Il cortocircuito istituzionale che stiamo vedendo in questi giorni oscilla tra la commedia e la tragedia; quello che è certo che l’Italia non ci fa una bella figura. Il ritardo ormai certificato nell’utilizzo dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sembra quasi inarrestabile e piuttosto che soffermarsi sul “perché” (come il pragmatismo vorrebbe), la classe dirigente continua a ragionare sul “chi”, alla ricerca di un capro espiatorio capace di espiare le colpe e di veicolare l’attenzione della popolazione.
Sta di fatto che ogni giorno che passa, l’esecutivo cerca redenzione dai suoi elettori, spiegando loro l’impossibilità di poter intervenire su questo dossier, avendo le mani legate causa governi precedenti ed istituzioni comunitarie. E c’è talmente tanta confusione tra note ufficiali, dichiarazione alla stampa, voci di corridoio e media più o meno schierati, che anche i più interessati alla vicenda fanno veramente fatica a comprendere dove stia la verità. E la verità nei confronti dei cittadini che sono i destinatari di questi miliardi che ora rischiano di perdere, pare al quanto necessaria. È umano che nessuno voglia metterci la faccia per giustificare l’eventuale perdita dei fondi del PNRR, farebbe vergognare chiunque, ma impegnarsi nella cosa pubblica significa proprio assumersi le responsabilità di ciò che riguarda una comunità, di assumersi le colpe almeno quanto vengono sbandierati i successi. La maturità, la civiltà di un Paese si può intravedere proprio da questo e l’Italia dimostra di essere una piccola nazione tra le grandi nazioni.
Ma a parte queste stoccate moraliste che magari non hanno alcuna presa nella società in cui viviamo, dove forse il cinismo e la propaganda prevalgono, la mancanza di trasparenza sul PNRR, la concentrazione dell’esecutivo a trovare dei responsabili piuttosto che lavorare sul recepimento dei fondi è una mossa politicamente strategica ma rischiosa: sarebbe meglio lavorare in silenzio con la Commissione Europea, cercando di capire quali sono i punti più sensibili, magari anche giustamente vista le condizioni della nostra macchina burocratica, e negoziare una via di uscita ma al contempo impegnandosi sodo per mostrare la serietà del sistema Paese.
Perché stavolta è diverso, i compiti a casa non vengono richiesti dalla UE per il semplice obiettivo di farli (che comunque fa parte di un gioco che l’Italia ha sottoscritto) ma perché in cambio Roma riceverebbe dei finanziamenti anche a fondo perduto che da sola non potrebbe senza subbio ottenere. Se si ragiona un attimo sembra proprio una follia che questi soldi in buona parte gratis vadano persi, ma pare che essa sia di casa nel Bel Paese.
Se si perderanno i soldi, poi, l’effetto tsunami è molto più potente della scossa di terremoto in essere: perdita di credibilità con il resto dei partner commerciali e finanziari, stop a futuri fondi comunitari e probabilmente perdita di alleanze strategiche nei posti che contano. Non a caso il professorGiavazzi, già consigliere di Mario Draghi ai tempi del governo, scrive sul Corriere che perdere la faccia oggi, anche in riferimento al MES, significa essere senza amici in sede di approvazione del nuovo Patto di Stabilità e Crescita che potrebbe esserci svantaggioso se gli altri Stati dell’Unione si metteranno d’accordo per una stretta di bilancio più di quanto noi vorremmo e potremmo sopportare per le condizioni precarie in cui versiamo. Insomma, l’effetto stigma sarebbe per noi geopoliticamente svantaggioso oltre che per tutte le motivazioni finanziarie già citate.
E si torna a dare la colpa a Germania e Francia, che a quanto trapela da Palazzo Chigi, sono in combutta per poter far sfigurare Giorgia Meloni agli occhi di tutti. Che il gioco della geopolitica sia una partita a scacchi è certo; che i Paesi frugali non vedano l’ora di dimostrare quanto siamo incapaci di usare fondi comunitari è probabile; che però Macron e Scholz siano così impegnati a far cadere Meloni è pura fantasia demagogica usata per martirizzarsi nel momento in cui non sa più cosa dire. Siamo sicuri che stiamo usando al meglio le nostre carte?
Gli italiani hanno deciso, fuori Draghi e dentro Meloni. Il successo della coalizione di centrodestra era già stato anticipato da numerosi sondaggi, ma ora ad aspettare la probabile neo-premier ci sono gli altrettanti i numerosi dossier economici aperti e in gran parte contraddistinti dal segno negativo. D’altronde, il quadro macroeconomico europeo è ancora contraddistinto da un’elevata incertezza, dall’esplosione dei prezzi energetici e dall’instabilità politica.
L’Europa tira dritto a prescindere dal futuro esecutivo italiano
Dal fronte europeo la prima a richiamare tutti all’ordine è Christine Lagarde, la quale ha annunciato che a breve la Bce dovrà aumentare ancora i tassi d’interesse. E ciò significa che vi sarà un aumento del costo del debito pubblico italiano, per via del crescere degli interessi, e che anche per le imprese sarà più difficile reperire i denari necessari a finanziare le loro attività. La mossa della Bce è obbligata dal contesto congiunturale, come ribadito da Lagarde stessa: “le prospettive si stanno facendo più fosche. L’inflazione rimane troppo alta ed è probabile resterà sopra i nostro target per un periodo esteso di tempo”. Tuttavia, il costo da pagare per fermare l’inflazione è il raffreddamento della domanda interna all’eurozona e quindi della ripresa post-pandemica. D’altro canto, il mancato accordo sul price cap europeo impedisce di raffreddare la speculazione sul prezzo del gas, a cui si aggiungono il rallentamento dell’economia cinese e gli ancora persistenti colli di bottiglia, che nell’insieme di certo non aiutano a sedare un’inflazione ancora imperturbabilmente al galoppo.
E sempre con l’Europa Meloni dovrà ancora andare d’accordo per un po’, viste le imminenti scadenze del Pnrr. Da Bruxelles son infatti ora in arrivo i 24 mld, relativi alla seconda tranche del Pnrr (che ne complesso ne stanzia oltre 190), ma a dicembre dovranno essere centrati 55 obiettivi (di cui 29 già raggiunti dall’esecutivo Draghi e 26 ben avviati) per ottenerne altri 21,8 mld. Il che significa che, almeno per il momento, non sono possibili quelle modifiche al Pnrr tanto invocate dalla coalizione di centrodestra. L’unica scappatoia che Bruxelles potrebbe concedere alla coalizione guidata da Meloni, come riportato dal Sole24 Ore, riguarderebbe una o più deroghe su quelle opere i cui costi sono stati stravolti dall’impennata dei prezzi, ma oltre a questo i margini sono troppo stretti. Occorre poi ricordare come per i vertici amministrativi alla guida del Pnrr non sia previsto il collaudatissimo spoil system, con i quali vengono da sempre sostituite le persone alla guida di numerose istituzioni italiane, a partire dai Media statali.
Terminata la rassegna europea si passa al fronte domestico, quello più caldo.
Il governo Draghi ha stanziato complessivamente 66 mld di euro contro i rincari, ma molte misure scadranno a breve e dovranno essere rinnovate, altrimenti gli italiani si ritroveranno all’improvviso in un incubo occultato da misure a pioggia. Calcolatrice alla mano, per la Nadef serviranno tra i 40 e i 50 mld di euro: non proprio un inizio di legislatura in pompa magna. Questi miliardi serviranno a rifinanziare il taglio degli oneri di sistema sulle bollette di gas e di luce, a sforbiciare il cuneo fiscale, a ridurre di 30,5 centesimi il prezzo al litro dei carburanti ed infine a sostenere i crediti d’imposta per le imprese costrette a fronteggiare bollette alle stelle.
Non va poi dimenticata un’urgenza prossima relativa alla CIG. La riforma Orlando,partita a gennaio, prevede la CIG onerosa per le aziende e rigidi tetti alla durata, come riporta il Sole 24 Ore. Molte imprese, però, hanno esaurito il plafond e per questa ragione già 400 milioni di ore di deroga sono stati inseriti per evitare una catastrofe sociale. Nel frattempo, l’Istat dichiara l’aumento delle ore in cassa integrazione e la richiesta di sussidi di disoccupazione. Inoltre, le stime per il mercato del lavoro sono tutt’altro che rosee. Una bomba ad orologeria aleggia per il Bel Paese.
Dal canto suo, Meloni potrà contare su almeno un asso nella manica, ovvero l’extra-gettito lasciatole in eredità da Draghi e relativo ai mesi di settembre, ottobre e novembre. L’aumento dei prezzi ha infatti fatto registrare un surplus nei conti pubblici, che però ora si scontrerà con maggiori costi per il personale e le pensioni. Basterà quindi questo tesoretto a far dormire sonni tranquilli a Meloni e Company?
No, perché all’equilibrio dei conti pubblici italiani manca ancora il calcolo delle misure promesse in campagna elettorale dal centrodestra, le quali, come riportato da Pagella Politica, sono perlopiù prive di coperture e molto costose […]. Senza fare deficit, che altrimenti comporterebbe un primo passo falso nei confronti del mercato e delle istituzioni europee, la Meloni sarà costretta a proseguire il suo mandato all’insegna della sobrietà.
La coalizione di centrodestra, sempre ammesso che non si sfaldi nel tragitto per il Colle, riuscirà a dimostrare di essere davvero a pronta a governare, oppure ci attenderà un 2011 bis?
L’arma del delitto è ancora fumante, ma c’è già chi ha iniziato a frugare nelle tasche del malacapitato per poi darsi alla macchia. Poche ore dopo il crollo del governo Draghi è stato infatti stralciato l’art. 10 del Ddl Concorrenza ed è infuriata la bagarre partitica sul rigassificatore di Piombino. Nel mentre la Bce ha dato vita allo scudo anti-spread (Tpi), che in apparenza salvaguardia i Paesi più esposti agli attacchi degli speculatori, ma che in realtà impone delle condizionalità ed una discrezionalità tutte a svantaggio di coloro che sono privi di bussola, come i partiti.
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Sono trascorse poco più di due settimane dalle dimissioni dell’ex banchiere della Bce, eppure il Parlamento pare già ritornato al consueto caos istituzionale post governo tecnico, tra alleanze che inscenano un remake improvvisato del “la strana coppia” e la restaurazione dei privilegi per i soliti noti; il tutto accompagnato da un’impreparazione generale di quasi tutti i partiti nei confronti delle urne. E dire che dopo anni di campagna elettorale permanente ci si aspetterebbe quanto meno uno straccio di linea programmatica e una maggiore compostezza, ma pare chiedere troppo, anche perché con questo caldo è già difficile riuscire a posizionarsi lungo l’emiciclo parlamentare senza schiacciarsi tutti al centro, figurarsi elaborare delle idee con i transfughi che tirano la giacchetta da una parte e il taglio degli scranni dall’altra a rammentare a tutti la mancanza di posti a sedere. E così scattano i veti incrociati e una sfilza di ultimatum di carta pesta che stanno solo aspettando la pioggia delle urne per sciogliersi e restituire così una poltiglia informe chiamata maggioranza.
Troppo caustico? Forse, ma è la politica bellezza. D’altronde, a meno che la destra non inciampi su sé stessa, pare difficile immaginare che possa sorgere a sinistra un contenitore abbastanza robusto da poter tenere insieme Mastella e Fratoianni, ma anche Calenda e lo stesso Renzi, che pur sembrano condividere il giardino della medesima villetta bifamigliare. E così, mentre fuori e dentro il Parlamento infuria una guerra totale, i taxi escono indenni dal ddl Concorrenza, si bloccano i progetti volti limitare la dipendenza dell’Italia dal gas russo ed in Ue viene approvato uno scudo anti-spread che tale rischia di non essere.
La rivincita delle auto bianche
Sembrava fatta, dopo anni di battaglie politiche e innumerevoli nomi illustri decimati lungo il cammino (persino Bersani e Monti non poterono nulla contro i taxi), ma alla fine hanno vinto loro: l’articolo 10 è stato stralciato. Come riportato da Milano Finanza, in un articolo di Silvia Valente, sono subentrate più ragioni apparentemente inderogabili. “Da un lato – scrive Silvia Valente –, le proteste in tutta Italia e in particolare a Roma delle auto bianche, contro la liberalizzazione del loro comparto che aprirebbe la via al dominio di Uber. E dall’altro lato, il ruolo dell’uscente governo Draghi che deve limitarsi all’ordinaria amministrazione, all’attuazione delle leggi e delle determinazioni già assunte dal Parlamento, in particolare quelle funzionali al raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. La rotta scelta è stata dunque di sopprimere l’elemento più divisivo per avvicinarsi al compimento di una delle richieste europee, propedeutiche all’ottenimento dei fondi del Recovery italiano.” In realtà la situazione era più complessa di come era stata raccontata in principio e, complice la crisi di governo, si è scelto di accantonare tutto in attesa che politici più audaci ci mettano sopra le mani.
D’altronde, gli Uber Files, di cui abbiamo parlato anche noi, hanno svelato la fitta rete di relazioni opache e manipolatorie che la nota compagnia di trasporto californiana aveva costruito negli anni, a danno di settori blindati da contratti e associazioni di categorie senza peli sulla lingua. Se fosse stato approvato l’articolo 10, così com’era (ovvero, come riportato dal Corriere.it, «adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante l’uso di applicazioni web […] promozione della concorrenza, anche in sede di conferimento delle licenze») si sarebbe scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora. Questo perché da anni le licenze vengono utilizzate dai tassisti come Tfr e l’apertura indiscriminata del mercato avrebbe dato il via una corsa a ribasso dei prezzi, certamente a favore degli utenti, ma non di chi ha pagato, e forse fin troppo, l’accesso al settore. Basta questa argomentazione per sorvolare sullo stralcio dell’ex-articolo 10 e schierarsi a favore dei taxi? Assolutamente no.
Se la concorrenza sleale è uno dei mali del capitalismo d’oggi, lo è anche ed a maggior ragione, la creazione di mono e di oligopoli il cui obiettivo principale è spazzare via ogni forma d’innovazione, acquisendo e imponendo barriere inaccessibili a chiunque vorrebbe cambiare lo status quo. Per queste ragioni, ed anche se in presenza di molte incoerenze, avrebbe avuto senso continuare a lottare per cambiare un sistema sbagliato introducendo l’art.10, anche perché rimangiandosi la parola si offre ora su piatto d’argento l’arma che mancava ai balneari per chiedere un ritorno alla casella di partenza, vanificando così mesi di trattative e scontri tra bande partitiche.
I partiti in lotta con tutti, persino con loro stessi
Tuttavia, sui taxi i partiti politici erano quanto meno riusciti a prendere delle posizioni decifrabili e per questo riconducibili a un’ideale, a una visione della società nella quale potersi identificare, sulla vicenda del rigassificatore di Piombino, invece, si è verificato l’impossibile. I partiti locali hanno realizzato un fronte compatto contro il gas (Gnl) via mare, sconfessando così le decisioni prese da quella maggioranza, altrettanto bizzarra, che in Consiglio dei Ministri aveva invece approvato quel progetto e stretto quindi gli accordi internazionali necessari per renderlo possibile.
Come raccontato dal noto sito di Fact-Checking Pagella Politica, con un articolo di Federico Gonzato, “il progetto della nave rigassificatrice di Piombino rientra nella strategia del governo italiano per ridurre la dipendenza dal gas russo in seguito alla guerra in Ucraina, ed era stato annunciato dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ad aprile. A metà luglio, dopo quasi tre mesi di trattative, il ministero della Transizione ecologica e la Regione Toscana hanno trovato un accordo di massima sul posizionamento della nave rigassificatrice, che dovrebbe rimanere ormeggiata nel porto di Piombino per al massimo tre anni. Più nel dettaglio, la nave in questione si chiama “Golar Tundra”, è stata acquistata a giugno dalla Società nazionale metanodotti (Snam) e può rigassificare fino a 5 miliardi di metri cubi di gas all’anno.” In breve, tutti gli attori principali della decisione sembravano d’accordo sul dove posizionare il rigassificatore e sul perché fosse necessaria quest’opera, poi però è scattata la rappresaglia locale che è tracimata a livello nazionale, dove l’assenza del governo Draghi ha fatto il resto.
Persino EugenioGiani, Presidente di Regione Toscana, ha esordito con “io non prenderò certo una decisione di autorizzazione se non vedo chi è il nuovo governo e chi sono i nuovi parlamentari”, lasciando intendere che qualcun altro dovrà decidere per lui, ma chi? Probabilmente il Pd, il quale, a livello locale ha preso parte alla protesta contro il rigassificatore, mentre al Nazareno si sono limitati a restare in silenzio, forse per non apparire allineati a Fratelli d’Italia. Il problema è che con i flussi ridotti dalla Russia, l’Italia ha più che mai bisogno di trovare altre soluzioni per consentire alle imprese di non chiudere. E visto che si è scelto di puntare quasi tutto sul gas e nucleare, invece di investire in fonti davvero green, occorre trovare un luogo ove ormeggiare il rigassificatore di Snam, ma dove? Ci penserà la prossima maggioranza, nella speranza che a Piombino non se ne formi un’altra, magari con gli stessi colori e simboli, pronta ad opporsi a ogni costo. D’altronde si sa, maggioranza scaccia maggioranza.
Lo scudo anti-spread che protegge con discrezionalità
E mentre in Italia si cerca di capire se esista davvero una qualche barra da poter tenere dritta, in Ue si è deciso di costruire uno scudo anti-spread che potrebbe non proteggere i Btp con la stessa efficacia che i più auspicavano all’inizio, ma andiamo con ordine. Il nome scelto dalla Bce è Transmission Protection Instrument (Tpi) e fungerà da freno d’emergenza nel caso in cui il differenziale dei titoli di Stato dei diversi Paesi Ue dovesse accelerare bruscamente. Quella tra gli spread dev’essere infatti intesa come una corsa nella quale l’Italia deve fare il possibile per non allontanarsi troppo dalla Germania o comunque restare in linea con il gruppo di Spagna, Francia, Grecia e Portogallo. Di fatto si tratta di una corsa dove si vince se vincono tutti, perché anche un solo Paese può rendere aridi tutti gli altri, come ha ben dimostrato la Grecia, il cui Pil ed impatto economico sull’Ue sembravano trascurabili fino a quando gli spread non sono impazziti.
Ed proprio per via di questo doppio filo tra spread ed economie che la Bce ha voluto porre delle condizionalità forti, ad uno strumento che se inefficace rischia di compromettere l’intera zona euro. Come riportato da Open, in un articolo di Alessandro D’Amato, affinché entri in campo il Tpi è necessario che il Paese beneficiario stia rispettando il quadro di bilancio comunitario e non vi siano gravi squilibri macroeconomici; inoltre, la spesa pubblica dev’essere tenuta sotto controllo, così come occorre rispettare il Recovery Plan. Rispetto all’Omt e il Pepp, le differenze sono marcate. Facendo un’analogia col racconto di Riccioli d’Oro e i tre orsi, si può immaginare l’Omt come il freno più rigido a disposizione della Bce, poiché vincolato alle regole del Mes, al contrario, il Pepp è fin troppo lasco, poiché interviene in proporzione alle dimensioni dei Paesi che ne fanno uso, mentre il nuovo Tpi rappresenta una via di mezzo tra i due. Può intervenire in ogni momento e senza limiti d’acquisto, ma occorre rispettare i parametri sopracitati, e quindi “meritarselo”.
Infatti, come ha scritto l’economista Angelo Baglioni, su LaVoce.info, “Il nuovo “scudo anti-spread” non prevede meccanismi automatici: esso verrà usato dal Consiglio direttivo a sua discrezione, a patto che vengano soddisfatte una serie di condizioni impegnative. Non sarà facile usufruire dello scudo, soprattutto per un governo che intendesse approfittarne per allargare i cordoni della borsa.” Ed ancora, scrive Baglioni, “il nuovo strumento sarà tanto più efficace quanto maggiore sarà l’effettiva volontà del Consiglio direttivo della Bce di metterlo in pratica.”. Ma perché introdurre così tanta discrezionalità e tra l’altro in un momento in cui la Bce ha deciso di alzare i tassi per contrastare l’inflazione? Baglioni suggerisce come l’aumento dei tassi e il Tpi debbano essere inquadrati nell’ottica di un sistema a matrice, dove gli obiettivi da perseguire sono due e differenti, ma legati tra loro. “La manovra dei tassi di interesse serve a determinare il grado di restrizione (rialzo dei tassi) oppure di espansione monetaria (ribasso dei tassi): nel primo caso per frenare la domanda aggregata di beni e servizi e combattere così l’inflazione, nel secondo caso per agire nella direzione opposta. La gestione del bilancio della banca centrale (attraverso operazioni in titoli e di prestito al settore bancario) serve invece per assicurare la corretta trasmissione della politica monetaria in tutta l’area euro. Per avere una politica monetaria unica non basta avere una unica banca centrale, occorre anche che le condizioni monetarie e finanziarie siano uniformi in tutta l’area: in altri termini, che gli spread di tasso tra un paese e l’altro non si amplino troppo e per motivi meramente speculativi, slegati dai fattori fondamentali.”
Tradotto per chi è a digiuno, la Bce ha deciso di riavvolgere il nastro del tempo a prima dell’era Draghi e del Quantitative Easing, introducendo tra l’altro maggiori vincoli per quei Paesi che negli anni hanno speso molto (debito cattivo) ottenendo in cambio poco, spesso nulla, come nel caso dell’Italia.
Cambia il vento ma i partiti mantengono la stessa rotta
Lo stralcio dell’art. 10 del ddl Concorrenza e le proteste di Piombino potranno sembrare solo gli elementi di contorno di una campagna elettorale soggetta a temperature marziane e a colpi di calore, ma in realtà svelano qualcosa di più, ed è l’assenza di una direzione univoca. La Bce dal canto suo, invece, una strada la sta tracciando e spera che col Tpi i Paesi più rischio righino dritto, mentre quest’ultimi sembrano più che altro aspettare il momento propizio per giocarsi la carta dell’azzardo morale, imponendo così un salvataggio pirata, costi quel che costi, affinché l’euro non sprofondi nel baratro. Andrà davvero così? Forse, ma ciò che spesso non considerano i fautori dell’azzardo morale è che questo inverno le temperature rischiano di essere ben più roventi rispetto a quelle attuali, suggerendo così ai decisori scelte al limite dell’impensabile e forse anche oltre.
Il ddl Concorrenza ha conquistato il suo primo e sudatissimo sì ed ora si appresta alla sua fase più critica. Già, perché i punti interrogativi sono ancora molti, così come lo sono le barricate delle corporazioni più forti, pronte a battersi fino all’ultimo durante tutti i prossimi passaggi parlamentari. Sui Taxi, infatti, non si è ancora trovato l’accordo ed anche sul tema degli indennizzi ai balneari si corre il rischio di vanificare gli sforzi sin qui fatti. Ce la farà il governo Draghi là dove gli altri hanno fallito e a che prezzo?
Finalmente è arrivato il primo sì: con 180 voti favorevoli, e 26 contrari, il ddl Concorrenza ha superato i veti, le barricate e i mal di pancia del Senato e ora si appresta ad approdare alla Camera, dove non solo occorrerà stare attenti agli attacchi di chi sta già affilando i coltelli in vista della conta, ma si dovranno pure trovare le risposte alle tante parentesi ancora aperte che ancora accompagnano questo disegno di legge. Già, perché questo primo sì è tutto fuorché l’ultimo e definitivo, e per ora si prefigura una strada tortuosa.
Come prima cosa occorre fare un po’ di chiarezza attorno al dibattito pubblico che ha accompagnato il ddl Concorrenza, che come lascia intendere il nome, non riguarda solo le concessioni balneari. Quest’ultime rappresentano, infatti, solo la punta dell’iceberg di un sistema corporativo ben più ramificato e che la direttiva europea Bolkestein cerca di mandare in soffitta da più di un decennio. A dire il vero, il governo italiano avrebbe dovuto già da tempo emanare un’apposita legge sulla concorrenza, con cadenza annuale, come ha ricordato lo stesso Draghi in conferenza stampa, ma dal secondo governo Berlusconi in poi (fatto salvo il 2017), ciò non è mai avvenuto. Si è quindi dovuti ricorrere a uno strappo rispetto al passato, generando un disegno di legge che si compone di ben 36 articoli, di cui uno dedicato alle concessioni balneari. Le quali hanno il pregio di esemplificare un problema: a fronte di un giro d’affari complessivo del valore di 15 miliardi di euro, lo Stato italiano incassa solo 101 milioni. E non si tratta solo di una questione di tasse, ma anche del fatto che quello dato in concessione a un soggetto privato, perché è questo il punto, è a tutti gli effetti un bene pubblico. Una spiaggia è, e dovrebbe essere, di tutti e non solo di pochi eletti, ma sulla concorrenza si sa, come d’altronde accade anche sulla casa, si toccano temi cari ai partiti. La destra unita, ad esempio, ha dapprima posto il veto sulla delega fiscale, ottenendo ulteriori garanzie sull’assenza di tasse (almeno fino al 2026) e ora, sul tema delle concessioni balneari, batte i pugni sul tavolo per mantenere lo status quo.
Che cosa accadrà alle concessioni balneari?
Il testo votato lunedì 30, infatti, impone la messa a gara delle concessioni balneari (ivi compresi laghi e fiumi per l’esercizio delle attività turistico-ricreative e sportive) entro il 31 dicembre 2023. Ciò significa che dal primo gennaio 2024 i beni dati in concessione dovrebbero tornare allo Stato, ma in questo caso il condizionale è d’obbligo, perché nel Paese delle eccezioni, qual è l’Italia, è possibile posticipare di ulteriori 12 mesi il vincolo del 2023 (appena varato). Se infatti vi dovesse essere la presenza di un contenzioso o difficoltà oggettive legate all’espletamento della gara, ecco che si guadagnerebbero ulteriori 12 mesi, giungendo così al 31 dicembre del 2024. Ma non è finita qua, perché sono stati anche previsti degli indennizzi per i concessionari che dovessero perdere la gara per lo stabilimento balneare o il bene oggetto della cessione da parte dello Stato. E qui inizia il gioco dei rimandi, perché con questo ddl il governo chiede al Parlamento il via libera per legiferare e le linee guida, ma poi sarà compito dei singoli decreti legislativi (che verranno di volta in volta approvati) definire nello specifico dettagli come questi, che non sono certo di poco conto. D’altronde, come riportava anche il Corriere della Sera del 27 maggio, le posizioni dei vari attori chiamati a decidere non sono poi così vicine. Nell’articolo si legge “Da una parte c’erano Lega e Forza Italia che chiedevano un indennizzo basato sul valore complessivo dell’impresa che includesse quindi sia i beni materiali che immateriali, compreso l’avviamento commerciale. Per i Cinque Stelle era importante una «valutazione equa fatta sulla base di una perizia estimativa giurata da un perito indipendente». Il governo preferiva invece il valore dell’impresa «al netto» degli investimenti.” E su questi distinguo è interessante la posizione di tutti quei politici che chiamano in causa l’impostazione (a favore dei concessionari balneari storici) assunta dal Portogallo, perché, come riportato dal Sole 24 Ore, “lo scorso 6 aprile, Bruxelles ha deciso di avviare una procedura di infrazione nei confronti di Lisbona per la mancata corretta attuazione delle norme relative alle procedure di gara per l’aggiudicazione di concessioni balneari.”. Quindi è falso affermare che la direzione assunta dal Portogallo sul tema sia andata bene all’Ue, anzi, ed anche l’Italia (qualora dovesse fare retromarcia alla Camera o concedere indennizzi privi di senso agli attuali concessionari) potrebbe subire la medesima sorte. Ad oggi, infatti, l’unica cosa certa è che a pagare per una concorrenza vera sarà il vincitore della gara, sempre ammesso che non si tratti dell’ultimo proprietario, o di chi è abituato a pagare le tasse (sempre se dovesse scattare l’infrazione da parte dell’Ue).
Concessioni idroelettriche e taxi
E purtroppo, neppure alle concessioni del settore idroelettrico e a quelle legate al trasporto pubblico (Taxi e Ncc) è andata meglio, anzi. Sulle prima ha giocato forza l’attuale crisi energetica e le richieste della Lega, la quale è riuscita a far inserire il golden power sulle concessioni, come riportato dal giornale La Verità. Nell’articolo, a firma di Claudio Antonelli, si legge “Gli asset strategici, anche se in concessione – è stato stabilito – rientreranno nell’ambito di applicazione del golden power. Nello specifico, saranno coperti da golden power «i beni e i rapporti di rilevanza strategica per l’interesse nazionale, anche se oggetto di concessioni, comunque affidate, incluse le concessioni di grande derivazione idroelettrica».” Sui taxi invece, all’articolo n° 10 si trova la frase che ha scatenato le ire del settore: “promozione della concorrenza, anche in sede di conferimento delle licenze, al fine di stimolare standard qualitativi più elevati”. Che alle orecchie degli addetti al settore deve aver sortito lo stesso effetto delle unghie su di una lavagna, o giù di lì. E dalle colonne del Il Tempo, Andrea Anderson, della segreteria nazionale del sindacato Orsa Trasporti ha dichiarato “quello che esigiamo – ha dichiarato Anderson – è lo stralcio totale dell’articolo 8 da questo Ddl. E per ottenerlo siamo pronti a fare le barricate, se necessario. Questo deve essere chiaro”. Un pensiero condiviso anche da Loreno Bittarelli, Presidente URI e Presidente del Consorzio Nazionale ItTaxi, per il quale “Siamo tutti uniti in questa battaglia con l’intenzione di portarla fino in fondo. La nostra posizione è chiara: quell’articolo va cancellato e, contestualmente, vanno ripresi i discorsi relativi ai decreti attuativi.” Se queste sono le premesse, è assai probabile che lo scontro sul ddl Concorrenza continuerà. Tuttavia, sin da ora è possibile tracciare un bilancio del testo uscito dal Senato.
Il bicchiere mezzo pieno e quello mezzo vuoto
Le concessioni rappresentano un terreno scivoloso per qualunque governo e a maggior ragione per uno nato da un’alleanza spuria. Draghi ha avuto il merito di puntare i piedi e minacciare le dimissioni in caso di ulteriori slittamenti nella tabella di marcia per l’approvazione del ddl, ed in questo lo hanno aiutato i vincoli del Pnrr, i quali identificano la misura sulla concorrenza come “riforma abilitante” (ovvero, “interventi funzionali a garantire l’attuazione del piano”). È inoltre positivo l’intervento sulle colonnine per la ricarica delle auto elettriche sui tratti autostradali, ove si specifica che “dovranno prevedere criteri premiali per le offerte in cui si propone l’utilizzo di tecnologie altamente innovative, con specifico riferimento, in via esemplificativa, alla tecnologia di integrazione tra i veicoli e la rete elettrica.” Sempre col pollice verso l’alto vi è anche l’intervento sulle piattaforme digitali volto a tutelare maggiormente il consumatore in caso di prevaricazione. Nello specifico, e come riportato dal Sole 24Ore, “la norma integra la disciplina dell’abuso di dipendenza economica introducendo una presunzione relativa (cioè superabile fornendo prova contraria) di dipendenza economica nelle relazioni commerciali con un’impresa che offre servizi di intermediazione di una piattaforma digitale, se questa ha un ruolo determinante per raggiungere utenti finali e/o fornitori, anche in termini di effetti di rete o di disponibilità dei dati”. Di fatto questo articolo svolge una funzione di scudo ogni qual volta i dati forniti da una piattaforma siano carenti, oppure si presentino vicoli così stringenti da pregiudicare la migrazione presso altri operatori.
Purtroppo non si può dire altrettanto sulle deroghe a cui sono soggette le concessioni balneari, perché nel 2023, e per diverse strutture nel 2024, ci sarà un nuovo esecutivo, il quale potrebbe decidere di rimandare o riscrivere daccapo l’intero impianto in fase d’approvazione, con buona pace dei fondi del Pnrr. D’altro canto Giorgia Meloni ha già affermato che “In Spagna, in Portogallo, hanno prorogato le concessioni. Le infrazioni? Se ne sono fregati”, e Massimo Mallegni, Senatore in quota Forza Italia, ha voluto precisare – come riportato dal Corriere della Sera – che “Qualora il centrodestra vincesse, come ci auguriamo, le elezioni nel 2023, ci impegniamo solennemente a modificare la norma approvata dal Senato. Allo stesso tempo non butteremo via ciò che con fatica abbiamo ottenuto: gli indennizzi. È stata una decisione storica, fino a oggi questo era vietato dall’Articolo 49 del Codice della Navigazione. Quindi vittoria”. Sempre sugli indennizzi citati da Mallegni, è bene ricordare che, tolto l’Art. 49 del Codice della Navigazione, questi verranno elargiti anche a chi ha compiuto abusi, anche edilizi, come ricordato da Angelo Bonelli di Europa Verde.
Da una parte l’Italia avrà la sua legge sulla concorrenza, com’era tra l’altro previsto e per giunta con cadenza annuale, dal lontano 2009, e forse, grazie ad essa si riusciranno ad evitare le sanzioni europee. Tuttavia, le numerose eccezioni, i possibili cambi dell’ultimo minuto e i regali a chi per anni ha versato una miseria all’erario, lasciano l’amaro in bocca.
La guerra in Ucraina, la crisi energetica e i ritardi sugli investimenti del Pnrr riducono drasticamente le speranze per la crescita del Pil italiano sia per 2022, sia per il 2023. Le previsione formulate nel Def, infatti, si focalizzano principalmente sulle scenario meno nefasto, nonostante l’Upb e le principali istituzioni del mondo economico pongano invece l’accento sull’incertezza del momento.
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Nessun governo italiano dirà mai che pagare più tasse sia un bene, oppure che l’andamento delle finanze pubbliche, negative o positive che siano, derivi da scelte politiche infelici oppure da fattori congiunturali che nulla hanno a che vedere con la lungimiranza programmatica e la visione di qualche capo partito. D’altronde la politica è anche questo: dissimulare le sconfitte ed esaltare l’uovo di Colombo di turno come se fosse una propria creatura, peccato che prima o poi i nodi vengono al pettine.
La ripresa economica nel 2021
Ne sa qualcosa l’attuale esecutivo, che nel 2021 ha potuto vantare una forte ripresa economica, ma che ora fatica ad ammettere lo scenario, tutt’altro che roseo, che ci si prospetta. Le roboanti dichiarazioni di fine 2021, quando nonostante l’ascesa dell’inflazione e del gas, ci si crogiolava in lucidi sogni in cui la crescita era stimata al 4,7%, hanno finalmente lasciato il posto a quanto già da mesi andavano dicendo le agenzie di rating, le banche centrali, il fondo monetario internazionale e persino Confindustria: l’Italia crescerà molto meno di quanto previsto, anzi, al netto della spinta del 2021, saremo in recessione. Nel 2022 la crescita attesa sarà del 2,9%, mentre per il 2023 si assisterà al 2,3%.
E alla luce di questi dati, per essere più corretti, visto che a alla recessione si accompagna un’inflazione in costante ascesa, sarebbe più opportuno parlare di stagflazione. Ma si sa, in politica, come in economia, le parole generano aspettative ed influenzano i comportamenti, quindi mai dire come stanno davvero le cose e quando si può meglio negare anche l’evidenza.
Un esempio? La crescita miracolosa del 2021 non è tutta farina del sacco del Ministro dell’Economia, è stata determinata soprattutto da contingenze; prima fra tutte l’avvento dei vaccini, i quali hanno permesso maggiori riaperture e quindi un rimbalzo fisiologico del sistema economico e produttivo. A ciò si sono sommate altri assi nella manica, come il rallentamento nell’assunzione del personale che avrebbe dovuto prendere il posto di coloro che hanno usufruito di quota100 (i concorsi erano bloccati a causa del Covid), oppure le performance del mercato finanziario del 2020, che hanno generato prelievi di importo maggiore rispetto all’anno precedente.
Ma come ogni evento eccezionale che si rispetti, anche i risultati del 2021 sembrano essere destinati a non ripetersi. Secondo quanto riportato dall’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani: “nonostante la overperformance delle entrate continue (anche se solo in parte) nel 2022, le spese sono state riviste pesantemente verso l’alto: (i) perché i risparmi di spesa nel 2021 erano o di natura intrinsecamente temporanea (il sopracitato” rallentamento delle procedure concorsuali) o erano legati al ciclo economico, rivisto al ribasso per il 2022; (ii) per l’ effetto dei tre decreti-legge introdotti nel 2022 per contenere l’impatto dell’aumento delle materie; (iii) per la revisione nei tempi previsti di alcune spese del PNRR; e (iv) per la maggiore spesa per interessi passivi principalmente imputabile alle previsioni aggiornate per l’inflazione”.
Tradotto, il 2021 ha beneficiato di eccezionalità che difficilmente si riproporranno nel 2022, salvo quelle che si potranno occultare senza troppa difficoltà, come l’incremento della pressione fiscale. Nel 2018 era pari al 41,9%, è poi cresciuta nel 2019, al 42,4%, nel 2020, al 42,8%, ed infine nel 2021, al 43,5%, in altre parole, benché a voce si dica che le tasse siano sempre da ridurre, nei fatti questo risulta vero solo per alcune aliquote, non certamente per tutte e il risultato complessivo tende verso l’incremento.
Si sottovalutano ancora i Cigni Neri
Ed a guardar bene dentro le pagine del DEF (Documento di Economia e Finanza) il governo stima i rischi connessi all’attuale invasione da parte della Russia, ma ciò nonostante, sceglie i valori tendenziali e programmatici del Pil più alti della forchetta generati dalle analisi, lasciando così intendere un incauto ottimismo. L’UPB (Ufficio Parlamentare di Bilancio; ovvero un ente indipendente che analizza i conti pubblici), ha invece evidenziato come un protrarsi della guerra finirebbe per costare un punto percentuale di Pil nel solo 2022 e mezzo nel 2023. Per l’Upb “Lo scenario base della previsione del DEF sconta una risoluzione del conflitto in tempi relativamente brevi che, al momento, appaiono tuttavia molto aleatori”. E, nel caso in cui si verificasse lo scenario peggiore, “L’economia italiana sarebbe tra le più colpite da questo shock e il PIL subirebbe una contrazione addizionale di circa un punto e mezzo percentuale nel complesso del biennio. Contemporaneamente si assisterebbe a più marcati incrementi dei prezzi al consumo, per circa 2,5 punti percentuali cumulati nel 2022-23 nel caso dell’Italia”.
E non tutti se lo ricordano, ma nel 2020 il Pil italiano crollò del 8,9%, mentre l’anno scorso è sì cresciuto molto, ma pur sempre del 6,6%, di conseguenza il divario rispetto al pre-Covid c’è ancora. Per questo gli scenari di rischio presenti nel DEF sarebbero da prendere in considerazione nella loro accezione più negativa. Se dovesse continuare l’impennata dei prezzi energetici si assisterebbe a un calo dello 0,8% del Pil, rispetto al piano tendenziale, nel solo 2022 e di 1,1% nel 2023. Il secondo scenario elaborato, ben più nefasto del primo, immagina un’Europa dove sia difficile reperire il gas e dove gli accordi che l’attuale governo ha ora avviato per rimpiazzare i gasdotti di Mosca non vadano tutti in porto. Ed in questo caso la caduta del Pil sarebbe pari al 2,3% nel 2022 e dell’1,9% nel 2023, con, rispettivamente, un tasso d’occupazione più basso dell’1,3% e del 1,2%. In altre parole, in questo secondo scenario la crescita reale, nel 2022, sarebbe pari allo 0,6 per cento e nel 2023 al 0,4per cento. E, come riporta il DEF stesso “Giacché il 2022 eredita 2,3 punti percentuali di crescita dal 2021, la crescita del PIL nel corso del 2022 sarebbe nettamente negativa, mentre il deflatore dei consumi crescerebbe del 7,6 per cento”.
Se questo secondo scenario dovesse verificarsi si avrebbe una recessione, non più tecnica (com’è quella prevista oggi), ma reale, alla quale si accompagna un’inflazione ormai superiore al 2% nella componente di fondo, e superiore al 6,7% per quanto riguarda l’indice nazionale. Vista la gravità scenario c’è da sperare che l’Italia e l’Europa si stiano muovendo al meglio per sostituire il gas russo o quanto meno prima di vare ulteriori sanzioni. Ma è davvero così?
Perché sostituire il gas ci costerà caro
Ad oggi l’Italia importa dalla Russia 29 miliardi di metri cubi di gas e per questo il governo Draghi, grazie all’azione congiunta del Mite e della Farnesina, vorrebbe sottrarsi dalla dipendenza di Mosca sostituendola con quella di sei differenti Paesi; per inciso, tutte democrazie di “ferro“, a partire dall’Egitto (dal quale importeremo 3 mld di metri cubi in più). Seguono poi, l’Angola e il Congo (con 6 mld, entro 2023), il Qatar (con 3 mld di GNL), l’Azerbaijan (con 10 mld dal TAP) e infine l’Algeria (con 9 mld entro il 2024). Su quest’ultima le perplessità sono molte, non solo per via del fatto che l’Algeria dovrebbe incrementare del 50% le proprie esportazioni verso l’Italia, ma perché il governo di Algeri sfrutta il gas come strumento di mediazione tra il potere detenuto dalle élite e il popolo che controllano; di conseguenza è difficile prevedere se e come verranno rispettati i contratti di fornitura nei confronti dell’estero.
Potranno anche sembrare questioni di lana caprina, ma in realtà è vero il contrario, perché stringere una partnership energetica per l’importazione di gas, soprattutto mediante gasdotti, è ben più complesso rispetto a comprare petrolio da un qualsiasi impianto offshore. Come racconta Francesco Sassi (ricercatore in geopolitica e mercati energetici presso il centro RIE), in un articolo a firma di Enrico Mingori uscito sul settimanale TPI, “il gas necessita di infrastrutture che sono molto costose e legano il Paese importatore e quello esportatore nel lungo periodo”. Alla luce di questo dettaglio, che pare sin da subito in antitesi rispetto agli impegni nella riduzione dell’energia fossile presi a Glasgow (infatti, si sostituirebbero i 29 mld di metri cubi russi con i 32 mld provenienti da questi 6 Paesi), è evidente che instaurare rapporti di lungo corso con “democrature”, e talvolta veri e propri regimi, espone il nostro Paese allo stesso problema etico d’oggi. Senza considerare poi che al momento nessuno di questi sostituti riuscirà ad incrementare nell’immediato le proprie esportazioni e che quindi prima di 18 mesi (come ha sostenuto lo stesso Cingolani, che inizialmente parlò addirittura di 24) sarà difficile dire addio a Gazprom; a meno che non si accettino pesanti razionamenti energetici.
Le criticità che nessuno vuole vedere
Tenuto conto della difficile sostituzione del gas russo, almeno nell’immediato, e dell’incertezza legata alla durata del conflitto in Ucraina, è difficile restare sereni. Dopo tutto, tali scenari non considerano con la dovuta attenzione i rallentamenti nei lavori parlamentari che riguardano le Riforme richieste dal Pnrr e le difficoltà che quest’ultimo sconta soprattutto dal lato dell’attuazione. A conti fatti, come riportato da Pagella Politica, Il Sole 24 Ore e l’Upb, “l’anno scorso è stato dunque speso il 37,2 per cento di quanto preventivato: circa 2,5 miliardi di euro sono andati in progetti ferroviari, circa 1,2 miliardi di euro ai bonus edilizi, 990 milioni di euro a Transizione 4.0, un programma di incentivi per le aziende, e 395 milioni di euro per l’edilizia scolastica”. Di questo passo alla stagflazione si potrebbe aggiungere il problema della spesa dei fondi legati al Pnrr.
Il motivo per cui tutto questo passa sotto traccia è da ricercarsi non solo nell’ambito politico, in cui ammettere un problema equivale ad innescare una crisi di governo, ma anche nelle regole delle istituzioni pubbliche. D’altronde, dare per probabile lo scenario peggiore (quello recessivo) potrebbe facilmente condurre a un aumento degli interessi sulla parte del debito finanziata sul mercato. Di fatto l’Italia è ostaggio del proprio debito pubblico, che si sta riducendo, ma lentamente rispetto all’aumento vertiginoso della prima ondata Covid.
Il problema di fondo è che l’ottimismo con cui si sta affrontando il presente, e soprattutto si guarda al futuro a noi più prossimo rischia di allontanarsi dalla cruda verità in cui purtroppo la pandemia e la crisi ucraina ci hanno trascinati. E se continuare a parlare di crescita al 4,7%, anche a gennaio e febbraio, sulla spinta dei risultati del 2021, è stato un atto di sicurezza risibile, prevedere una guerra di breve durata e la possibilità di fare a meno del gas russo in una manciata di mesi, rischia di trasformarsi in una tragedia. Un atto paragonabile a quello dell’orchestra che suona mentre il Titanic affonda.
Pnrr e sanità: come verranno spesi i soldi europei e qual è lo stato della sanità italiana?
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Nonostante la pandemia, e le promesse dei governi che l’hanno gestita, la sanità italiana resta universale solo sulla carta, lasciando di fatto scoperto uno dei pilastri del welfare state, al quale purtroppo neppure il Pnrr pare ora in grado di fornire un adeguato rinforzo.
Le risorse del Pnrr destinate alla sanità
Numeri alla mano, il Pnrr varato dall’attuale governo ha stanziato 15,63 mld di euro alla sanità, (ovvero, alla sesta missione del piano italiano), declinati in due differenti rami: 8,63 mld a Innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale (SSN) e 7 mld alle Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale. Al di là delle etichette, l’idea di fondo è quella di delocalizzare l’assistenza medica sul territorio, così da non gravare più un sistema, quello ospedale-centrico, rivelatosi non più funzionale né in caso di emergenza, né di fronte a una popolazione sempre più anziana e affetta da più patologie croniche. In Italia, nel 2019, si stimavano circa 10 milioni di persone, sopra i 15 anni, affette da comorbilità, ovvero con almeno 3 patologie croniche. Di conseguenza, l’idea di realizzare 1.350 case della comunità, 400 ospedali di comunità e 600 centrali operative territoriali per gestire chi di fatto non necessita di essere ricoverato in un ospedale classico, trova una sua sensatezza. Fin qui tutte misure di buon senso, ma che si scontrano con la realtà storica della sanità italiana.
Lo stato di salute della sanità italiana
Nel nostro Paese il Covid-19 ha ucciso161.000 persone (siamo primi in Europa, se si esclude il Regno Unito) e stando a quanto riportato da Francesco Zambon, in un’intervista al quotidiano La Verità, i morti reali sarebbero molti di più. Un articolo uscito sulla rivista Lancet, suggerisce infatti come a livello mondiale siano morte 18 milioni di persone, rispetto ai 6 mln conteggiati sinora, di conseguenza “per il biennio in questione (2020-2021) – dichiara Zambon – i morti non sarebbero 137.000, ma 259.000. Abbiamo ampiamente sottostimato il loro numero”. E uno dei fattori che ha determinato questo esito è forse da ricercarsi nei tagli che per anni hanno colpito la sanità pubblica.
Tra il 2010 e il 2018, in Italia, sono venuti a mancare 33.000 posti letto (da 244.000 a 211.000) e con essi il personale ospedaliero necessario a farli funzionare. Secondo le elaborazioni della fondazione Gimbe, inoltre, nella stessa decade sarebbero venuti meno 37 mld di euro di investimenti per la sanità pubblica. Ed addentrandosi ulteriormente nella matassa è facile capire come in realtà le responsabilità coprano un arco temporale ben più ampio, di almeno 20 anni, coinvolgendo più o meno ogni partito, a prescindere dal colore e dalle promesse fatte in campagna elettorale. Marco Ravelli infatti, sul settimanale TPI, ha analizzato nel dettaglio l’ultimo ventennio politico, attribuendo ben 33 mld di tagli al secondo governo Berlusconi, altri 30 mld (ancora in divenire) all’esecutivo guidato da Monti e infine 9,3 a quello di Renzi. “Il risultato – scrive Ravelli – è che quando è iniziata la pandemia non mancavano solo i posti letto, ma anche 56.000 medici e 50.000 infermieri: in Italia ci sono 5,6 infermieri ogni 1.000 abitanti mentre in Francia il rapporto è di 10,5 e in Germania di 12,6”.
Il rapporto tra forze ed esiti non è sempre lineare e Paesi con più personale e strutture sanitarie rispetto all’Italia non hanno comunque fronteggiato la pandemia con risultati molto differenti da quelli nostrani. Tuttavia, è indubbio il fatto che alcune strutture abbiano dovuto scegliere a priori chi assistere e chi no sulla base della disponibilità di un posto letto in ospedale e questo non sarebbe dovuto succedere, soprattutto in un Paese dove la sanità dovrebbe essere un servizio universale. Ed oggi il problema è che l’investimento del Pnrr rischia di non sanare affatto le attuali lacune e di lasciare inoltre ai posteri tanti edifici privi di alcuna utilità.
Le criticità del Pnrr in tema di salute
A lanciare l’allarme è Openpolis, che nella sezione del sito dedicata al Pnrr, sottolinea come “per far funzionare questo sistema tuttavia serviranno nuovi medici, infermieri, personale tecnico-amministrativo eccetera. Ne consegue quindi che senza un incremento strutturale della spesa pubblica nel settore sanitario queste strutture rischiano di rimanere delle scatole vuote”. In altre parole, non basta costruire una struttura, sia essa informatica oppure fisica, affinché la si possa usare al meglio, perché senza un personale qualificato ogni investimento rischia di rivelarsi un buco nell’acqua o, peggio ancora (come in questo caso), di esser lasciato addirittura come zavorra alle future generazioni. Oltre alla beffa anche il danno.
Le Regioni, dal canto loro, hanno già capito che senza un aumento considerevole della spesa pubblica in ambito sanitario è inutile procedere con la costruzione di nuove strutture e infatti la Campania di De Luca ha detto di no nella Conferenza Stato-Regioni. D’altronde, è Giovanni Fattore stesso, su LaVoce.info, a evidenziare una criticità nell’agire del governo: “la programmazione prevista per gli interventi strutturali, quelli finanziabili con i fondi del Pnrr, non tiene conto delle implicazioni sulla spesa corrente”. Tradotto, i soldi che l’Ue ha destinato all’Italia, e agli altri Paesi, non possono essere spesi per assumere del personale (ma per formarlo invece sì), anche perché in caso contrario verrebbe meno l’intento del piano europeo stesso: creare una serie di riforme per rilanciare la futura generazione di europei. C’è da sottolineare però, come solo la Campania si sia opposta, lasciando così intendere che chi negli anni ha accantonato risorse ora può permettersi di spenderle meglio e che di fatto esiste un divario tra le diverse Regioni d’Italia.
Tirata una riga e sommati i problemi con le soluzioni è evidente che i soldi del Pnrr destinati alla sanità siano sulla buona strada per arginare una deriva, ma assai lontani delle esigenze del Paese. Solo analizzando i dati degli ultimi 10 anni, a fronte di un taglio di 37 mld ne vengono impiegati 15,63 mld, ampiamente insufficienti per recuperare le depauperazioni portate avanti da più governi. Vi sono poi dei problemi legati a una disparità del servizio sanitario regionale (come dimostra la protesta Campana) e che il Pnrr cerca di sì di bilanciare (destinando il 40% delle risorse al Sud), ma che al tempo stesso sembrano invece destinate a riaffermarsi con ancor più forza. La sanità Calabrese, ad esempio, è tuttora sotto commissariamento e i conti dell’attuale gestione e di quella passata, prima ancora dei soldi del Pnrr, sono ancora in fase di calcolo: data di elaborazione prevista, entro il 31 dicembre 2022.
Il rischio ad oggi è quindi che il Pnrr sanitario finisca per acuire, invece di stemperare, le differenze tra Nord e Sud del Paese, rendendo così vana sia l’idea di una riforma per le future generazioni, sia la costruzione di una sanità davvero universale lungo tutto lo stivale.
Con l’avvento dei partiti antisistema c’era chi diceva che destra e sinistra rappresentassero etichette di foggia politica ormai prive d’attinenza col presente, dei sarcofagi svuotati di ogni contenuto ideologico. E l’attuale governo Draghi, ivi compresi i due che lo hanno preceduto, erano, agli occhi dei fautori di questa dottrina, la prova più lampante del superamento di tali etichetti politiche. Poi è arrivato il Pnrr con le sue riforme e la musica è cambiata all’improvviso, rendendo attuale proprio l’eterna spaccatura tra chi vuole politiche economiche di destra e chi invece ne propone di sinistra.
È infatti il voto della legge delega sulla riforma fiscale a riesumare i blocchi della seconda Repubblica, con la destra che si esprime compatta contro la revisione del catasto, mentre il centro sinistra allargato appoggia l’operato del governo, e già qui emergono le prime schizofrenie. Sì, perché in realtà nell’attuale governo ci sono quasi tutti i partiti presenti in Parlamento, fatta eccezione per l’opposizione di FdI, e quindi l’idea che i ministri della Lega e di Forza Italia si siano schierati contro la decisione presa in Consiglio, dove tra l’altro siedono ministri di questi partiti, dimostra una certa ambiguità. Ambiguità che aumenta man mano ci si addentra nella materia, perché la famosa “riforma del catasto” è in realtà solo una parte di un più ampio ventaglio di articoli, ben 10, tutti in materia fiscale e che coinvolgono l’IRES, l’IRAP e quasi ogni aspetto che coinvolga le imposte. E per essere più precisi, l’articolo 6, che è proprio quello che la destra ha cercato di sopprimere, non prevede nessun incremento d’imposta. Lo stesso Draghi ha di recente affermato che «La mappatura degli immobili non ci serve per aumentare le tasse, ma per capire lo stato del patrimonio immobiliare» e inoltre, «nessuno pagherà più tasse». L’idea del governo è quella di capire lo stato del patrimonio immobiliare italiano e poi semmai, solo dal 2026 in poi, lasciare al governo che sarà in carica la possibilità, per ora tassativamente esclusa, di aggiornare le rendite al valore reale del nuovo catasto.
Nei fatti l’articolo 6 persegue obiettivi di buon senso. Il primo, ad esempio, è quello di rintracciare quel 1.200.000 immobili fantasmi (Brunetta sul Il Foglio, ne stima 2,1 mln), di fatto abusivi, che a oggi sono stati individuati grazie alle fotografie aeree e che non pagano alcuna imposta, oltre a violare la legge. In secondo luogo, l’articolo 6 prevede che coloro che abbiano in custodia edifici d’interesse storico o artistico possano beneficiare di una riduzione del valore patrimoniale medio ordinario, in sostanza che paghino meno in virtù degli alti costi di manutenzione al quale gli immobili di loro proprietà sono soggetti. E fin qui l’accordo politico sembrava essere bipartisan, ma è sul terzo obiettivo che si sono scontrate le opposte visioni partitiche in materia fiscale, perché l’articolo 6 vuole fornire, a Comuni e ad Agenzia delle Entrate, degli strumenti per facilitare il classamento degli immobili. Tradotto, attribuire agli immobili censiti un valore patrimoniale, e di conseguenza una rendita, attualizzata e legata ai reali valori di mercato. Ma è davvero necessario? Secondo Giuseppe Pisauro sì, e su Domani ha ricordato come “L’attuale catasto, l’ultima revisione risale al 1990, dà un’immagine distorta del valore del patrimonio immobiliare non solo in termini assoluti (le rendite catastali sono molto inferiori ai valori di mercato: l’Agenzia delle entrate stima un valore di mercato medio di 190.000 euro contro un valore imponibile di 101.000 euro) ma, ciò che è più rilevante, anche in termini relativi.”. Di fatto il paradosso è che magari chi possiede una soffitta in centro, oggi ristrutturata e messa a rendita, paghi di meno rispetto a chi vive in un appartamento in periferia. Occorre poi ricordare almeno due storture che coinvolgono il patrimonio immobiliare italiano. La prima, come ricorda Pisauro, è che “l’esclusione indiscriminata della prima casa dall’Imu che produce il bizzarro risultato per cui i servizi dei comuni sono finanziati solo dai proprietari di seconde case (spesso non residenti, a proposito di federalismo)”. La seconda, anch’essa priva di senso, è che lo Stato stia ad oggi finanziando la ristrutturazione di immobili, perlopiù prime case, con sgravi tra fino al 110%, per poi non percepire quasi alcun ritorno economico. Va bene gettar soldi nel fuoco per scaldarsi un po’, ma esistono modi più intelligente per sprecare denaro pubblico.
Lo stesso Brunetta, ex ministro della PA nell’ultimo governo Berlusconi e nell’attuale esecutivo Draghiano, ha tentato di difendere le ragioni dell’articolo 6, in una lunga analisi pubblicata da Il Foglio. Nella quale viene ricordato come l’ultima riforma strutturale del catasto sia datata 1939, successivamente migliorata, ma mai davvero ridiscussa da cima a fondo. Il ministro rammenta poi come nel 2005, con la legge Finanziaria dell’epoca, si provò a dare ai comuni la possibilità di adeguare le rendite catastali ai valori di mercato, peccato che ad usufruire di questo vantaggio siano stati 17 centri sugli 8.000 interessati. Poi Brunetta si fa dapprima portavoce di Federico Caffè, “Fare politica economica significa tre cose: analisi della realtà, rifiuto delle sue deformazioni e impiego delle nostre conoscenze per sanarle” e poi di Luigi Einaudi: “conoscere per deliberare”. Salvo poi concludere l’articolo con concetti economici estranei alla filosofia di entrambi questi pensatori: “Nessun esecutivo sostenuto dai voti di Forza Italia potrà avallare, anche dopo il 2026, una riforma del catasto punitiva che sprema ancora di più il settore immobiliare o che si abbatta sul ceto medio con l’alibi dell’equità nell’invarianza di gettito complessivo. Noi terremo la barra dritta. La casa degli italiani non si tocca, né ora né mai.”. E qui viene giù il castello di carta della propaganda politica. Già, perché Brunetta asserisce che la riforma del catasto sia imposta dal Pnrr e che riprenda una raccomandazione specifica della commissione Ue del 2019. Ma è vero o falso? Diciamo a metà.
È vero il fatto che nel 2019 l’Ue abbia chiesto all’Italia di aggiornare il catasto usando queste specifiche parole: “Inoltre i valori catastali dei terreni e dei beni, che costituiscono la base per il calcolo dell’imposta sui beni immobili, sono in gran parte non aggiornati ed è ancora in itinere la riforma tesa ad allinearli ai valori di mercato correnti.”. Però, sempre nello stesso documento, e giusto un paio di righe sopra, si legge anche “le basi imponibili meno penalizzanti per la crescita, come il patrimonio e i consumi, sono sottoutilizzate, vi sono margini per alleggerire il carico fiscale sul lavoro e sul capitale senza gravare sul bilancio dello Stato. L’imposta patrimoniale ricorrente sulla prima casa è stata abrogata nel 2015, anche per i nuclei familiari più abbienti.”. Brunetta avrà sicuramente letto anche questo passaggio, salvo poi concentrarsi su altro, adottando esattamente lo stesso modus operandi con il quale avrà studiato Caffè ed Einaudi: quello che avvalla le mie idee lo prendo, il resto no. Una sorta di Menù alla carta delle note della commissione e dei passaggi dei grandi dell’economia italiana.
Ora, sul discorso sulla pagina 28 del Pnrr (che Brunetta cita sul Il Foglio) e dell’esigenza di riformare il catasto c’è un po’ di confusione, perché di fatto la legge sulla delega fiscale (che comprende la revisione del catasto) non è necessaria per ottenere i fondi dall’Ue. E su Pagella Politica, noto sito di fact-checking, si smentisce, categoricamente, bollandola come “panzana pazzesca” l’idea che il Pnrr preveda una qualsivoglia riforma del catasto. Per di più, sempre Pagella Politica, ci ricorda come neppure la riforma del fisco sia richiesta per ottenere i fondi europei; si tratta infatti di una delle cosiddette “riforme d’accompagnamento”. Nel dettaglio, “In base al Pnrr approvato lo scorso 13 luglio dall’Unione europea, entro il 2026 l’Italia si è impegnata a portare a termine 63 riforme, che si dividono in tre categorie. Le più importanti sono le due riforme orizzontali, quella della pubblica amministrazione e quella della giustizia. Poi ci sono le riforme abilitanti, pensate per garantire l’attuazione del piano e migliorare la competitività, e quelle settoriali, che – come suggerisce il nome – hanno una natura molto specifica e accompagnano gli investimenti delle sei missioni in cui è diviso il piano.”.
Si giunge così all’ennesimo teatrino politico, dove si annuncia una posizione, la si difende come si può, salvo poi fare l’esatto opposto. A pensarci bene, infatti, l’esecutivo che abrogò la tassa sulla casa fu quello guidato da Matteo Renzi, che all’epoca non era a capo di un partitino, com’è oggi, ma era il leader di quel Pd che alle europee prese il 40,8% del consenso. D’altronde cosa c’è più di sinistra se non abolire le tasse sulla casa a tutti, abbienti compresi?
Ricapitolando, coloro che oggi difendono una mappatura del catasto sono, in gran parte, gli stessi che in precedenza avevano contribuito a difendere i redditi patrimoniali, cioè quelli che alla lunga premiano i ceti più abbienti e riducono la crescita; mentre ad opporsi alle tasse sono i soli noti, la destra unita, con la schizofrenia di Forza Italia che vede in Brunetta un difensore dell’articolo 6 e chi ha votato in commissione un feroce oppositore. Tutto questo non è sensato, ma d’altro canto non lo è neppure mettere in crisi un governo all’alba della più grande crisi energetica dagli anni ’70 ad oggi, con l’inflazione corre, le catene d’approvvigionamento ferme ed infine, elemento trascurabile per chi ha votato contro, il fatto che c’è un Paese, l’Ucraina, invaso dalla Russia, la quale sembra pronta a tutto pur di continuare la sua occupazione, persino a una guerra nucleare. Ecco, in questo scenario, che poi è il mondo, in commissione e sui media, governo e politici hanno trovato il tempo dispensare fake-news, difendere rendite patrimoniali e redimere un passato in cui hanno professato altro. Ed è in questo humus che è riemersa la spaccatura tra destra e sinistra, anche se, a guardar bene, queste sigle dicono qualcosa solo se guardate a debita distanza, perché più ci si avvicina, più è facile scorgere l’inconsistenza di chi si pone sotto l’una e l’altra bandiera.