Tre indizi fanno una prova: l’inflazione e le nostre colpe

L’attuale crisi climatica, i colli di bottiglia e infine l’enorme debito pubblico italiano ci possono aiutare a comprendere meglio il perché dell’aumento dell’inflazione e di quella che domani, forse, sarà la futura crisi finanziaria. L’Italia, infatti, rischia più di altri di dover pagar pegno ed essere presa di mira dagli speculatori, ma le colpe di tutto non ricadono solo sui soliti indiziati e vanno ricercate nel passato del Bel Paese e nelle congiunture col presente.

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Sono bastate una manciata di gaffe e il sovrapporsi di tre congiunture per rendere evidenti le ipocrisie che per anni hanno accompagnato la politica della UE e dei singoli Stati ad essa aderenti. Nessuno, infatti, neppure la Germania, è esente dall’aver contribuito a creare quella tempesta finanziaria che tra qui e il prossimo inverno rischia di scatenarsi sui mercati del Vecchio Continente. Tempesta di cui un assaggio c’è già stato in questi mesi, con l’impennata dell’inflazione dal lato dell’offerta e la necessità di intervenire con l’incremento dei tassi da parte della Bce, per arrestarla, con la conseguenza che gli spread, soprattutto di Paesi indebitati come l’Italia, sono schizzati alle stelle, per poi riscendere.

La miopia legata all’uso del gas e gli effetti del cambiamento climatico

Per comprendere l’evolversi dell’attuale quadro macroeconomico, in cui geopolitica e politiche locali hanno un ruolo importante, occorre ritornare allo scorso inverno e più precisamente a Glasgow, quando i grandi della Terra hanno affrontato la realtà dei fatti: non esiste un pianeta B e i cambiamenti climatici esistono per davvero. Già, perché sino al 31 Ottobre del 2021 l’esigenza di dover contenere le emissioni di CO2 era sì presente, ma non pressante (come evidenziato dal grafico).

Fonte: Nature

L’idea generale, concordata a Parigi e ripresa a Glasgow, è quella di interrompere l’ascesa delle emissioni di CO2, ma non prima che ciò sia conveniente ai mercati. Il carbone, ad esempio, responsabile dell’80% delle emissioni di CO2 del comparto energetico, almeno nell’Ue, sta certamente subendo continue riduzioni, ma al suo posto è subentrato il gas. Dagli anni ’90 ad oggi i Paesi dell’Ue hanno infatti scelto di incrementare la quota di gas importato quale sostituto meno clima alterante rispetto al carbone (producendo il 40% di CO2 in meno) e per tanto, esso è stato inserito nella tassonomia verde europea.

Fonte: Eurostat

Ma il gas è davvero così verde come si dice? Secondo le commissioni europee chiamate a decidere, per ora no. Come riportato da Domani, in un articolo a firma di Francesca De Benedetti, le critiche al gas non sarebbero arrivate solo dagli ambientalisti oltranzisti e radical chic (come li ha definiti Cingolani), ma persino da JP Morgan, Goldman Sachs e dallo stesso Eu Technical Expert Group che ha stilato il dossier tecnico per la commissione europea. “La notte di Capodanno – scrive De Benedetti – è filtrato il piano di Bruxelles: dare l’etichetta verde a gas e nucleare, proprio come da accordo fra i governi. Il parere negativo espresso dalla Piattaforma sulla finanza sostenibile, che raccoglie componenti come l’Institute for European Enviromental Policy, ma pure la Banca Europea degli Investimenti (Bei), mondo della scienza e degli investimenti, non ha fermato Ursula von der Leyen, che a febbraio, ignorando qualche voto contrario e astensione nel suo stesso collegio di commissari, è andata dritta per quella strada.” Ora il Parlamento europeo potrebbe riscrivere la tassonomia, visto che alla crescente fronda dei sempre contrari al gas si è ora aggiunta quella di coloro che intravedono nel combustibile fossile la mano finanziaria di Putin (e questo persino tra i membri del PPE).

Ed è qui che si palesa la prima congiuntura e relativa ipocrisia: di fronte al riscaldamento globale si è scelto di continuare a investire su energie fossili perlopiù presenti in Paesi dai profili anti-democratici, ed oggi, nonostante i dati sul clima non incoraggianti e le ipocrisie sui conti in rubli, la scelta di molti Paesi dell’Ue resta la stessa: più gas per tutti. Nonostante ogni nuovo giacimento di gas rappresenti un chiodo sulla bara della specie umana, si continua a cercare gas e stringere accordi con Paesi non allineati ai valori Occidentali ed in primis al concetto base di democrazia.

I colli di bottiglia e lo shock dal lato dell’offerta

Tuttavia, così come una rondine non fa la primavera neppure una singola congiuntura è sufficiente a spiegare la tempesta che attende i mercati. Guerra e clima sono certamente impattanti, a maggior ragione oggi, sulla scia dei tagli delle forniture di gas da parte di Gazprom, ma è una seconda congiuntura ad aver dato il colpo decisivo. Con l’avvento della pandemia di Sars-Cov2 si era interrotto quel flusso di merci e persone che ha permesso alla globalizzazione di marciare e trascinare con sé le economie mondiali. Di fatto, dalla fine del 2019 sino a quando le strategie di contenimento messe in atto da vari Paesi del mondo non hanno iniziato a dare gli effetti sperati, la globalizzazione e con essa il modello produttivo del Just in Time, hanno smesso di correre. È stato grazie ai vaccini e alle policy di contenimento del virus che la Cina e gli States hanno ripreso a marciare, trascinando poi con loro il resto del mondo, come mostra l’indice delle Commodities elaborato da Bloomberg; dal quale si evince come il 2021 sia stato l’anno migliore di sempre, persino del 2011 post Grande Recessione.

Fonte: Bloomberg

Ma le cose non sono mai così semplici. E se da un lato è vero che la fine della pandemia ha portato ad un miglioramento delle condizioni economiche, dall’altro i prezzi dei beni sono aumentati così tanto da rendere più instabile la ripresa economica. Ma cosa significa?

Gli economisti di tutto il mondo si interrogano sul perché i prezzi siano aumentati tanto: il ragionamento più semplice è che l’uscita dalla pandemia abbia spinto i consumatori a domandare sempre più massicciamente prodotti e spingere così in alto l’inflazione. In politica monetaria, questa inflazione viene definita “positiva” ed è un buon segno per la ripresa del benessere della società: più domanda uguale più consumi, più lavoro, più stipendi. Ma non è invece da mettere nel cassetto l’eventualità che questo aumento dei prezzi sia stato dovuto principalmente ad un livello di offerta troppo basso, minore della situazione pre-pandemia, a parità di domanda dei beni. È come dire che lo stesso prodotto post pandemia abbia subito un aumento di prezzo perché i produttori ora non sono più in grado di produrlo al prezzo di un tempo. E questa viene definita inflazione “negativa”, poiché rappresenta un freno all’economia: in questo caso, infatti, più inflazione significa meno domanda, meno consumi, meno occupazione e quindi salari ridotti. Scritto più semplicemente: uno shock sui prezzi dal lato dell’offerta aumenta l’inflazione e diminuisce la produzione (generando poi la stagflazione).

E noi oggi dove ci troviamo? Prima dell’inizio della guerra, le principali banche centrali erano convinte che si trattasse effettivamente di un aumento dei prezzi ambivalente, quindi in grado di colpire sia il lato della domanda sia il lato dell’offerta, con l’attenuante che quest’ultima manifestazione si sarebbe poi sgonfiata una volta che le produzioni avessero recuperato le condizioni economiche pre-Covid. Ma la guerra ha fatto il suo ingresso, e con lei il conflitto commerciale tra super potenze. La Russia è stata colpita da pesanti sanzioni commerciali che di riflesso hanno certamente avuto un effetto sulle nostre economie. Ma soprattutto, è stata la risposta di Mosca a creare più insofferenza al già fragile equilibrio di domanda ed offerta: come abbiamo scritto, l’economia occidentale si basa prevalentemente sull’uso di gas e petrolio per far funzionare la produzione ed è chiaro che se esso viene tagliato, l’offerta di beni subisce un grosso ridimensionamento, che poi si traduce in un aumento (in chiave “negativa”) dei prezzi. Ed è così che in Europa e negli USA, si sono impennati i prezzi dei beni al consumo, soprattutto delle materie prime, come il gasolio, facendo schizzare le previsione dell’inflazione e preoccupare le banche centrali, tanto da spingerle a rivedere le loro politiche sui prezzi.

Si palesa poi una differenza tra gli Stati Uniti e la UE: i primi, a prescindere dalla loro miglior capacità di attutire i colpi grazie ad un mercato del lavoro più elastico (non per forza socialmente migliore), hanno l’asso nella manica per non far andare completamente fuori controllo l’aumento dei prezzi. Infatti, gli Stati Uniti sono tra i più grandi esportatori di gas e possono quindi sopperire alla crisi energetica più facilmente degli europei che sono poverissimi di materie prime fossili. Un’altra prova della cecità del Vecchio Continente di non aver investito prima su modalità alternative di approvvigionamento di energia.

La congiuntura italiana

Una volta analizzate queste due congiunture e i limiti delle politiche attuate per porvi rimedio, occorre rivolgere lo sguardo ai mali del nostro Bel Paese. L’Italia, infatti, e in special modo la sua classe dirigente, ha tracciato un solco che dagli anni ’80 ad oggi espone la nostra economia alle turbolenze dei mercati. D’altro canto, come raccontano i dati di Banca d’Italia, il debito pubblico del nostro Paese è cresciuto nonostante l’assenza di crisi economiche globali, tanto che nel 1993 aveva già toccato il 120% del Pil. C’è poi stata un’opera di revisione dei conti, con l’avvento dell’euro, ma di fatto non si è più scesi sotto quota 100% è da questa incapacità di riassorbire le risorse erogate dallo Stato (a stimolo dell’economia nazionale) che è iniziato il declino dei conti pubblici.

Il ciclo economico, così come previsto sia dagli studi classici, sia da Keynes stesso, prevede infatti dei momenti di recessione di fronte ai quali si rende necessario l’intervento pubblico per riequilibrare una domanda che non trova più allineamento all’interno del mercato e questo lo si è visto sia durante la Grande Recessione, sia oggi con la crisi pandemica. Lo Stato quindi spende, facendo deficit, per evitare il tracollo e la sofferenza tra le fasce della popolazione più svantaggiate introducendo sussidi e stimoli all’economia. Tuttavia, in assenza di un risanamento dei conti pubblici, da effettuarsi nel successivo boom, ci si espone poi alle speculazioni del mercato. E’ sempre la storia della cicala e della formica.

Draghi, quando era a capo della Bce, aiutò gli Stati con un debito pubblico elevato grazie al famoso whatever it takes: tradotto, se il debito dello Stato sul mercato fosse stato allocato a tassi d’interesse troppo elevati, lo avrebbe comprato la UE. Una cosa simile era successa col Pepp durante la pandemia, ma ora, complici le due congiunture descritte in precedenza, la politica monetaria deve fronteggiare l’inflazione attraverso un aumento dei tassi e col rischio di soffocare la crescita.

E di fronte a questo aumento dei tassi i Paesi maggiormente indebitati (e che negli anni hanno dimostrato di non saper rientrare del proprio debito), oggi pagano pegno e più di altri. In tal senso è interessante il caso del Portogallo, che come racconta Luciano Capone sul Foglio, “Di fronte all’aumento dell’inflazione, agli evidenti segnali di rallentamento nell’Europa centrale e orientale e alla prospettiva di tassi d’interesse più elevati – diceva meno di un mese fa il ministro delle Finanze portoghese – non possiamo permetterci di introdurre un fattore di rischio aggiuntivo”. L’obiettivo di Medina è sostenuto dal suo predecessore e ora governatore della Banca centrale portoghese, Mário Centeno, secondo le cui proiezioni il rapporto debito/pil del Portogallo scenderà al di sotto di quello di Francia, Spagna e Belgio entro il 2025, per arrivare al 104 per cento nel 2027, 30 punti in meno rispetto al picco del 2020 (135 per cento).” In Italia, invece, i piani di rientro del debito sono assai più graduali e già oggi c’è chi invoca persino un nuovo scostamento di bilancio e la sospensione ad libitum del Patto di Stabilità.

Lo spread: la fotografia di un Paese

Esiste quindi un dato che ad oggi mostra, in tutta la sua plasticità, gli effetti delle tre congiunture sin qui descritte è quello dello spread italiano.

L’incremento del differenziale tra Btp e Bund inizia nel novembre del 2021, a margine degli accordi di Glasgow e all’indomani dell’affermarsi dei colli di bottiglia ed illustra come l’Italia rappresenti, soprattutto a causa dell’incapacità di riformare settori a rendita e di rinnovarsi, la preda ideale per chi intenda speculare. Il lavoro dello speculatore di fatto è proprio questo, trovare Paesi in crisi e agire fino a quando qualcuno non interviene, in questo caso la Bce con lo scudo anti-spread e Christine Lagarde con le sue parole.

Tuttavia, sperando sempre che la Ue intervenga risolutamente e tempestivamente, le colpe dell’attuale situazione economica italiana vengono da più lontano e investono soprattutto una classe politica incapace di fare riforme e impreparata di fronte alle emergenze. Si può quindi cercare di addossare tutte le responsabilità dei mali italiani a Greta Thunberg e agli ecologisti che vogliono salvare il mondo, oppure all’Europa che impone vincoli di bilancio e politiche a vantaggio della Germania, ed infine alle autocrazie, dapprima quella cinese e poi quella russa col Covid e il ricatto del gas. Ma sarebbe assai più saggio guardarsi allo specchio, leggere i dati che mostrano decenni di sperperi e di clientelismo, per poi individuare i mali della politica ed infine quelli degli elettori che scelgono sempre chi promette loro l’uovo oggi, senza però spiegare che così domani non ci sarà mai nessuna gallina.

di Roberto Biondini e Claudio Dolci  

Le banche centrali sono davvero indipendenti dalla politica?

Fed, Bce e Banca Centrale Russa a confronto: come stanno reagendo agli shock esogeni del momento

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Nel 2004 il linguista statunitense George Lakoff, per anni docente all’Università di Berkeley, scrisse un saggio dal titolo “Don’t think of an elephant” svelando al grande pubblico ciò che per anni i cognitivisti hanno sostenuto con le loro ricerche, ovvero che le parole strutturano il nostro pensiero, i problemi che affrontiamo e le soluzioni a nostra disposizione. A prima vista potrebbe sembrare una scoperta di poco conto, ma le sue implicazioni possono aiutarci a comprendere l’attuale fenomeno inflazionistico e soprattutto il frame decisionale nel quale si stanno muovendo tre grandi banche centrali: quella americana, quella russa e infine quella europea.

Al post pandemia e i suoi colli di bottiglia si aggiunge ora il conflitto russo-ucraino

Ad oggi ogni istituzione centrale è costretta a dover fronteggiare più fonti di destabilizzazione (o stressor) di natura esogena, come ad esempio la crisi innescata dalla pandemia, che ha dapprima immobilizzato il motore della globalizzazione, facendo crollare la domanda (con i lockdown), per poi ridimensionare l’offerta (attraverso i famosi colli di bottiglia) e infine ha paralizzato le strategie di spesa dei singoli governi e di conseguenza l’azione delle banche centrali. Le quali, dal canto loro, erano già impegnate nel consolidare la ripresa successiva alla Grande Recessione e l’emergenza climatica; che da Parigi in poi, ha subito diverse battute d’arresto, sfociando nell’impegno mondiale di Glasgow e nella rimodulazione dei fondi del Next Generation EU per una transizione energetica. Occorre infatti ricordare che l’aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto quelle legate a fonti energetiche meno inquinanti (si fa per dire), come il gas, è stata innescata anche da una crescente domanda, la quale ha coinvolto non soltanto l’Occidente, ma anche la fabbrica del mondo, ovvero la Cina. A tali variabili (pressoché tutte esogene) si è ora aggiunta la crisi geopolitica (ennesima influenza esterna), che trova indubbiamente nel conflitto tra Russia e Ucraina il suo sintomo più manifesto, ma che in realtà era già ben presente da tempo. Un esempio? La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, la corsa alle terre rare in Africa (con la conseguente lottizzazione neo-imperialista di quel continente) ed ovviamente il conflitto Cina-Taiwan-Usa e quello in corso in Medio Oriente per rallentare l’ascesa dell’Iran in qualità di potenza nucleare.

Ognuna di queste variabili ha accresciuto l’impatto economico di quelle che l’hanno preceduta modificando l’agenda dei governi e delle banche centrali più e più volte, sino a determinare l’attuale situazione, nella quale è difficile abbandonare la strategia in corso per abbracciare quella più utile alla situazione corrente. E qui subentra il primo problema. Le banche centrali, infatti, e così dovrebbero fare anche i dicasteri preposti alla gestione economica, non ragionano in termini di emergenze (o come in questo caso, di Cigni neri), ma svolgono perlopiù un’attività di pianificazione affinché la crescita prosegua e con essa l’occupazione, il benessere e gli investimenti: tutto in linea cone le aspettative degli attori del mercato. Certo, oltre a questo le banche centrali assolvono anche la funzione di reset dell’economia nei confronti dei grandi stravolgimenti esogeni, ma c’è un limite oltre il quale la bussola che orienta le decisioni dei banchieri centrali non indica più il nord, né il sud, e l’unica cosa che pare sensata fare è navigare a vista, ed ogni comandante lo fa a suo modo, così come sta accadendo ora.

L’america dell’austerity: come ne uscì e che cosa ci insegna oggi

Ad esempio, nel 1980 l’economia americana dovette affrontare un’inflazione a doppia cifra, pari al 14,2% (contro i 7,6% attuali) e l’allora governatore, Adolph Volcker Jr, sotto l’amministrazione Carter, trovò il modo di stabilizzarla adottando strategie da guerriglia mista, in parte previste dagli strumenti convenzionali e in parte così forti da imporre una destabilizzazione nella mente degli operatori del mercato (come fece Draghi col bazooka del Quantitative easing). Di fatto Volcker fece ciò che è necessario per spegnere un incendio in un pozzo di petrolio, usare la dinamite e bruciare così l’ossigeno necessario alle fiamme per alimentarsi. Una mossa apparentemente controintuitiva, ma necessaria a modificare radicalmente le aspettative. Così, nel 1981 i tassi sui titoli del tesoro raggiunsero il 22,4%, quindi 13 punti in più rispetto al ’79, e il messaggio di Volcker fu, come riportato da Franco Bruni su Domani, “la gente doveva capire e credere solo che la politica monetaria avrebbe piegato l’inflazione, indipendentemente dal rialzo dai tassi che la contrazione della liquidità avrebbe causato”. Tradotto, la Fed avrebbe fatto tutto il possibile e persino l’impensabile per modificare le aspettative dei mercati, gettando un candelotto di dinamite là dove era scoppiato l’incendio. Magari un piano folle, ma funzionò. Oggi, invece, Powell sta sì aumentando i tassi, ma attraverso un intervento più cauto rispetto a quello adottato da Volcker, il cui esito è ancora tutto da verificare.

La banca centrale russa alla prova della guerra

Chi invece sta seguendo la strategia dell’ex-banchiere della Fed Volcker, è Elvira Nabiullina, che per salvare l’economia russa e il rublo dal default ha dapprima alzato i tassi del 20% e poi giocato per anni a una politica che per i governi italiani è pura fantascienza: ridurre il debito. Con un economia che si regge quasi unicamente sulle materie prime, quindi improntata all’export, Nabiullina ha fatto di tutto per mantenere in ordine i conti che Putin ereditò dal disastro compiuto da El’cin, bilanciando le spese e le manovre espansive in modo da ottenere una crescita modesta dell’economia, invece di premere sull’acceleratore a suon di debito (come invece ha fatto l’Italia per quasi trent’anni). In questo modo il rublo è stato lasciato libero di fluttuare, com’è tuttora, basando le spese sull’ingente ingresso di valuta estera, utili sia a stabilizzare i conti pubblici, sia ad acquistare prodotti d’importazione. La banca centrale russa (CBR, Central Bank of Russia) ha evitato di creare debito persino di fronte alla sciagura pandemica, continuando verso la via dell’austerità, conscia del fatto che il mondo avrebbe sempre avuto bisogno di gas e petrolio, pagato a suon di dollari ed euro. Ed anche oggi, nonostante sia evidente la spinta imperialista di Putin, che nulla ha a che vedere con la politica monetaria adottata dalla banca centrale russa negli ultimi 9 anni, il rublo sta, seppur faticosamente reggendo, anche se con molte incognite. La borsa russa è solo parzialmente riaperta (dopo la chiusura all’indomani della guerra), le riserve in valuta estera sono ancora perlopiù bloccate (eccezion fatta per i capitali in ingresso e l’oro) e l’inflazione a febbraio ha toccato il 9,2% ed è probabile, vista la corsa ad accaparrarsi i generi d’importazione, che sia destinata a crescere. Tuttavia, la strategia adottata da Nabiullina ha retto l’impatto e il rublo, come riporta Fubini sul Corriere, ha subito perso un 42%, all’indomani dell’invasione in Ucraina, per poi riacquisire il 32% del proprio valore; ed inoltre, l’attuale mossa di Putin, che obbliga ad acquistare le materie prime in rubli, potrebbe stemperare ancor di più quelle sanzioni che volevano affossare l’economia russa. In questo caso si tratta di riscrivere contratti già siglati e i Paesi europei più dipendenti dal gas e petrolio russo hanno già fatto sapere che non intendono accettare le nuove condizioni, ma il solo fatto di aver annunciato (perché è di questo che si tratta) un cambio della valuta ha fatto risalire il rublo di un +6%.

La bce e il controllo dell’inflazione dopo anni di politica espansiva

E la Bce invece? In Europa regna ancora una strategia attendista. Ma come mai si è scelto di tergiversare? Una prima risposta la fornisce Giorgio Arfaras sul Il Foglio, ricordando come “se la maggior inflazione fosse frutto degli andamenti dell’offerta (i prezzi delle materie prime che salgono e dei colli di bottiglia nel campo della tecnologia e dei trasporti) allora un rialzo dei tassi servirebbe a poco, anzi rischierebbe di frenare la ripresa che stava prendendo forza dopo la pandemia. Se per il timore di sbagliare, perché l’inflazione è da offerta e non da domanda, le banche centrali non facessero nulla, o molto poco, e quindi l’inflazione si mantenesse elevata nel tempo, si potrebbe avere lo stesso un forte impatto negativo sulla crescita, nel caso comparisse, come negli anni Settanta, la ricorsa fra prezzi e salari”. Arfaras invita quindi tutti a non confondere le mele con le pere, ovvero ad evitare analogie tra le risposte della Fed e la Bce. In breve, è possibile che l’inflazione a stelle e strisce sia trainata perlopiù dalla crescita della domanda (che è un bene, perché segno di un boom post-pandemico), mentre quella europea sia ancora sospinta dalle carenze del lato dell’offerta (e questo è un male). Come ha ricordato Fabio Panetta, membro del consiglio direttivo della Bce, si differenziano tre tipologie d’inflazione, quella cattiva – frutto di uno schock dell’offerta, come nel caso dei colli di bottiglia –, quella buona – dettata da un aumento della domanda, dell’occupazione e della produzione –, ed infine quella brutta – che quindi persiste nel tempo –, ed in Europa ora c’è quella cattiva. Che fare dunque?

Una prima risposta potrebbe essere quella di allinearsi alla politica della Fed, alzando quindi i tassi, ma così facendo c’è il serio rischio di compromettere la crescita non ancora consolidata; occorrerebbe perciò proseguire con una politica fiscale espansiva, come suggerito dall’economista Paolo Trezzi, così da attenuare gli effetti negativi per famiglie e imprese (quindi altro debito comune). Tuttavia, per fare ciò diventa necessario un accordo tra i 27 e questo al momento non c’è. L’Ue sta proseguendo l’ormai collaudatissima strategia di frammentazione che riguarda già sia la difesa (dove si stanno sperperando risorse in barba a qualsiasi economia di scala e di raggio d’azione), sia il fronte energetico, dove non si è ancora trovato un accordo (anche perché gli aumenti stanno colpendo principalmente Italia, Germania e quasi tutti i Paesi di Visegrad). Senza considerare poi che sul famoso fiscal compact aleggiano ancora le nubi dell’incertezza, mentre sul Pepp (il piano d’acquisto europeo) il dado è ormai tratto, terminerà a fine mese. Ed è in questo mare di contraddizioni e non azioni che si consuma il dramma della Bce, perché sottostima i rischi, tra cui quello di una possibile stagflazione, e non rende chiare le sue decisioni ai mercati e forse anche a sé stessa: e questo è un errore che una banca centrale non può permettersi.

In Russia, ad esempio, è la politica a guidare le decisioni della banca centrale, mentre negli States, salvo rare eccezioni (com’è accaduto durante la Grande Recessione) è l’indipendenza a guidare la Fed, anche perché il dollaro funge da moneta di riferimento per il sistema economico. In Europa, invece, esiste una moneta unica, ma non c’è un istituzione bancaria né davvero indipendente dalla politica (stile Fed), né succube di quest’ultima (com’è in Russia) e i dati a favore di questa tesi sono due. Il primo riguarda l’attuale Presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, più volte accusato dai falchi dei Paesi frugali di avvantaggiare gli interessi del Bel Paese, ed oggi alla sua guida. Un caso, quello di Draghi, che rischia di ripetersi con Lagarde, visto le indiscrezioni riportate da La Repubblica circa un possibile ingresso dell’attuale numero uno della Bce nel venturo governo Macron, in qualità di Primo ministro. Se ciò dovesse verificarsi, si tratterebbe dell’ennesimo caso di revolving doors inopportuno, nonché smaccato nei confronti di ruoli e carriere che dovrebbero restare scissi. Tuttavia, la Bce non è neppure succube della volontà politica com’è la CBR in Russia, dove Nabiullina non ha neppure potuto dare le proprie dimissioni. Si assiste quindi a una sorta di vuoto decisionale in seno alla Bce, la quale rincorre l’agire di chi ha più potere decisionale (ed economico) nella zona Ue, senza imporsi davvero come un’entità super partes. Ed è per questo che oggi Lagarde appare come bloccata in uno stallo strategico, che grazie a Lakoff e la sua intuizione acquista un senso.

Sia la Fed, sia la CBR, infatti, si muovono nel tentativo di creare aspettative, di far coincidere i loro pensieri con quelli degli investitori, affinché siano quest’ultimi, con le loro azioni, a realizzare vere e proprie profezie che si autoavverano. D’altronde, se gli investitori credono che l’inflazione sia transitoria essa lo diverrà, ed è così per tutto ciò che le banche centrali riescono a generare con le loro dichiarazioni e la credibilità di cui dispongono. L’economista Tommaso Monacelli ha ricordato, in un articolo su il Foglio, come “non esistono un’inflazione transitoria e una permanente, l’inflazione è unica e può diventare transitoria in base alle scelte di politica monetaria che orientano le scelte di consumatori e investitori”. Ed è questa la cornice decisionale nella quale si muovono da sempre i banchieri e i mercati, ma soprattutto le varie teorie macroeconomiche: tutto ruota attorno alle aspettative, un concetto che in Europa non sembra aver presa. La Bce, infatti, è priva di una voce univoca e forte e per questo la sua capacità di creare delle aspettative credibili è debole e spesso contradditoria. Il problema, come ha sottolineato Tommaso Monacelli, è che la politica monetaria “è un misto tra scienza ed arte” ed forse il caso che Lagarde rifletta su ciò, perché con le sue parole, e l’assenza di una strategia di medio periodo, rischia di affossare l’intera zona Ue e non più solo le cicale del Sud: perché in ambito macroeconomico le parole hanno il potere di modificare la realtà più di quanto possa fare l’oro contenuto in un caveau.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini