil americano), seguiti dalla Cina (252 mld), dall’India (72,9 mld) e dalla Russia (61,7 mld). Nel complesso, i 10 Paesi che nel 2020 hanno speso di più in difesa coprono il 75% dell’intero mercato d’armi del mondo, ed hanno investito complessivamente 1.482 mld di dollari. E a beneficiare maggiormente di questo importo sono state Lockheed Martin Corp., Boeing, Raytheon Technologiese, Northrop Grumman e General Dynamics: ovvero, le 5 più importanti aziende produttrici d’armi al mondo. Neanche a dirlo, sono tutte americane e nell’insieme formano un oligopolio arginato solo dal lavoro degli enti federali. La Lockheed Martin Corp., ad esempio, qualche mese fa era in procinto di acquisire la Aerojet Rocketdyn, quando la US Trade Federal Commission (TFC) è intervenuta per fermare l’affare. La TFC ha motivato il suo intervento con la necessità di preservare quel poco di competitività di cui ancora dispone il mercato delle armi americano. Con l’acquisto della Aerojet Rocketdyn, infatti, si sarebbe ridotto ulteriormente il numero di aziende attive nel settore, comportando un aumento di spese per i contribuenti americani, così come riportato dal Financial Times e dalla Senatrice Elizabeth Warren; la quale ha aggiunto “ondate di attività di fusione e di consolidamento hanno trasformato l’industria della difesa della nazione da un mercato competitivo con oltre 50 aziende a un oligopolio di soli 5 grandi rivali. Di fatto, dal 1961, data del discorso di Eisenhower, ad oggi, il mercato degli armamenti americano si è letteralmente trasformato in un circolo per pochi eletti.

E dove finiscono la maggior parte delle armi prodotte? Da soli, gli States guidano saldamente la classifica dei 10 più grandi esportatori d’armi al mondo (e dal 2017), con una quota pari 39% dell’intera torta, e a comprare è la Nato e chiunque voglia muovere guerra e non abbia contrasti con la patria delle libertà a stelle e strisce. Numeri alla mano, dal 2015 ad oggi, l’Ue ha investito 1.510 mld di dollari in armamenti, mentre la Russia 414 mld. E all’interno dell’Ue, chi spende di più in esercito è la Grecia, col 3,82 del Pil (pari a 723 mln$), ma se guardiamo il valore monetario, cioè i miliardi davvero spesi, è facile rendersi conto come la classifichi la guidino alla pari la Francia (2,1% del Pil, pari a 52,7 miliardi di dollari) e la Germania (1,38% del Pil, pari a 52,8 mld$), seconde solo al Regno Unito (col 2,29% del Pil, pari a 59,2 mld$), che però oggi figura fuori dall’Europa, pur restando sempre all’interno del perimetro della Nato. E bastano questi pochi numeri per trarre almeno due considerazioni. La prima è che falso sostenere che l’Ue abbia destinato pochi miliardi alla difesa, anzi, ha speso 3,5 volte in più dell’intera Russia (nel periodo che va dal 2015 ad oggi). Secondo, che lo standard del 2% del Pil per la difesa, fissato dalla Nato, è un traguardo importante, ma che non fotografa efficacemente i miliardi spesi dai singoli Paesi. In altre parole, lo sforzo che ogni governo compie in rapporto al Pil è lo stesso, ovvero 2%, ma i miliardi spesi sono di ben altra entità, basti guardare ai milioni di euro spesi dalla Grecia contro i miliardi degli altri Paesi dell’Ue.

Che fine fanno i soldi europei?

L’Europa spende miliardi in armamenti, ma a conti fatti si ritrova con un esercito frammentato e tecnologicamente arretrato. È come se dalla montagna di soldi europei fuoriuscisse sempre un topolino. Nel dettaglio, su La Verità, in un articolo a firma di Claudio Antonelli, vengono riportate le voci di spesa dell’esercito italiano ed è subito evidente che immettere altri denari nell’apparato militare non sia di per sé sufficiente, occorre infatti pensare strategicamente e saper spendere. “Secondo prassi Nato – scrive Antonelli – metà del budget (per la difesa) dovrebbe andare al personale, il 25% alle spese di esercizio, manutenzione e addestramento, il rimanente 25% per l’innovazione tecnologica. Nel nostro caso (in Italia), il 70% se ne va in personale (che include caserme e pensioni), il rimanente è suddiviso sulla parte operativa”. Ma il caso italiano non è l’unico in cui si presentano disfunzionalità ed inefficienze. La Germania, ad esempio, ha sì deciso di destinare 100 mld di euro alla difesa (oltre al 2% del Pil annuno), ma si ritrova con arsenale così antiquato da dover correre ai ripari senza se e senza ma. Scholz, infatti, ha deciso di sostituire i Tornado con gli F-35, i quali possono trasportare testate nucleari, e di acquistare gli Eurofighter Typhoon, nati da un consorzio che vede partecipare insieme UK, Spagna e Italia. Peccato che la Germania fosse già impegnata con la Spagna e la Francia nel Future Combat Air System (FCAS), che a sua volta coinvolge l’azienda Airbus e che nel 2040 dovrebbe sfornare il nuovo caccia europei. Ma la guerra incombe e quindi gli accordi saltano mettendo a nudo la fragilità che accomuna i singoli Paesi della zona Ue. E a tal proposito, Claudia Major, del German Institute for International Security Affari, ha detto, al Financial Times, che “Fin dall’inizio [FCAS] è stato l’esempio della difficile cooperazione industriale europea, della sfiducia e di tutti coloro che cercano di difendere il proprio interesse industriale.

Di fatto quel che manca in Europa è una politica che sappia sfruttare decentemente due dei principi cardine dell’economia aziendale: le economie di scala e quelle del raggio d’azione. La prima ci dice che all’aumentare della capacità produttiva seguirà un calo dei costi unitari di produzione; tradotto, a un’azienda costa molto di più produrre un’auto personalizzata (come una Pagani), invece di una 500 (di cui magari ne vengono realizzati milioni di esemplari). L’economia del raggio d’azione, invece, ci dice che il costo per produrre due oggetti che condividono il medesimo processo di fabbricazione è inferiore a quello che dovremmo sostenere per produrli singolarmente. In breve, se l’acciaio di cui necessitano carrarmati e aerei proviene dalla medesima acciaieria, questo sarà un vantaggio rispetto alle costruzioni di tante piccole acciaierie sparse in tutta Europa per altrettante fabbriche d’armi. In entrambi i principi economici vi è del buon senso, mentre nell’agire dei singoli Paesi europei emerge principalmente la paura e la necessità di proteggere sé stessi (ed i propri interessi).

Sarebbe sufficiente frammentare il mercato delle armi quel tanto che basta per bilanciare tra di loro costi e potere delle aziende, barattando un costo produttivo maggiore per una riduzione del rischio di creare oligopoli (com’è invece accaduto negli States). Ed inoltre, sarebbe opportuno creare delle strutture di difesa comuni per migliorare la coordinazione e l’efficienza dell’arsenale bellico europeo, ma al momento tutto questo è letteralmente fantapolitica. Tra l’altro, tali problemi gestionali si stanno ora accompagnando a un rinnovato entusiamo del mercato finanziario per la guerra, tanto che le armi sono oggi diventate improvvisamente sostenibili.

Gli Esg e le armi stringono un’alleanza contro il pianeta

Da qualche tempo a Wall Street il vento è cambiato, gli investitori hanno compreso che le loro scelte finanziarie hanno un impatto sul futuro del pianeta e che dare soldi ad aziende del fossile e di tutti quei comparti che minacciano la specie umana risulti insensato sia sul breve che sul medio-lungo periodo. Per questo sono nati gli Esg (Environmental, Social, Governance), dei prodotti finanziari che dovrebbero tener conto degli standard ambientali, di quelli sociali e in generale di una corretta governance, abbandonando così quella strada di avidità intrapresa mezzo secolo fa con Milton Friedman. Sulla carta sembrava filare tutto liscio e Wall Street pareva aver sviluppato una coscienza, ma oggi, analizzando nel dettaglio gli Esg, ci si rende conto che il concetto di “sostenibilità” può essere storpiato così tanto da farci rientrare dentro persino l’industria bellica.

D’altronde i soldi sono pur sempre soldi, e di fronte agli incrementi delle azioni del settore militare è difficile restare impassibili sui propri principi. Numeri alla mano, le azioni dell’azienda italiana Leonardo (al tredicesimo posto tra le aziende produttrici d’armi al mondo) sono passate dai 6,08€ ad azione del 7 di febbraio scorso, ai 9,35€ di oggi, ed un balzo simile l’hanno registrato anche la francese Thales (+47,9%), la britannica Bea Systems (+33,2%) ed ovviamente l’americana Lockheed Martin Corp. che è passata dai 387$ ad azione di febbraio, agli attuali 447$. Il mercato delle armi è oggi talmente redditizio che persino la banca svedese Seb, che neanche un anno fa aveva dismesso tutti i suoi investimenti in armi, ha deciso di consentire (dal 1° aprile) a 6 fondi di tornare a puntare sulla difesa. E solo un anno fa, l’Ue voleva etichettare l’industria militare come dannosa, mentre oggi le carte in tavola sono già cambiate.

Su La Stampa, in un articolo a firma di Fabrizio Goria, il direttore commerciale di AcomeA Sgr, Matteo Serio, suggerisce come in “un futuro prossimo in cui il concetto di sostenibilità rifletterà anche una prospettiva di contributo alla sicurezza nazionale in senso più ampio, con implicazioni ad oggi non scontate”. E Goria stesso ha poi esplicitato meglio il concetto: Nel mondo Esg 2.0 il focus non è più sul settore “buono” o meno, sottolinea il manager di AcomA, bensì sulla singola azienda, sulla propria politica d’impresa atta, per esempio, a contenere gli sprechi energetici o a includere procedure di svolgimento delle attività che abbiano ricadute positive sul contesto locale”. Tutto questo significa che la geopolitica ha ormai preso il sopravvento anche in quei settori della finanza, che per marketing o ideali, cercavano di traghettare il mondo altrove rispetto al passato, e così il mondo degli Esg sta oggi investendo in energie fossili ed armi.

Per Wall Street tutto questo è routine, visto che in un passato recente la quotazione di Aramco aveva già ristabilito i rapporti di forza rispetto alle economie della Silicon Valley. Tuttavia, qui il problema non è solo di natura economica, ma politica, poiché investire miliardi di euro in armi e fossile potrebbe anche risultare efficace a una situazione contingente, com’è quella della guerra Russo-Ucraina, ma l’assenza di una strategia e di una coordinazione europea è pericoloso. In Europa, a differenza degli Usa (che pur sempre sono un aggregato di Stati federali accomunati da moneta e legge condivisa – come in Ue), manca totalmente una visione strategica. E l’attuale impiego di risorse monetarie, che potrebbero sostenere il welfare e la crescita, vengono qui dissipate in tanti micro-eserciti, non coordinati e numericamente inferiori rispetto alle grandi minacce del presente. Tra l’altro, l’Ue sta già impiegando nella difesa (complessivamente) più risorse della Russia e della Cina, ma non riesce a conseguire gli stessi risultati.

E ad oggi purtroppo non c’è solo il rischio che l’industria militare continui ad esercitare la sua influenza sui singoli Stati (europei e non), così come profetizzato da Eisenhower 60 anni fa, ma per di più si sta facendo largo anche il ritorno agli Stati nazione, i quali agiscono soddisfando le proprie paure, senza alcun coordinamento e/o strategia di lungo periodo che preservi l’unico interesse davvero comune a tutti: la pace.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

Le banche centrali sono davvero indipendenti dalla politica?

Fed, Bce e Banca Centrale Russa a confronto: come stanno reagendo agli shock esogeni del momento

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Nel 2004 il linguista statunitense George Lakoff, per anni docente all’Università di Berkeley, scrisse un saggio dal titolo “Don’t think of an elephant” svelando al grande pubblico ciò che per anni i cognitivisti hanno sostenuto con le loro ricerche, ovvero che le parole strutturano il nostro pensiero, i problemi che affrontiamo e le soluzioni a nostra disposizione. A prima vista potrebbe sembrare una scoperta di poco conto, ma le sue implicazioni possono aiutarci a comprendere l’attuale fenomeno inflazionistico e soprattutto il frame decisionale nel quale si stanno muovendo tre grandi banche centrali: quella americana, quella russa e infine quella europea.

Al post pandemia e i suoi colli di bottiglia si aggiunge ora il conflitto russo-ucraino

Ad oggi ogni istituzione centrale è costretta a dover fronteggiare più fonti di destabilizzazione (o stressor) di natura esogena, come ad esempio la crisi innescata dalla pandemia, che ha dapprima immobilizzato il motore della globalizzazione, facendo crollare la domanda (con i lockdown), per poi ridimensionare l’offerta (attraverso i famosi colli di bottiglia) e infine ha paralizzato le strategie di spesa dei singoli governi e di conseguenza l’azione delle banche centrali. Le quali, dal canto loro, erano già impegnate nel consolidare la ripresa successiva alla Grande Recessione e l’emergenza climatica; che da Parigi in poi, ha subito diverse battute d’arresto, sfociando nell’impegno mondiale di Glasgow e nella rimodulazione dei fondi del Next Generation EU per una transizione energetica. Occorre infatti ricordare che l’aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto quelle legate a fonti energetiche meno inquinanti (si fa per dire), come il gas, è stata innescata anche da una crescente domanda, la quale ha coinvolto non soltanto l’Occidente, ma anche la fabbrica del mondo, ovvero la Cina. A tali variabili (pressoché tutte esogene) si è ora aggiunta la crisi geopolitica (ennesima influenza esterna), che trova indubbiamente nel conflitto tra Russia e Ucraina il suo sintomo più manifesto, ma che in realtà era già ben presente da tempo. Un esempio? La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, la corsa alle terre rare in Africa (con la conseguente lottizzazione neo-imperialista di quel continente) ed ovviamente il conflitto Cina-Taiwan-Usa e quello in corso in Medio Oriente per rallentare l’ascesa dell’Iran in qualità di potenza nucleare.

Ognuna di queste variabili ha accresciuto l’impatto economico di quelle che l’hanno preceduta modificando l’agenda dei governi e delle banche centrali più e più volte, sino a determinare l’attuale situazione, nella quale è difficile abbandonare la strategia in corso per abbracciare quella più utile alla situazione corrente. E qui subentra il primo problema. Le banche centrali, infatti, e così dovrebbero fare anche i dicasteri preposti alla gestione economica, non ragionano in termini di emergenze (o come in questo caso, di Cigni neri), ma svolgono perlopiù un’attività di pianificazione affinché la crescita prosegua e con essa l’occupazione, il benessere e gli investimenti: tutto in linea cone le aspettative degli attori del mercato. Certo, oltre a questo le banche centrali assolvono anche la funzione di reset dell’economia nei confronti dei grandi stravolgimenti esogeni, ma c’è un limite oltre il quale la bussola che orienta le decisioni dei banchieri centrali non indica più il nord, né il sud, e l’unica cosa che pare sensata fare è navigare a vista, ed ogni comandante lo fa a suo modo, così come sta accadendo ora.

L’america dell’austerity: come ne uscì e che cosa ci insegna oggi

Ad esempio, nel 1980 l’economia americana dovette affrontare un’inflazione a doppia cifra, pari al 14,2% (contro i 7,6% attuali) e l’allora governatore, Adolph Volcker Jr, sotto l’amministrazione Carter, trovò il modo di stabilizzarla adottando strategie da guerriglia mista, in parte previste dagli strumenti convenzionali e in parte così forti da imporre una destabilizzazione nella mente degli operatori del mercato (come fece Draghi col bazooka del Quantitative easing). Di fatto Volcker fece ciò che è necessario per spegnere un incendio in un pozzo di petrolio, usare la dinamite e bruciare così l’ossigeno necessario alle fiamme per alimentarsi. Una mossa apparentemente controintuitiva, ma necessaria a modificare radicalmente le aspettative. Così, nel 1981 i tassi sui titoli del tesoro raggiunsero il 22,4%, quindi 13 punti in più rispetto al ’79, e il messaggio di Volcker fu, come riportato da Franco Bruni su Domani, “la gente doveva capire e credere solo che la politica monetaria avrebbe piegato l’inflazione, indipendentemente dal rialzo dai tassi che la contrazione della liquidità avrebbe causato”. Tradotto, la Fed avrebbe fatto tutto il possibile e persino l’impensabile per modificare le aspettative dei mercati, gettando un candelotto di dinamite là dove era scoppiato l’incendio. Magari un piano folle, ma funzionò. Oggi, invece, Powell sta sì aumentando i tassi, ma attraverso un intervento più cauto rispetto a quello adottato da Volcker, il cui esito è ancora tutto da verificare.

La banca centrale russa alla prova della guerra

Chi invece sta seguendo la strategia dell’ex-banchiere della Fed Volcker, è Elvira Nabiullina, che per salvare l’economia russa e il rublo dal default ha dapprima alzato i tassi del 20% e poi giocato per anni a una politica che per i governi italiani è pura fantascienza: ridurre il debito. Con un economia che si regge quasi unicamente sulle materie prime, quindi improntata all’export, Nabiullina ha fatto di tutto per mantenere in ordine i conti che Putin ereditò dal disastro compiuto da El’cin, bilanciando le spese e le manovre espansive in modo da ottenere una crescita modesta dell’economia, invece di premere sull’acceleratore a suon di debito (come invece ha fatto l’Italia per quasi trent’anni). In questo modo il rublo è stato lasciato libero di fluttuare, com’è tuttora, basando le spese sull’ingente ingresso di valuta estera, utili sia a stabilizzare i conti pubblici, sia ad acquistare prodotti d’importazione. La banca centrale russa (CBR, Central Bank of Russia) ha evitato di creare debito persino di fronte alla sciagura pandemica, continuando verso la via dell’austerità, conscia del fatto che il mondo avrebbe sempre avuto bisogno di gas e petrolio, pagato a suon di dollari ed euro. Ed anche oggi, nonostante sia evidente la spinta imperialista di Putin, che nulla ha a che vedere con la politica monetaria adottata dalla banca centrale russa negli ultimi 9 anni, il rublo sta, seppur faticosamente reggendo, anche se con molte incognite. La borsa russa è solo parzialmente riaperta (dopo la chiusura all’indomani della guerra), le riserve in valuta estera sono ancora perlopiù bloccate (eccezion fatta per i capitali in ingresso e l’oro) e l’inflazione a febbraio ha toccato il 9,2% ed è probabile, vista la corsa ad accaparrarsi i generi d’importazione, che sia destinata a crescere. Tuttavia, la strategia adottata da Nabiullina ha retto l’impatto e il rublo, come riporta Fubini sul Corriere, ha subito perso un 42%, all’indomani dell’invasione in Ucraina, per poi riacquisire il 32% del proprio valore; ed inoltre, l’attuale mossa di Putin, che obbliga ad acquistare le materie prime in rubli, potrebbe stemperare ancor di più quelle sanzioni che volevano affossare l’economia russa. In questo caso si tratta di riscrivere contratti già siglati e i Paesi europei più dipendenti dal gas e petrolio russo hanno già fatto sapere che non intendono accettare le nuove condizioni, ma il solo fatto di aver annunciato (perché è di questo che si tratta) un cambio della valuta ha fatto risalire il rublo di un +6%.

La bce e il controllo dell’inflazione dopo anni di politica espansiva

E la Bce invece? In Europa regna ancora una strategia attendista. Ma come mai si è scelto di tergiversare? Una prima risposta la fornisce Giorgio Arfaras sul Il Foglio, ricordando come “se la maggior inflazione fosse frutto degli andamenti dell’offerta (i prezzi delle materie prime che salgono e dei colli di bottiglia nel campo della tecnologia e dei trasporti) allora un rialzo dei tassi servirebbe a poco, anzi rischierebbe di frenare la ripresa che stava prendendo forza dopo la pandemia. Se per il timore di sbagliare, perché l’inflazione è da offerta e non da domanda, le banche centrali non facessero nulla, o molto poco, e quindi l’inflazione si mantenesse elevata nel tempo, si potrebbe avere lo stesso un forte impatto negativo sulla crescita, nel caso comparisse, come negli anni Settanta, la ricorsa fra prezzi e salari”. Arfaras invita quindi tutti a non confondere le mele con le pere, ovvero ad evitare analogie tra le risposte della Fed e la Bce. In breve, è possibile che l’inflazione a stelle e strisce sia trainata perlopiù dalla crescita della domanda (che è un bene, perché segno di un boom post-pandemico), mentre quella europea sia ancora sospinta dalle carenze del lato dell’offerta (e questo è un male). Come ha ricordato Fabio Panetta, membro del consiglio direttivo della Bce, si differenziano tre tipologie d’inflazione, quella cattiva – frutto di uno schock dell’offerta, come nel caso dei colli di bottiglia –, quella buona – dettata da un aumento della domanda, dell’occupazione e della produzione –, ed infine quella brutta – che quindi persiste nel tempo –, ed in Europa ora c’è quella cattiva. Che fare dunque?

Una prima risposta potrebbe essere quella di allinearsi alla politica della Fed, alzando quindi i tassi, ma così facendo c’è il serio rischio di compromettere la crescita non ancora consolidata; occorrerebbe perciò proseguire con una politica fiscale espansiva, come suggerito dall’economista Paolo Trezzi, così da attenuare gli effetti negativi per famiglie e imprese (quindi altro debito comune). Tuttavia, per fare ciò diventa necessario un accordo tra i 27 e questo al momento non c’è. L’Ue sta proseguendo l’ormai collaudatissima strategia di frammentazione che riguarda già sia la difesa (dove si stanno sperperando risorse in barba a qualsiasi economia di scala e di raggio d’azione), sia il fronte energetico, dove non si è ancora trovato un accordo (anche perché gli aumenti stanno colpendo principalmente Italia, Germania e quasi tutti i Paesi di Visegrad). Senza considerare poi che sul famoso fiscal compact aleggiano ancora le nubi dell’incertezza, mentre sul Pepp (il piano d’acquisto europeo) il dado è ormai tratto, terminerà a fine mese. Ed è in questo mare di contraddizioni e non azioni che si consuma il dramma della Bce, perché sottostima i rischi, tra cui quello di una possibile stagflazione, e non rende chiare le sue decisioni ai mercati e forse anche a sé stessa: e questo è un errore che una banca centrale non può permettersi.

In Russia, ad esempio, è la politica a guidare le decisioni della banca centrale, mentre negli States, salvo rare eccezioni (com’è accaduto durante la Grande Recessione) è l’indipendenza a guidare la Fed, anche perché il dollaro funge da moneta di riferimento per il sistema economico. In Europa, invece, esiste una moneta unica, ma non c’è un istituzione bancaria né davvero indipendente dalla politica (stile Fed), né succube di quest’ultima (com’è in Russia) e i dati a favore di questa tesi sono due. Il primo riguarda l’attuale Presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, più volte accusato dai falchi dei Paesi frugali di avvantaggiare gli interessi del Bel Paese, ed oggi alla sua guida. Un caso, quello di Draghi, che rischia di ripetersi con Lagarde, visto le indiscrezioni riportate da La Repubblica circa un possibile ingresso dell’attuale numero uno della Bce nel venturo governo Macron, in qualità di Primo ministro. Se ciò dovesse verificarsi, si tratterebbe dell’ennesimo caso di revolving doors inopportuno, nonché smaccato nei confronti di ruoli e carriere che dovrebbero restare scissi. Tuttavia, la Bce non è neppure succube della volontà politica com’è la CBR in Russia, dove Nabiullina non ha neppure potuto dare le proprie dimissioni. Si assiste quindi a una sorta di vuoto decisionale in seno alla Bce, la quale rincorre l’agire di chi ha più potere decisionale (ed economico) nella zona Ue, senza imporsi davvero come un’entità super partes. Ed è per questo che oggi Lagarde appare come bloccata in uno stallo strategico, che grazie a Lakoff e la sua intuizione acquista un senso.

Sia la Fed, sia la CBR, infatti, si muovono nel tentativo di creare aspettative, di far coincidere i loro pensieri con quelli degli investitori, affinché siano quest’ultimi, con le loro azioni, a realizzare vere e proprie profezie che si autoavverano. D’altronde, se gli investitori credono che l’inflazione sia transitoria essa lo diverrà, ed è così per tutto ciò che le banche centrali riescono a generare con le loro dichiarazioni e la credibilità di cui dispongono. L’economista Tommaso Monacelli ha ricordato, in un articolo su il Foglio, come “non esistono un’inflazione transitoria e una permanente, l’inflazione è unica e può diventare transitoria in base alle scelte di politica monetaria che orientano le scelte di consumatori e investitori”. Ed è questa la cornice decisionale nella quale si muovono da sempre i banchieri e i mercati, ma soprattutto le varie teorie macroeconomiche: tutto ruota attorno alle aspettative, un concetto che in Europa non sembra aver presa. La Bce, infatti, è priva di una voce univoca e forte e per questo la sua capacità di creare delle aspettative credibili è debole e spesso contradditoria. Il problema, come ha sottolineato Tommaso Monacelli, è che la politica monetaria “è un misto tra scienza ed arte” ed forse il caso che Lagarde rifletta su ciò, perché con le sue parole, e l’assenza di una strategia di medio periodo, rischia di affossare l’intera zona Ue e non più solo le cicale del Sud: perché in ambito macroeconomico le parole hanno il potere di modificare la realtà più di quanto possa fare l’oro contenuto in un caveau.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini