La manovra che verrà

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Gli italiani hanno deciso, fuori Draghi e dentro Meloni. Il successo della coalizione di centrodestra era già stato anticipato da numerosi sondaggi, ma ora ad aspettare la probabile neo-premier ci sono gli altrettanti i numerosi dossier economici aperti e in gran parte contraddistinti dal segno negativo. D’altronde, il quadro macroeconomico europeo è ancora contraddistinto da un’elevata incertezza, dall’esplosione dei prezzi energetici e dall’instabilità politica.

L’Europa tira dritto a prescindere dal futuro esecutivo italiano

Dal fronte europeo la prima a richiamare tutti all’ordine è Christine Lagarde, la quale ha annunciato che a breve la Bce dovrà aumentare ancora i tassi d’interesse. E ciò significa che vi sarà un aumento del costo del debito pubblico italiano, per via del crescere degli interessi, e che anche per le imprese sarà più difficile reperire i denari necessari a finanziare le loro attività. La mossa della Bce è obbligata dal contesto congiunturale, come ribadito da Lagarde stessa: le prospettive si stanno facendo più fosche. L’inflazione rimane troppo alta ed è probabile resterà sopra i nostro target per un periodo esteso di tempo”. Tuttavia, il costo da pagare per fermare l’inflazione è il raffreddamento della domanda interna all’eurozona e quindi della ripresa post-pandemica. D’altro canto, il mancato accordo sul price cap europeo impedisce di raffreddare la speculazione sul prezzo del gas, a cui si aggiungono il rallentamento dell’economia cinese e gli ancora persistenti colli di bottiglia, che nell’insieme di certo non aiutano a sedare un’inflazione ancora imperturbabilmente al galoppo.

E sempre con l’Europa Meloni dovrà ancora andare d’accordo per un po’, viste le imminenti scadenze del Pnrr. Da Bruxelles son infatti ora in arrivo i 24 mld, relativi alla seconda tranche del Pnrr (che ne complesso ne stanzia oltre 190), ma a dicembre dovranno essere centrati 55 obiettivi (di cui 29 già raggiunti dall’esecutivo Draghi e 26 ben avviati) per ottenerne altri 21,8 mld. Il che significa che, almeno per il momento, non sono possibili quelle modifiche al Pnrr tanto invocate dalla coalizione di centrodestra. L’unica scappatoia che Bruxelles potrebbe concedere alla coalizione guidata da Meloni, come riportato dal Sole24 Ore, riguarderebbe una o più deroghe su quelle opere i cui costi sono stati stravolti dall’impennata dei prezzi, ma oltre a questo i margini sono troppo stretti. Occorre poi ricordare come per i vertici amministrativi alla guida del Pnrr non sia previsto il collaudatissimo spoil system, con i quali vengono da sempre sostituite le persone alla guida di numerose istituzioni italiane, a partire dai Media statali.

Terminata la rassegna europea si passa al fronte domestico, quello più caldo.

Il governo Draghi ha stanziato complessivamente 66 mld di euro contro i rincari, ma molte misure scadranno a breve e dovranno essere rinnovate, altrimenti gli italiani si ritroveranno all’improvviso in un incubo occultato da misure a pioggia. Calcolatrice alla mano, per la Nadef serviranno tra i 40 e i 50 mld di euro: non proprio un inizio di legislatura in pompa magna. Questi miliardi serviranno a rifinanziare il taglio degli oneri di sistema sulle bollette di gas e di luce, a sforbiciare il cuneo fiscale, a ridurre di 30,5 centesimi il prezzo al litro dei carburanti ed infine a sostenere i crediti d’imposta per le imprese costrette a fronteggiare bollette alle stelle.

Non va poi dimenticata un’urgenza prossima relativa alla CIG. La riforma Orlando, partita a gennaio, prevede la CIG onerosa per le aziende e rigidi tetti alla durata, come riporta il Sole 24 Ore. Molte imprese, però, hanno esaurito il plafond e per questa ragione già 400 milioni di ore di deroga sono stati inseriti per evitare una catastrofe sociale. Nel frattempo, l’Istat dichiara l’aumento delle ore in cassa integrazione e la richiesta di sussidi di disoccupazione. Inoltre, le stime per il mercato del lavoro sono tutt’altro che rosee. Una bomba ad orologeria aleggia per il Bel Paese.

Dal canto suo, Meloni potrà contare su almeno un asso nella manica, ovvero l’extra-gettito lasciatole in eredità da Draghi e relativo ai mesi di settembre, ottobre e novembre. L’aumento dei prezzi ha infatti fatto registrare un surplus nei conti pubblici, che però ora si scontrerà con maggiori costi per il personale e le pensioni. Basterà quindi questo tesoretto a far dormire sonni tranquilli a Meloni e Company?

No, perché all’equilibrio dei conti pubblici italiani manca ancora il calcolo delle misure promesse in campagna elettorale dal centrodestra, le quali, come riportato da Pagella Politica, sono perlopiù prive di coperture e molto costose […]. Senza fare deficit, che altrimenti comporterebbe un primo passo falso nei confronti del mercato e delle istituzioni europee, la Meloni sarà costretta a proseguire il suo mandato all’insegna della sobrietà.

La coalizione di centrodestra, sempre ammesso che non si sfaldi nel tragitto per il Colle, riuscirà a dimostrare di essere davvero a pronta a governare, oppure ci attenderà un 2011 bis?

Redazione il Caffè Keynesiano

Nein! Un bicchiere mai pieno

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Nein! La svolta tanto attesa, ed invocata ormai 8 mesi fa dal dimissionario governo Draghi, è stata sonoramente stroncata dai vertici europei. Si dovrà dunque attendere sino al 6 ottobre per sapere se ci sarà o meno un price cap al tetto del gas e ciò dovuto al veto imposto dall’Ungheria, dalla Slovenia, dall’Austria, dai Paesi Bassi, dalla Repubblica Ceca e infine dalla Germania. Inutile dirlo, a pesare maggiormente è stato il dissenso di quest’ultima, la quale teme il blocco totale di qualunque fornitura di gas russo e con essa uno stop della propria industria, un aumento della disoccupazione e il rischio di tensioni sociali: in breve, no gas, no Pil. Di fronte a questa decisione gli osservatori economici si sono divisi in due blocchi, quello degli ottimisti da una parte e dei pessimisti dall’altra.

Dalla parte degli ottimisti

Chi nonostante tutto continua a vedere il bicchiere mezzo pieno confida nella razionalità degli attori economici e nelle aspettative, si spera positive, del mercato (le quali, almeno al momento, riemergono puntualmente nelle analisi statistiche). Dal lato razionale, l’idea che in breve tempo la Russia possa reindirizzare i propri gasdotti verso la Cina e l’India, così come si potrebbe fare con la canna per irrigare il giardino, risulta priva di fondamento. Da ciò ne consegue che senza l’Europa a spingere la domanda, al gas russo non resti che venir bruciato in Siberia (come già avviene) per mantenere la stabilità dei giacimenti. Sempre in quest’ottica, è ritenuto altrettanto assurdo che l’establishment russo continui nell’autoflagellazione della propria economia, la quale registra un calo del Pil a doppia cifra. Certo, c’è chi, soprattutto in Italia, dirà che tutto sommato poteva andare peggio e che quindi le sanzioni funzionino poco, il realtà il quadro è più complesso. La Russia sta letteralmente facendo di tutto per mantenere stabile la propria economia e ci riesce grazie a importazioni ridotte e maggiori entrate dal comparto commodities (grano, gas, petrolio, fertilizzanti ecc.). Tuttavia, proprio le scarse importazioni fanno presagire un venturo collasso della produzione interna, dovuto principalmente alla difficoltà nel reperire componenti ad alto contenuto tecnologico, ormai da anni in outsourcing (come, ad esempio, le turbine della Siemens per i gasdotti). Certo, se Atene piange Sparta non ride e l’attuale inflazione europea (trainata soprattutto dal comparto energetico, oltre che dai colli di bottiglia) n’è la prova; ma al momento dire chi, tra Ue e Russia, spunterà partita non è facile.

Un altro elemento a favore degli ottimisti è quello che riguarda il livello di stoccaggio delle riserve di gas nazionali, a cui si sta ora accompagnando una politica di risparmio energetico e la solidarietà promossa in seno all’Ue. Il governo Draghi, infatti, ha appena approvato il piano di risparmio energetico nazionale, che entro poche settimane dovrebbe essere reso operativo, il quale prevede che il riscaldamento si accenda più tardi, resti in funzione un’ora in meno e si abbassi di un grado per l’intera stagione invernale. Insieme a queste misure il Ministero della Transizione Ecologica ha ha fornito anche i numeri sull’approvvigionamento alternativo per evitare eventuali shock causati dallo stop al gas russo; come ad esempio la massimizzazione della produzione a carbone e a olio delle centrali già esistenti e regolarmente in servizio, che contribuirà da solo (per il periodo 1° agosto 2022 – 31 marzo 2023) a una riduzione di circa 2,1 miliardi di metri cubi di gas.

Le stime sull’impatto di tutte le misure di contenimento previste dal Mite porteranno ad un potenziale risparmio di circa 5,3 miliardi di Smc di gas, conteggiando anche la massimizzazione della produzione di energia elettrica da combustibili diversi dal gas (circa 2,1 miliardi di Smc di gas) e i risparmi connessi al contenimento del riscaldamento (circa 3,2 miliardi di Smc di gas), cui si aggiungono le misure comportamentali da promuovere attraverso campagne di sensibilizzazione degli utenti ai fini di ottonere un atteggiamento più virtuoso nei confronti dei consumi. Attualmente, e come già anticipato, il piano di stoccaggio nazionale di gas in vista del prossimo inverno (quale potenziamento dalle misure anticrisi energetica approvate successivamente alla guerra in Ucraina) procede puntualmente. Al primo settembre 2022 gli stoccaggi erano all’83%, in linea con l’obiettivo di riempimento superiore al 90%.

A questa lettura ottimistica del presente si accompagna a braccetto anche l’ultimo report trimestrale dell’Istat che vede un’economia italiana non ancora duramente colpita dalla crisi energetica, anzi, i dati riportati nel report sono tutt’altro che negativi. Nel secondo trimestre del 2022 il Pil nazionale è aumentato dell’1,1% rispetto al trimestre precedente e del 4,7% nei confronti del secondo trimestre del 2021. La variazione quindi acquisita per il 2022 è pari a +3,5%. Rispetto al trimestre precedente, invece, tutti i principali aggregati della domanda interna sono in ripresa, con un aumento dell’1,7% sia dei consumi finali nazionali, sia degli investimenti fissi lordi. Infine, le importazioni e le esportazioni sono aumentate, rispettivamente, del +3,3% e del +2,5%.

Il bicchiere mezzo vuoto e la crisi in arrivo

Chi invece vede il bicchiere mezzo vuoto legge i dati del momento come l’annuncio dell’imminente recessione. Goldman Sachs, ad esempio, ha previsto un aumento dei costi energetici europei, a partire dall’inizio del 2023, per un importo di 2 trilioni di dollari, pari al 15% del Pil europeo (e lo scenario migliore, nel peggiore si parla 4 trilioni e del 30% del Pil). Dal punto di vista del consumatore ciò si tradurrebbe con un aumento mensile delle bollette pari a 500€ (nel migliore degli scenari) e di 590€ nel peggiore. Considerando l’affitto, una macchina e l’inflazione che divora il potere d’acquisto, anche uno stipendio medio rischia di non essere più uno scudo efficace contro il caro vita. Sempre per restare in tema aumenti, anche Confartigianato ha annunciato che col caro energia sono a rischio 881.264 micro imprese e quindi 3.529.000 di posti di lavoro. Già ora le bollette stanno mettendo in ginocchio le imprese, soprattutto quelle energivore, che poi sono quelle che forniscono i materiali per la trasformazione degli altri prodotti. Un esempio esplicativo è quello delle vetrerie che devono mantenere accesi i forni e il cui vetro serve per praticamente di tutto, dalle bottiglie per il vino ai barattoli per la conserva. Infine, ad annunciare che il canarino in miniera è prossimo alla morte, si è aggiunta anche l’agenzia di rating Fitch, la quale stima che con un flusso di gas russo pari al 20% (sempre miglior scenario) si avrà un effetto negativo sul Pil tedesco pari al 3% e su quello italiano del 2,5%.

Che cosa succederà nei prossimi mesi?

Chi ha ragione? Lo si vedrà solo col tempo, ma due sono gli aspetti che devono far riflettere. Il primo, come ha ammesso la stessa Lagarde, è che la Bce ha sbagliato le proprie valutazioni circa l’impatto del Covid e della guerra in Ucraina sull’inflazione. Come riportato dall’agenzia Ansa, Lagarde ha affermato che “Abbiamo fatto degli errori nelle previsioni sull’inflazione, come tutte le istituzioni internazionali, come molti economisti, perché è virtualmente impossibile prevedere e includere nei modelli il Covid, la guerra in Ucraina, il ricatto sull’energia. Me ne assumo la colpa perché sono il capo dell’istituzione; aggiungendo poi, “Abbiamo fatto errori, abbiamo capito le cause, e vi posso assicurare che lo staff aggiorna costantemente, integra quello che finora non era stato preso in considerazione”.

Il secondo, invece, riguarda il fatto che la moneta (l’euro) e il mercato (Ttf) restano preminenti rispetto alla crescita. L’euro continua infatti a oscillare sulla parità col dollaro e in questi ultimi tempi è sceso addirittura sotto. I motivi sono tanti: crisi ucraina, crisi energetica, tassi d’interesse ancora bassi. E se da un lato una moneta debole permette di agevolare le esportazioni, dall’altro il rovescio della medaglia è presto detto: l’import subisce un colpo molto forte. E se il mercato (Ttf) dove il gas viene scambiato rimane a livelli estremi, il risultato di questa addizione è presto detta. D’altra parte, per apprezzare la moneta (anche se si ricorda che non fa parte degli obiettivi della BCE) occorre aumentare i tassi, come ha fatto Francoforte l’altro giorno per bloccare l’inflazione. Ma come si sa, un aumento dei tassi significa costo del denaro più alto, mutui più cari, rischio paralisi economica. La via è stretta, non vi è dubbio. Ma sta alla politica fiscale, non a quella monetaria, trovare una soluzione efficace per edulcorare l’impatto economico della crisi.

A conti fatti l’accoppiata tra questi due elementi (poiltiche monetarie e modelli previsionali) rischia di complicare ulteriormente la situazione dei ceti meno abbienti, soprattutto se accompagnata dalla cecità nei confronti della lettura geopolitica del momento storico. D’altronde, come sostengono da mesi Fabbri e Caracciolo, il popolo russo vive di gloria immateriale: se il blocco del gas si renderà strategico non ci sarà valutazione economica e/o razionale che possa impedire alla Russia di continuare la sua azione di stop all’occidente.

Difficile sapere come andrà a finire ed ancor più difficile è sapere quando la crisi potrà finire. L’Europa ha di fatto scelto una via etica di grande valore: sanzionare la Russia per aver invaso uno Stato straniero. Ma gli stati europei saranno altrettanto pronti a scontare una crisi economica quasi inevitabile per i loro ideali?

Di Claudio Dolci e Roberto Biondini

In gas veritas. Come nasce la dipendenza dal gas russo e dove ci porterà

Di chi è la colpa della dipendenza dal gas russo e quale governo ha contribuito maggiormente? Con l’aumento dei prezzi del gas, dovuti sia al disallineamento tra domanda e offerta (blocco dei gasdotti russi) sia alle speculazioni borsistiche (Ttf), è partito l’ormai classico scarica barile tra le forze politiche. Dapprima ad attaccare è stata la destra, con Berlusconi, che dalle colonne del Corriere ha rivendicato i successi dei suoi governi, da qui il contrattacco da sinistra. Ma di chi è davvero la responsabilità?

Le accuse della destra

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera (il 31 Agosto), Silvio Berlusconi ha dichiarato: «Con il mio ultimo governo, all’inizio del 2011, avevamo ridotto la quota del gas russo al 19,9 per cento. Tre anni dopo, all’inizio del 2014, con il governo Letta la dipendenza dalla Russia era salita al 45,3 per cento: più del doppio. Con il governo Conte nel 2019 ha raggiunto il livello record del 47,1 per cento». I dati riportati dal Cavaliere sono imprecisi, come dimostrato dalla ricostruzione di Pagella Politica, ma nel complesso dicono il vero. La dipendenza da Gazprom ha effettivamente ripreso a correre molto velocemente dopo la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, anche se una tendenza all’aumento era già in essere nel 2011, con le importazioni al 27% e non il 19,9% (un dato questo, relativo al 2010).

Imprecisioni a parte, è stato sufficiente il grafico delle importazioni per fornire ad Affari e Verità la possibilità di lanciare una stoccata al Pd Lettiano, inferta per mezzo di un articolo a firma di Franco Bechis. Quest’ultimo ripercorre le tappe del post-berlusconismo rintracciando uno per uno i responsabili dell’aumento delle importazioni: Monti e Letta (i più visibili), giungendo infine a Prodi (il regista occulto). Scrive il direttore di Affari e Verità: “è stato il professore di Bologna – Prodi – a preparare il cammino per lo sfondamento di Gazprom in Italia”. Ma come? Attraverso incontri privata e bilaterali. “Ai primi di gennaio – racconta Bechis – del 2014 Gazprom rese pubblici i suoi dati di bilancio, spiegando con soddisfazione di avere aumentato l’export verso la Ue del 20%. Ma la gemma di quel rapporto era stata proprio l’Italia di Letta (e forse di Prodi): l’export di gas verso Roma era cresciuto del 68%, più di tre volte la media europea”. La ricostruzione di Bechis collima con le parole di Berlusconi e col grafico sull’andamento delle importazioni, ma elude le ragioni sottostanti a quegli accordi.

Ciò che la destra non dice sul gas russo

Il primo grande escluso dal dibattito sul gas è il contesto geopolitico. Negli anni in cui si è scelto di affidarsi a Gazprom, nel nord d’Africa si stava via via diffondendo quella che poi verrà chiamata la primavera araba. Tunisia, Egitto, Libia e Yemen erano attraversate da proteste civili, molto violente, le cui ragioni erano sia economiche (l’inflazione aveva raggiunto livelli allarmanti, colpendo i generi alimentari e quindi soprattutto le fasce più deboli), sia politiche (con la richiesta di maggiore democrazia). Si temeva il tracollo delle autocrazie e con esse dei contratti con le aziende del comparto energetico, così ci si guardò attorno, verso altri partner. Il problema è che già all’epoca, come riportato da Formiche.net, la Russia possedeva ambizioni geopolitiche tutt’altro che innocue: nel 2009, Gazprom (per mano del governo) aveva iniziato quello che oggi potremmo definire come l’incipit della guerra in Ucraina, ponendo uno stop arbitrario alle industrie ucraine. Come riportato da Marco Mayer “In Europa si reagisce avviando un processo di diversificazione dei paesi di provenienza per ridurre la dipendenza dal gas russo. In Italia (e in Germania) NO”. Questa difformità rispetto alle mosse degli altri membri dell’Ue può essere spiegata, come fa Mayer, studiando la ramificazione di Gazprom a seguito delle liberalizzazioni che hanno coinvolto l’Italia dell’epoca. “A partire dal 2008 – scrive Mayer –  Gazprom raggiunge un accordo per l’acquisto di ENIA, sigla una intesa con A2A GazpromBank e GazpromExport  assumono il controllo di un importante gruppo di trading: Centrex”.

Responsabilità negate: l’azione geopolitica della Russia di Putin

A conti fatti nessun governo può dirsi né dalla parte della ragione, né da quella dei diritti, ed è quest’ultimo punto a ferire maggiormente. Già nel 2009 la Russia aveva dimostrato di considerare l’Ucraina un ostacolo, tanto da inficiarne le capacità produttive, e nel 2014 diede l’avvio alla guerra del Donbass, eppure, in entrambi i casi, l’Italia continuò ad approvvigionarsi da Gazprom con volumi via via più consistenti. Ma perché? Una risposta a questa domanda la fornisce Stefano Silvestri, Presidente dell’Iai e direttore di Affari Internazionali, che intervistato dal Riformista non lascia scampo a chiunque provi a scansare le responsabilità sulla dipendenza dal gas russo. “Abbiamo cercato di andare d’accordo con tutti, facendo del cerchiobottismo la cifra del nostro agire in politica estera. E quel poco o tanto che si è fatto è andato via via scemando fino a scomparire […] c’è una politica dell’ENI, come al solito e giustamente, ma poi il vuoto. E come dare torto a Silvestri? In politica estera l’Italia segue la direzione di un’azienda privata, che ha i suoi interessi specifici, e poco altro; prova ne è il fatto che l’ultimo Ministro degli Esteri è stato Luigi di Maio. Se chiunque può dirigere la Farnesina, meglio ancora se tecnico (come sostenuto da Silvestri), allora vuol dire che la politica italiana in campo estero non esiste.

Per decenni si è lasciato che il piano inclinato facesse il suo corso, senza che Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e II, provassero ad invertire la rotta, anzi. Si dirà che in un governo di coalizione è difficile imporre cambi di passo radicali, oppure che servono anni per anche solo avviare un processo di diversificazione; eppure, il governo Draghi, in soli quattro mesi, ha fatto quello che chi era venuto prima di lui semplicemente non aveva il polso di fare; per inciso, la Russia non è diventata un’autarchia dal 2022.

La conseguenza del cerchiobottismo italiano

Le certezze sono entità sdrucciolevoli, perché quando si pensa di poter far affidamento su di esse svaniscono lasciando solo il vuoto dell’ignoto. Tuttavia, alla luce di quanto emerge oggi, è possibile fare qualche ipotesi molto simile a una certezza.

La prima è che la crisi inflazionistica che sta colpendo l’Ue sia differente da quella a stelle e strisce. Negli States l’inflazione galoppa, ma gli indicatori macroeconomici mostrano comunque una ripresa sufficientemente forte da poter assorbire un incremento di tassi più ampio di quello già messo in campo dalla Fed. Come ha scritto l’economista Alessandro Penati, su Domani, a luglio negli Stati Uniti c’erano due offerte di lavoro per ogni disoccupato, le imprese (dell’S&P 500) avevano già iniziato a far fronte all’inflazione trasferendo i costi aumentando il margine operativo lordo e soprattutto, grazie allo scisto, petrolio e gas non hanno mai rappresentato un problema (salvo sul piano ambientale…). Per Penati, se l’Ue “segue la Fed (nel rialzo continuo dei tassi) la recessione non è più un rischio, ma una certezza” e visto che il Tpi (lo scudo anti-spread) non è ancora mai entrato in funzione, non si sa come si comporteranno i mercati nei confronti del debito italiano.

La seconda certezza riguarda il fatto che nessun Paese possa davvero salvarsi da solo, un concetto questo, che fatica a giungere a destinazione. Vista la lentezza nell’approvare il debito comune europeo, negato durante la Grande Recessione, è difficile che una soluzione europea arrivi in tempo utile per salvare le imprese già adesso in ginocchio. Purtroppo, ad oggi l’Ue marcia ancora divisa sul fronte energetico, ci sono sì degli spiragli, come il tetto al prezzo del gas e lo scorporo dell’energia rinnovabile da quella prodotta col fossile sul Ttf, ma è ancora tutto avvolto da eccessiva vaghezza e lentezza. Occorre poi considerare che per gli esperti del settore energetico, Tabarelli (di Nomisma) e Scaroni (ex A.D. di Eni), il tetto al prezzo del gas è fantascienza. Lo scorporo delle fonti energetiche sul Ttf, invece, rischia (soprattutto se accoppiato a uno stop delle quote di emissione, ETS) di rallentare l’avanzata delle rinnovabili. Oggi, infatti, ci si stupisce del fatto che gas ed eolico vengano quotati allo stesso prezzo, ma come riportato anche dal Corriere della Sera, questo meccanismo in passato ha favorito l’espansione delle rinnovabili; quando il loro costo di realizzazione era sconveniente rispetto al fossile. Anche se però è corretto sostenere che, in questo periodo transitorio di alto livello dei prezzi dovuti a tensioni geopolitiche piuttosto che ad aumenti di costi di produzione, il prezzo delle energie rinnovabili debba essere sganciato da quello delle energie fossili, così da evitare una speculazione redditizia per le industrie ed onerosa per la società.

La terza certezza riguarda proprio l’inverno che ci attende. Il riempimento delle riserve di gas non ci salverà da un’ipotetica, ma assai verosimile, chiusura totale di Nord Stream e non lo faranno neppure i contratti stipulati dal governo Draghi negli ultimi mesi. Quest’ultimi purtroppo diventeranno operativi solo col tempo, mentre le riserve di gas servono perlopiù per coprire i picchi di richiesta e non per sopperire in toto alla domanda energetica interna del Paese. Un dato confermato anche dalle parole di Benjamin Moll, professore di economia alla London School of Economics, il quale ha detto “è utile avere uno stoccaggio di gas pieno, ma anche se è pieno, dovremo ridurre la domanda”. Come riportato da Palombi, sul Fatto Quotidiano, la Germania non ha solo riempito le proprie riserve, ma ha anche ridotto i consumi, con l’obiettivo di fare a meno del 20% della domanda interna entro l’autunno. In Italia, invece, non si considera credibile uno stop totale delle forniture russe e pertanto si è scelto per il momento di non ridurre i consumi, che nei primi sei mesi del 2022 sono scesi di solo il 2%, contro il 15% della Germania. Anche se ad oggi qualcosa in più si sta facendo. Esiste infatti una proposta del governo di ridurre fino a 2 gradi e di un paio d’ore l’uso del gas nelle abitazioni. Un sacrificio non oneroso tecnicamente, ma politicamente scomodo da sostenere in campagna elettorale e per questo scansato dai leder politici.

Si dice che errare sia umano, mentre perseverare sia diabolico. Ecco, forse questa è la cifra che descrive il panorama politico italiano dove lo sport nazionale, lo scarica barile, impedisce di cogliere l’immobilismo della classe dirigente che negli anni ha ignorato il problema energetico perché priva di una qualsivoglia agenda geopolitica.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

Tre indizi fanno una prova: l’inflazione e le nostre colpe

L’attuale crisi climatica, i colli di bottiglia e infine l’enorme debito pubblico italiano ci possono aiutare a comprendere meglio il perché dell’aumento dell’inflazione e di quella che domani, forse, sarà la futura crisi finanziaria. L’Italia, infatti, rischia più di altri di dover pagar pegno ed essere presa di mira dagli speculatori, ma le colpe di tutto non ricadono solo sui soliti indiziati e vanno ricercate nel passato del Bel Paese e nelle congiunture col presente.

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Sono bastate una manciata di gaffe e il sovrapporsi di tre congiunture per rendere evidenti le ipocrisie che per anni hanno accompagnato la politica della UE e dei singoli Stati ad essa aderenti. Nessuno, infatti, neppure la Germania, è esente dall’aver contribuito a creare quella tempesta finanziaria che tra qui e il prossimo inverno rischia di scatenarsi sui mercati del Vecchio Continente. Tempesta di cui un assaggio c’è già stato in questi mesi, con l’impennata dell’inflazione dal lato dell’offerta e la necessità di intervenire con l’incremento dei tassi da parte della Bce, per arrestarla, con la conseguenza che gli spread, soprattutto di Paesi indebitati come l’Italia, sono schizzati alle stelle, per poi riscendere.

La miopia legata all’uso del gas e gli effetti del cambiamento climatico

Per comprendere l’evolversi dell’attuale quadro macroeconomico, in cui geopolitica e politiche locali hanno un ruolo importante, occorre ritornare allo scorso inverno e più precisamente a Glasgow, quando i grandi della Terra hanno affrontato la realtà dei fatti: non esiste un pianeta B e i cambiamenti climatici esistono per davvero. Già, perché sino al 31 Ottobre del 2021 l’esigenza di dover contenere le emissioni di CO2 era sì presente, ma non pressante (come evidenziato dal grafico).

Fonte: Nature

L’idea generale, concordata a Parigi e ripresa a Glasgow, è quella di interrompere l’ascesa delle emissioni di CO2, ma non prima che ciò sia conveniente ai mercati. Il carbone, ad esempio, responsabile dell’80% delle emissioni di CO2 del comparto energetico, almeno nell’Ue, sta certamente subendo continue riduzioni, ma al suo posto è subentrato il gas. Dagli anni ’90 ad oggi i Paesi dell’Ue hanno infatti scelto di incrementare la quota di gas importato quale sostituto meno clima alterante rispetto al carbone (producendo il 40% di CO2 in meno) e per tanto, esso è stato inserito nella tassonomia verde europea.

Fonte: Eurostat

Ma il gas è davvero così verde come si dice? Secondo le commissioni europee chiamate a decidere, per ora no. Come riportato da Domani, in un articolo a firma di Francesca De Benedetti, le critiche al gas non sarebbero arrivate solo dagli ambientalisti oltranzisti e radical chic (come li ha definiti Cingolani), ma persino da JP Morgan, Goldman Sachs e dallo stesso Eu Technical Expert Group che ha stilato il dossier tecnico per la commissione europea. “La notte di Capodanno – scrive De Benedetti – è filtrato il piano di Bruxelles: dare l’etichetta verde a gas e nucleare, proprio come da accordo fra i governi. Il parere negativo espresso dalla Piattaforma sulla finanza sostenibile, che raccoglie componenti come l’Institute for European Enviromental Policy, ma pure la Banca Europea degli Investimenti (Bei), mondo della scienza e degli investimenti, non ha fermato Ursula von der Leyen, che a febbraio, ignorando qualche voto contrario e astensione nel suo stesso collegio di commissari, è andata dritta per quella strada.” Ora il Parlamento europeo potrebbe riscrivere la tassonomia, visto che alla crescente fronda dei sempre contrari al gas si è ora aggiunta quella di coloro che intravedono nel combustibile fossile la mano finanziaria di Putin (e questo persino tra i membri del PPE).

Ed è qui che si palesa la prima congiuntura e relativa ipocrisia: di fronte al riscaldamento globale si è scelto di continuare a investire su energie fossili perlopiù presenti in Paesi dai profili anti-democratici, ed oggi, nonostante i dati sul clima non incoraggianti e le ipocrisie sui conti in rubli, la scelta di molti Paesi dell’Ue resta la stessa: più gas per tutti. Nonostante ogni nuovo giacimento di gas rappresenti un chiodo sulla bara della specie umana, si continua a cercare gas e stringere accordi con Paesi non allineati ai valori Occidentali ed in primis al concetto base di democrazia.

I colli di bottiglia e lo shock dal lato dell’offerta

Tuttavia, così come una rondine non fa la primavera neppure una singola congiuntura è sufficiente a spiegare la tempesta che attende i mercati. Guerra e clima sono certamente impattanti, a maggior ragione oggi, sulla scia dei tagli delle forniture di gas da parte di Gazprom, ma è una seconda congiuntura ad aver dato il colpo decisivo. Con l’avvento della pandemia di Sars-Cov2 si era interrotto quel flusso di merci e persone che ha permesso alla globalizzazione di marciare e trascinare con sé le economie mondiali. Di fatto, dalla fine del 2019 sino a quando le strategie di contenimento messe in atto da vari Paesi del mondo non hanno iniziato a dare gli effetti sperati, la globalizzazione e con essa il modello produttivo del Just in Time, hanno smesso di correre. È stato grazie ai vaccini e alle policy di contenimento del virus che la Cina e gli States hanno ripreso a marciare, trascinando poi con loro il resto del mondo, come mostra l’indice delle Commodities elaborato da Bloomberg; dal quale si evince come il 2021 sia stato l’anno migliore di sempre, persino del 2011 post Grande Recessione.

Fonte: Bloomberg

Ma le cose non sono mai così semplici. E se da un lato è vero che la fine della pandemia ha portato ad un miglioramento delle condizioni economiche, dall’altro i prezzi dei beni sono aumentati così tanto da rendere più instabile la ripresa economica. Ma cosa significa?

Gli economisti di tutto il mondo si interrogano sul perché i prezzi siano aumentati tanto: il ragionamento più semplice è che l’uscita dalla pandemia abbia spinto i consumatori a domandare sempre più massicciamente prodotti e spingere così in alto l’inflazione. In politica monetaria, questa inflazione viene definita “positiva” ed è un buon segno per la ripresa del benessere della società: più domanda uguale più consumi, più lavoro, più stipendi. Ma non è invece da mettere nel cassetto l’eventualità che questo aumento dei prezzi sia stato dovuto principalmente ad un livello di offerta troppo basso, minore della situazione pre-pandemia, a parità di domanda dei beni. È come dire che lo stesso prodotto post pandemia abbia subito un aumento di prezzo perché i produttori ora non sono più in grado di produrlo al prezzo di un tempo. E questa viene definita inflazione “negativa”, poiché rappresenta un freno all’economia: in questo caso, infatti, più inflazione significa meno domanda, meno consumi, meno occupazione e quindi salari ridotti. Scritto più semplicemente: uno shock sui prezzi dal lato dell’offerta aumenta l’inflazione e diminuisce la produzione (generando poi la stagflazione).

E noi oggi dove ci troviamo? Prima dell’inizio della guerra, le principali banche centrali erano convinte che si trattasse effettivamente di un aumento dei prezzi ambivalente, quindi in grado di colpire sia il lato della domanda sia il lato dell’offerta, con l’attenuante che quest’ultima manifestazione si sarebbe poi sgonfiata una volta che le produzioni avessero recuperato le condizioni economiche pre-Covid. Ma la guerra ha fatto il suo ingresso, e con lei il conflitto commerciale tra super potenze. La Russia è stata colpita da pesanti sanzioni commerciali che di riflesso hanno certamente avuto un effetto sulle nostre economie. Ma soprattutto, è stata la risposta di Mosca a creare più insofferenza al già fragile equilibrio di domanda ed offerta: come abbiamo scritto, l’economia occidentale si basa prevalentemente sull’uso di gas e petrolio per far funzionare la produzione ed è chiaro che se esso viene tagliato, l’offerta di beni subisce un grosso ridimensionamento, che poi si traduce in un aumento (in chiave “negativa”) dei prezzi. Ed è così che in Europa e negli USA, si sono impennati i prezzi dei beni al consumo, soprattutto delle materie prime, come il gasolio, facendo schizzare le previsione dell’inflazione e preoccupare le banche centrali, tanto da spingerle a rivedere le loro politiche sui prezzi.

Si palesa poi una differenza tra gli Stati Uniti e la UE: i primi, a prescindere dalla loro miglior capacità di attutire i colpi grazie ad un mercato del lavoro più elastico (non per forza socialmente migliore), hanno l’asso nella manica per non far andare completamente fuori controllo l’aumento dei prezzi. Infatti, gli Stati Uniti sono tra i più grandi esportatori di gas e possono quindi sopperire alla crisi energetica più facilmente degli europei che sono poverissimi di materie prime fossili. Un’altra prova della cecità del Vecchio Continente di non aver investito prima su modalità alternative di approvvigionamento di energia.

La congiuntura italiana

Una volta analizzate queste due congiunture e i limiti delle politiche attuate per porvi rimedio, occorre rivolgere lo sguardo ai mali del nostro Bel Paese. L’Italia, infatti, e in special modo la sua classe dirigente, ha tracciato un solco che dagli anni ’80 ad oggi espone la nostra economia alle turbolenze dei mercati. D’altro canto, come raccontano i dati di Banca d’Italia, il debito pubblico del nostro Paese è cresciuto nonostante l’assenza di crisi economiche globali, tanto che nel 1993 aveva già toccato il 120% del Pil. C’è poi stata un’opera di revisione dei conti, con l’avvento dell’euro, ma di fatto non si è più scesi sotto quota 100% è da questa incapacità di riassorbire le risorse erogate dallo Stato (a stimolo dell’economia nazionale) che è iniziato il declino dei conti pubblici.

Il ciclo economico, così come previsto sia dagli studi classici, sia da Keynes stesso, prevede infatti dei momenti di recessione di fronte ai quali si rende necessario l’intervento pubblico per riequilibrare una domanda che non trova più allineamento all’interno del mercato e questo lo si è visto sia durante la Grande Recessione, sia oggi con la crisi pandemica. Lo Stato quindi spende, facendo deficit, per evitare il tracollo e la sofferenza tra le fasce della popolazione più svantaggiate introducendo sussidi e stimoli all’economia. Tuttavia, in assenza di un risanamento dei conti pubblici, da effettuarsi nel successivo boom, ci si espone poi alle speculazioni del mercato. E’ sempre la storia della cicala e della formica.

Draghi, quando era a capo della Bce, aiutò gli Stati con un debito pubblico elevato grazie al famoso whatever it takes: tradotto, se il debito dello Stato sul mercato fosse stato allocato a tassi d’interesse troppo elevati, lo avrebbe comprato la UE. Una cosa simile era successa col Pepp durante la pandemia, ma ora, complici le due congiunture descritte in precedenza, la politica monetaria deve fronteggiare l’inflazione attraverso un aumento dei tassi e col rischio di soffocare la crescita.

E di fronte a questo aumento dei tassi i Paesi maggiormente indebitati (e che negli anni hanno dimostrato di non saper rientrare del proprio debito), oggi pagano pegno e più di altri. In tal senso è interessante il caso del Portogallo, che come racconta Luciano Capone sul Foglio, “Di fronte all’aumento dell’inflazione, agli evidenti segnali di rallentamento nell’Europa centrale e orientale e alla prospettiva di tassi d’interesse più elevati – diceva meno di un mese fa il ministro delle Finanze portoghese – non possiamo permetterci di introdurre un fattore di rischio aggiuntivo”. L’obiettivo di Medina è sostenuto dal suo predecessore e ora governatore della Banca centrale portoghese, Mário Centeno, secondo le cui proiezioni il rapporto debito/pil del Portogallo scenderà al di sotto di quello di Francia, Spagna e Belgio entro il 2025, per arrivare al 104 per cento nel 2027, 30 punti in meno rispetto al picco del 2020 (135 per cento).” In Italia, invece, i piani di rientro del debito sono assai più graduali e già oggi c’è chi invoca persino un nuovo scostamento di bilancio e la sospensione ad libitum del Patto di Stabilità.

Lo spread: la fotografia di un Paese

Esiste quindi un dato che ad oggi mostra, in tutta la sua plasticità, gli effetti delle tre congiunture sin qui descritte è quello dello spread italiano.

L’incremento del differenziale tra Btp e Bund inizia nel novembre del 2021, a margine degli accordi di Glasgow e all’indomani dell’affermarsi dei colli di bottiglia ed illustra come l’Italia rappresenti, soprattutto a causa dell’incapacità di riformare settori a rendita e di rinnovarsi, la preda ideale per chi intenda speculare. Il lavoro dello speculatore di fatto è proprio questo, trovare Paesi in crisi e agire fino a quando qualcuno non interviene, in questo caso la Bce con lo scudo anti-spread e Christine Lagarde con le sue parole.

Tuttavia, sperando sempre che la Ue intervenga risolutamente e tempestivamente, le colpe dell’attuale situazione economica italiana vengono da più lontano e investono soprattutto una classe politica incapace di fare riforme e impreparata di fronte alle emergenze. Si può quindi cercare di addossare tutte le responsabilità dei mali italiani a Greta Thunberg e agli ecologisti che vogliono salvare il mondo, oppure all’Europa che impone vincoli di bilancio e politiche a vantaggio della Germania, ed infine alle autocrazie, dapprima quella cinese e poi quella russa col Covid e il ricatto del gas. Ma sarebbe assai più saggio guardarsi allo specchio, leggere i dati che mostrano decenni di sperperi e di clientelismo, per poi individuare i mali della politica ed infine quelli degli elettori che scelgono sempre chi promette loro l’uovo oggi, senza però spiegare che così domani non ci sarà mai nessuna gallina.

di Roberto Biondini e Claudio Dolci  

Che cosa dice il Ddl Concorrenza?

Il ddl Concorrenza ha conquistato il suo primo e sudatissimo sì ed ora si appresta alla sua fase più critica. Già, perché i punti interrogativi sono ancora molti, così come lo sono le barricate delle corporazioni più forti, pronte a battersi fino all’ultimo durante tutti i prossimi passaggi parlamentari. Sui Taxi, infatti, non si è ancora trovato l’accordo ed anche sul tema degli indennizzi ai balneari si corre il rischio di vanificare gli sforzi sin qui fatti. Ce la farà il governo Draghi là dove gli altri hanno fallito e a che prezzo?

Finalmente è arrivato il primo sì: con 180 voti favorevoli, e 26 contrari, il ddl Concorrenza ha superato i veti, le barricate e i mal di pancia del Senato e ora si appresta ad approdare alla Camera, dove non solo occorrerà stare attenti agli attacchi di chi sta già affilando i coltelli in vista della conta, ma si dovranno pure trovare le risposte alle tante parentesi ancora aperte che ancora accompagnano questo disegno di legge. Già, perché questo primo sì è tutto fuorché l’ultimo e definitivo, e per ora si prefigura una strada tortuosa.

Come prima cosa occorre fare un po’ di chiarezza attorno al dibattito pubblico che ha accompagnato il ddl Concorrenza, che come lascia intendere il nome, non riguarda solo le concessioni balneari. Quest’ultime rappresentano, infatti, solo la punta dell’iceberg di un sistema corporativo ben più ramificato e che la direttiva europea Bolkestein cerca di mandare in soffitta da più di un decennio. A dire il vero, il governo italiano avrebbe dovuto già da tempo emanare un’apposita legge sulla concorrenza, con cadenza annuale, come ha ricordato lo stesso Draghi in conferenza stampa, ma dal secondo governo Berlusconi in poi (fatto salvo il 2017), ciò non è mai avvenuto. Si è quindi dovuti ricorrere a uno strappo rispetto al passato, generando un disegno di legge che si compone di ben 36 articoli, di cui uno dedicato alle concessioni balneari. Le quali hanno il pregio di esemplificare un problema: a fronte di un giro d’affari complessivo del valore di 15 miliardi di euro, lo Stato italiano incassa solo 101 milioni. E non si tratta solo di una questione di tasse, ma anche del fatto che quello dato in concessione a un soggetto privato, perché è questo il punto, è a tutti gli effetti un bene pubblico. Una spiaggia è, e dovrebbe essere, di tutti e non solo di pochi eletti, ma sulla concorrenza si sa, come d’altronde accade anche sulla casa, si toccano temi cari ai partiti. La destra unita, ad esempio, ha dapprima posto il veto sulla delega fiscale, ottenendo ulteriori garanzie sull’assenza di tasse (almeno fino al 2026) e ora, sul tema delle concessioni balneari, batte i pugni sul tavolo per mantenere lo status quo.

Che cosa accadrà alle concessioni balneari?

Il testo votato lunedì 30, infatti, impone la messa a gara delle concessioni balneari (ivi compresi laghi e fiumi per l’esercizio delle attività turistico-ricreative e sportive) entro il 31 dicembre 2023. Ciò significa che dal primo gennaio 2024 i beni dati in concessione dovrebbero tornare allo Stato, ma in questo caso il condizionale è d’obbligo, perché nel Paese delle eccezioni, qual è l’Italia, è possibile posticipare di ulteriori 12 mesi il vincolo del 2023 (appena varato). Se infatti vi dovesse essere la presenza di un contenzioso o difficoltà oggettive legate all’espletamento della gara, ecco che si guadagnerebbero ulteriori 12 mesi, giungendo così al 31 dicembre del 2024. Ma non è finita qua, perché sono stati anche previsti degli indennizzi per i concessionari che dovessero perdere la gara per lo stabilimento balneare o il bene oggetto della cessione da parte dello Stato. E qui inizia il gioco dei rimandi, perché con questo ddl il governo chiede al Parlamento il via libera per legiferare e le linee guida, ma poi sarà compito dei singoli decreti legislativi (che verranno di volta in volta approvati) definire nello specifico dettagli come questi, che non sono certo di poco conto. D’altronde, come riportava anche il Corriere della Sera del 27 maggio, le posizioni dei vari attori chiamati a decidere non sono poi così vicine. Nell’articolo si legge “Da una parte c’erano Lega e Forza Italia che chiedevano un indennizzo basato sul valore complessivo dell’impresa che includesse quindi sia i beni materiali che immateriali, compreso l’avviamento commerciale. Per i Cinque Stelle era importante una «valutazione equa fatta sulla base di una perizia estimativa giurata da un perito indipendente». Il governo preferiva invece il valore dell’impresa «al netto» degli investimenti.” E su questi distinguo è interessante la posizione di tutti quei politici che chiamano in causa l’impostazione (a favore dei concessionari balneari storici) assunta dal Portogallo, perché, come riportato dal Sole 24 Ore, “lo scorso 6 aprile, Bruxelles ha deciso di avviare una procedura di infrazione nei confronti di Lisbona per la mancata corretta attuazione delle norme relative alle procedure di gara per l’aggiudicazione di concessioni balneari.”. Quindi è falso affermare che la direzione assunta dal Portogallo sul tema sia andata bene all’Ue, anzi, ed anche l’Italia (qualora dovesse fare retromarcia alla Camera o concedere indennizzi privi di senso agli attuali concessionari) potrebbe subire la medesima sorte. Ad oggi, infatti, l’unica cosa certa è che a pagare per una concorrenza vera sarà il vincitore della gara, sempre ammesso che non si tratti dell’ultimo proprietario, o di chi è abituato a pagare le tasse (sempre se dovesse scattare l’infrazione da parte dell’Ue).

Concessioni idroelettriche e taxi

E purtroppo, neppure alle concessioni del settore idroelettrico e a quelle legate al trasporto pubblico (Taxi e Ncc) è andata meglio, anzi. Sulle prima ha giocato forza l’attuale crisi energetica e le richieste della Lega, la quale è riuscita a far inserire il golden power sulle concessioni, come riportato dal giornale La Verità. Nell’articolo, a firma di Claudio Antonelli, si legge “Gli asset strategici, anche se in concessione – è stato stabilito – rientreranno nell’ambito di applicazione del golden power. Nello specifico, saranno coperti da golden power «i beni e i rapporti di rilevanza strategica per l’interesse nazionale, anche se oggetto di concessioni, comunque affidate, incluse le concessioni di grande derivazione idroelettrica».” Sui taxi invece, all’articolo n° 10 si trova la frase che ha scatenato le ire del settore: “promozione della concorrenza, anche in sede di conferimento delle licenze, al fine di stimolare standard qualitativi più elevati”. Che alle orecchie degli addetti al settore deve aver sortito lo stesso effetto delle unghie su di una lavagna, o giù di lì. E dalle colonne del Il Tempo, Andrea Anderson, della segreteria nazionale del sindacato Orsa Trasporti ha dichiarato “quello che esigiamo – ha dichiarato Anderson – è lo stralcio totale dell’articolo 8 da questo Ddl. E per ottenerlo siamo pronti a fare le barricate, se necessario. Questo deve essere chiaro”. Un pensiero condiviso anche da Loreno Bittarelli, Presidente URI e Presidente del Consorzio Nazionale ItTaxi, per il quale “Siamo tutti uniti in questa battaglia con l’intenzione di portarla fino in fondo. La nostra posizione è chiara: quell’articolo va cancellato e, contestualmente, vanno ripresi i discorsi relativi ai decreti attuativi.” Se queste sono le premesse, è assai probabile che lo scontro sul ddl Concorrenza continuerà. Tuttavia, sin da ora è possibile tracciare un bilancio del testo uscito dal Senato.

Il bicchiere mezzo pieno e quello mezzo vuoto

Le concessioni rappresentano un terreno scivoloso per qualunque governo e a maggior ragione per uno nato da un’alleanza spuria. Draghi ha avuto il merito di puntare i piedi e minacciare le dimissioni in caso di ulteriori slittamenti nella tabella di marcia per l’approvazione del ddl, ed in questo lo hanno aiutato i vincoli del Pnrr, i quali identificano la misura sulla concorrenza come “riforma abilitante” (ovvero, “interventi funzionali a garantire l’attuazione del piano”). È inoltre positivo l’intervento sulle colonnine per la ricarica delle auto elettriche sui tratti autostradali, ove si specifica che “dovranno prevedere criteri premiali per le offerte in cui si propone l’utilizzo di tecnologie altamente innovative, con specifico riferimento, in via esemplificativa, alla tecnologia di integrazione tra i veicoli e la rete elettrica.” Sempre col pollice verso l’alto vi è anche l’intervento sulle piattaforme digitali volto a tutelare maggiormente il consumatore in caso di prevaricazione. Nello specifico, e come riportato dal Sole 24 Ore, “la norma integra la disciplina dell’abuso di dipendenza economica introducendo una presunzione relativa (cioè superabile fornendo prova contraria) di dipendenza economica nelle relazioni commerciali con un’impresa che offre servizi di intermediazione di una piattaforma digitale, se questa ha un ruolo determinante per raggiungere utenti finali e/o fornitori, anche in termini di effetti di rete o di disponibilità dei dati”. Di fatto questo articolo svolge una funzione di scudo ogni qual volta i dati forniti da una piattaforma siano carenti, oppure si presentino vicoli così stringenti da pregiudicare la migrazione presso altri operatori.

Purtroppo non si può dire altrettanto sulle deroghe a cui sono soggette le concessioni balneari, perché nel 2023, e per diverse strutture nel 2024, ci sarà un nuovo esecutivo, il quale potrebbe decidere di rimandare o riscrivere daccapo l’intero impianto in fase d’approvazione, con buona pace dei fondi del Pnrr. D’altro canto Giorgia Meloni ha già affermato che “In Spagna, in Portogallo, hanno prorogato le concessioni. Le infrazioni? Se ne sono fregati”, e Massimo Mallegni, Senatore in quota Forza Italia, ha voluto precisare – come riportato dal Corriere della Sera – che “Qualora il centrodestra vincesse, come ci auguriamo, le elezioni nel 2023, ci impegniamo solennemente a modificare la norma approvata dal Senato. Allo stesso tempo non butteremo via ciò che con fatica abbiamo ottenuto: gli indennizzi. È stata una decisione storica, fino a oggi questo era vietato dall’Articolo 49 del Codice della Navigazione. Quindi vittoria”. Sempre sugli indennizzi citati da Mallegni, è bene ricordare che, tolto l’Art. 49 del Codice della Navigazione, questi verranno elargiti anche a chi ha compiuto abusi, anche edilizi, come ricordato da Angelo Bonelli di Europa Verde.

Da una parte l’Italia avrà la sua legge sulla concorrenza, com’era tra l’altro previsto e per giunta con cadenza annuale, dal lontano 2009, e forse, grazie ad essa si riusciranno ad evitare le sanzioni europee. Tuttavia, le numerose eccezioni, i possibili cambi dell’ultimo minuto e i regali a chi per anni ha versato una miseria all’erario, lasciano l’amaro in bocca.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

E’ guerra delle Valute

5 min di lettura

Che cosa sta succedendo all’economia Russa? In principio, dopo il blocco dello SWIFT, il congelamento delle riserve in valuta estera e il crollo del rublo, sembrava imminente il default economico, ma poi l’Orso ha reagito con una zampata; dapprima alzando i tassi d’interesse della banca centrale, sino al 20%, e successivamente obbligando i Paesi Occidentali ad aprire conti per la conversione degli euro in rubli presso Gazprom Bank. E in questo modo, tra mosse e contromosse artificiali, si è consumato un conflitto economico che pare ora prossimo all’epilogo, con l’avvicinarsi di un default che di reale non ha nulla, ma i cui effetti avranno modo di propagarsi ben oltre i confini russi.

La forza del dollaro

Le armi economiche sono da sempre parte dell’arsenale tattico americano, da quando cioè gli Stati Uniti si sono imposti non solo come guardiani dell’ordine globale, ma anche come possessori dell’unica moneta in grado di dettar legge nel mondo economico. Ciò fu dapprima possibile grazie al golden standard (1922), un sistema che consentiva la convertibilità del dollaro con l’oro, e poi, dal 1981, grazie a una politica monetaria molto stringente imposta da Regan e Volcker. Come scrive Luca Fantacci, su Ispi, “l’attuale paradossale versione dell’egemonia monetaria, in cui la moneta chiave (il dollaro) è tanto più forte (in termini di diffusione globale) quanto più debole (in termini di competitività) è l’economia dell’emittente: in effetti, l’accumulazione di riserve in dollari in tutto il mondo è semplicemente il riflesso dei deficit di bilancia dei pagamenti americani. Questa peculiarità del biglietto verde per eccellenza, lo ha reso la moneta più utilizzata per gli scambi commerciali internazionali (dove occupa il 40% dei pagamenti tra Paesi) e come punto di riferimento sia per il mercato, sia per l’apprezzamento delle altre valute di riserva (come l’euro, la sterlina, lo Yen e i Renminbi). Non è quindi inusuale la presenza di ingenti quantità di dollari nella quota di valuta estera detenuta dagli Stati, come nel caso della Russia, né l’utilizzo della stessa come moneta per il rimborso delle cedole sui Bond. Sempre gli Stati Uniti, oltre alla moneta, hanno da sempre usato mezzi di pressione economica per destabilizzare economie di Paesi avversi, dal celebre embargo su Cuba agli 8,9 mld versati nel 2014 da Bnp Paribas, sanzionata dall’Ofac (Office of Foreing Assets Control), per aver fatto operazioni non consentite con Sudan, Iran e altri Paesi ritenuti ostili da parte di Washington. Di fatto esisteva una black list e un modus operandi a modi “bando” ben prima dell’attuale guerra in Ucraina, anche se questa volta ci sono almeno un paio di peculiarità degne di nota.

La guerra dei numeri

La prima è che la Russia rischia di finire in default non per incapienza o diniego nei confronti del contratto, ma perché non può materialmente adempiere al contratto, a differenza di quanto accaduto in Argentina e in Pakistan. Fino al 24 maggio, infatti, era in vigore una licenza, la 9A, che consentiva alla Russia di pagare i propri debiti in valuta esterna, ma il suo mancato rinnovo fissa oggi la data del default russo al 23-24 giugno, quando andranno in scadenza le prossime cedole. Se quindi il ministero delle finanze moscovita non dovesse riuscire a scoprire metodi alternativi per saldare i propri contratti esteri, ecco che scatterebbe l’avvio della procedura per il default, con altri 30 giorni di vita prima della definitiva messa al bando economico, sancito dall’attivazione dei Credit default swaps (già aumentati dell’85% su base settimanale).

Tuttavia, alla bancarotta russa mancherebbero quei presupposti di base che si verificarono col caso argentino. Il rublo, infatti, grazie ai continui flussi di denaro europeo (quasi un miliardo al giorno) e agli obblighi di conversione della valuta estera, aveva raggiunto il suo valore massimo degli ultimi 4 anni, per poi perdere terreno in questi giorni (a seguito del taglio degli interesse da parte della banca centrale russa, oggi scesi dal 20% all’11%). Un balzo, quello del rublo, talmente forte da imporre continue revisioni nei confronti della strategia manipolatoria adottata dalla banca centrale russa. D’altronde, nessuno vuole più i rubli e quindi l’aumento improvvido della domanda interna è un risultato del tutto artificiale, frutto dell’obbligo, per qualunque soggetto russo che tratti valuta estera, di convertirla immediatamente. Una mossa questa, che di recente ha subito un brusco dietrofront da parte della banca centrale russa stessa, che ha passato la quota di valuta da convertire in rubli dall’80% al 50%. La ragione di questa mossa è molto semplice, il rapporto tra import ed export ha creato un forte avanzo commerciale, la russa esporta materie prime ma non importa più quasi nulla; e tutto ciò non è un bene, soprattutto per un Paese che vive di esportazioni verso l’esterno, da qui la necessità di rallentare l’apprezzamento del rublo sull’euro e sul dollaro. Nei fatti però, al netto delle mosse e contromosse per compensare l’effetto delle sanzioni, l’economia russa non gode di buona salute. Il Pil, ad esempio, è già dato in caduta libera con una forchetta che oscilla tra un meno 8/10% (e solo per il 2022), mentre l’inflazione è scesa solo di qualche decimo di punto, dal 17,8 al 17,5%, restando comunque talmente alta da obbligare Putin stesso ad aumentare 10% le pensioni e il salario minimo; lasciando così intendere che l’aumento dei prezzi non calerà tanto velocemente.

In breve, è vero, la caduta dell’economia russa è frutto delle sanzioni, le quali (nonostante il continuo approvvigionamento di soldi da parte dei Paesi dell’Ue) stanno colpendo duramente Mosca. Tuttavia, vi è dell’artificio sia nel venturo default tecnico, sia nelle mosse volte a scongiurare questo epilogo. Di fatto, Russia e Stati Uniti stanno partecipando e barando allo stesso gioco e con analoghi strumenti. Da una parte si sta sostenendo la moneta domestica, il rublo, con artifici di ogni sorta, da obblighi a conti correnti paralleli, mentre dall’altra parte si dichiara un default quando lo Stato debitore, in questo caso la Russia, sarebbe disposta a pagare quanto dovuto, ma semplicemente non può. Si arriva così alla seconda peculiarità di questo duello ambientato sullo scacchiere economico internazionale, ed è il rischio che a perdere siano entrambi i contendenti, anche se per ragioni differenti.

Le conseguenze

Non è necessario essere degli indovini per capire che il contraccolpo più pesante di questa guerra economica sarà assorbito dalla Russia, come testimonia il direttore del dipartimento di Ricerca e previsione della banca centrale russa stessa, Alexander Morozov, il cui intervento è stato riportato in versione integrale da Il Foglio. Lo choc dal lato dell’offerta sarà, secondo Morozov, paragonabile a quello della recessione degli anni ’90, tranne per il fatto che serviranno più anni per riprendersi. E ciò è dovuto al fatto che i comparti ad alta innovazione tecnologica necessitano di componenti di provenienza estera, i quali sarà molto difficile, se non impossibile, sostituire, rallentando così efficienza e produttività. D’altronde, com’è stato anche per l’embargo su Cuba, il rischio è che la Russia debba regredire o nel caso migliore accontentarsi di standard tecnologici più bassi rispetto a quelli attuali e pre-invasione dell’Ucraina. Per Morozov, inoltre, “si prevede che il declino della trasformazione tecnologica dell’economia russa continuerà in questa fase, con l’invecchiamento delle strutture materiali e tecniche e la loro sostituzione con prodotti sostitutivi meno produttivi”. Nei fatti, i russi non torneranno a guidare le Lada, ma poco ci mancherà (almeno sul piano tecnologico). Sul piano internazionale, invece, il default peggiorerà ulteriormente la reputazione di Mosca, rendendo ancor più difficile l’accesso a capitali per finanziare il proprio debito. Certo, siano a quando la Russia potrà contare sui miliardi che i Paesi dell’Ue le inviano ogni giorno per gas e petrolio, l’accesso ad ulteriore credito potrebbe non servire, ma il sesto pacchetto di sanzioni potrebbe vedere la luce nelle prossime settimane rendendo imminente un cambio di strategia per il Cremlino.

Sul versante europeo, invece, il default russo potrebbe avere delle conseguenze non trascurabili, anzi. In un articolo uscito su Domani, a firma di Vittorio da Rold, viene illustrato come il debito mondiale abbia ormai raggiunto livelli preoccupati, con un importo complessivo pari a 303 mila miliardi di dollari e di come un default russo potrebbe innescare un effetto panico sui mercati di tutto il mondo. Come riportato da Rold Gopinath (numero due del Fondo Monetario Internazionale) il quale afferma che l’eventuale default russo avrebbe conseguenze soprattutto in Europa e ha nominato l’Austria e l’Italia come le più esposte alla Russia dei paesi europei. Il ministro dell’Economia Franco ha però rassicurato sul fatto che l’Italia risulta esposta con la Russia solo per 8 mld di euro, ma il commento di Gopinath era riferito soprattutto all’alto debito del nostro Paese, il quale potrebbe subire più di altri le turbolenze di un mercato irrequieto. Occorre inoltre considerare che diversi istituti di credito italiano sono esposti ben di più rispetto ai valori dichiarati dal ministro Franco. La Stampa, a marzo, riportava un’esposizione complessiva pari a 25 mld di euro di crediti elargiti dal settore bancario italiano verso la Russia e il 27 maggio, Milano Finanza, quantificava a 7,5 i mld concessi a Mosca dalla sola Unicredit.

Oltre allo choc immediato sulla finanza russa e su quella europea, non è poi da escludersi che l’arma economica impiegata dagli Usa non possa nuocere anche al dollaro stesso. Sono in molti, infatti, a ritenere che dopo questa entrata a gamba tesa sulla solvibilità dei conti di un Paese straniero possa andarsi affermando un sistema non più dollaro-centrico, magari sostituito dai renminbi. Ad oggi è solo uno scenario ipotetico, ma la Cina si è già mossa nella creazione di un sistema di pagamento internazionale sganciato dallo SWIFT e lo Yuan digitale è già una realtà, a differenza delle valute Occidentali, senza considerare poi che una gran parte del mondo ha votato contro la risoluzione che condannava la Russia per l’invasione dell’Ucraina.

L’Occidente è oggi in grado di vincere la guerra economica contro la Russia, ma non sarà a costo zero e potrebbe rivelarsi, soprattutto nel lungo periodo, un boomerang. D’altronde l’attuale domanda interna di combustibili fossili sta venendo rimpiazzata con fornitori dal pedigree non meno autocratico rispetto a quello russo e non è chiara quale sia la politica estera intrapresa dell’Europea…

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

La mancanza di consapevolezza del mondo che verrà

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Il conflitto in Ucraina è riuscito a riunire i Paesi europei sotto il vessillo della Nato, in difesa della democrazia e contro l’aggressione a uno Stato sovrano. Per questo, dal 24 febbraio ad oggi, sono stati varati 5 pacchetti di sanzioni contro la Russia e inviate armi per la resistenza dell’Ucraina. Ma al di là delle nobili intenzioni, gli Stati europei sembrano sottovalutare sia i costi economici, sia quelli morali che questa presa di posizione comporta.

“Non è finita, finché non è finita.” Così diceva Yogi Berra, famoso giocatore di baseball statunitense, in merito alla necessità di non arrendersi mai fin tanto che anche una piccolissima possibilità di vittoria resta viva. Ed è a tale possibilità che oggi si stanno affidando milioni di cittadini ucraini, che da più di due mesi lottano per difendere il proprio territorio disumanamente e illegalmente invaso dalle forze russe. Ogni giorno le notizie che ci provengono dai territori di guerra ci raccontano di situazioni militari, civili e umanitarie tanto aberranti quanto distanti da quell’idea illuministica di pace tra i popoli e risoluzioni diplomatiche tra le nazioni su cui si è fondata l’Europa stessa.

Un mondo in guerra

D’altra parte, quello che non dobbiamo nasconderci è che l’attuale conflitto ucraino non è un’eccezione e probabilmente non sarà nemmeno l’ultima. Questo perché le guerre non hanno mai smesso di comparire, né sull’emisfero boreale, né su quello australe e dalla caduta del muro di Berlino in poi ci hanno accompagnato sino ad oggi: dalle due guerre del golfo, a quella contro il terrorismo combattuta in Afghanistan e in Iraq, a cui sono poi seguite quella in Siria e in Libia. Nel loro insieme tutte queste guerre formano una collana di perle nere gemmate dall’assenza di timore per le conseguenze, perché lontane da noi, e con l’interesse, spesso occidentale, di parteciparvi nel bene e nel male.

Ed è probabilmente per via della sua prossimità ai confini europei che l’attuale conflitto in Ucraina ha scosso così profondamente le opinioni pubbliche europee, smuovendone le radici. Certo, in passato v’era stata anche la guerra in Kosovo, anch’essa nel perimetro dell’Ue, ma non c’erano sul tavolo né l’ipotesi di un conflitto nucleare, né la possibilità di assistere in diretta allo scontro, così come hanno reso possibile le nuove tecnologie, e non vi era neppure una sfida così diretta all’intero impianto valoriale e ideologico su cui si basa lo stile di vita Occidentale.

Sin da subito, infatti, la guerra in Ucraina è stata raccontata come uno scontro tra visioni del mondo: “noi contro loro”, l’Occidente, guidato dall’arsenale della democrazia, che si oppone a un Oriente autocratico composto da Russia e Cina. Una narrazione convincente, ma non sempre corroborata dai fatti, i quali mostrano invece abusi e crimini commessi anche in regimi democratici. D’altronde, la guerra è sempre una cosa sporca, sia che la portino avanti i paladini della democrazia illuminista, sia che a guidarla sia una dittatura. A prescindere dagli schieramenti, ciò che lascia un conflitto sono macerie e vite spezzate in virtù di ragioni geopolitiche e tattiche militari che rendono impossibile l’individuazione di un “uomo” o una società senza peccato. Se quindi è indubbia l’adesione a uno schieramento, pro o contro un sistema valoriale e ideologico a cui fa capo la società stessa, ed in questo caso a favore dell’Ucraina, un Paese invaso e sull’orlo dell’abisso, contro un’autocrazia che si colloca in uno spazio assolutista, guidata da un uomo che si pone al di sopra della Storia, resta pur sempre aperto il tema delle implicazioni di questa scelta di campo.

Lo scenario economico

Da un punto di vista strettamente economico è ormai certa la frenata economica a cui stiamo andando incontro, che si tratti della sola recessione, o della stagflazione, sarà giusto il tempo a dirlo, ma lo scenario non è roseo. L’Unione Europea esce dalla crisi pandemica peggiore che la storia recente ricordi e probabilmente anche dalla crisi economica peggiore dalla sua fondazione, nel 1957. Il 2020 è stato un anno nero, controbilanciato con efficacia dal 2021, grazie soprattutto alla vaccinazione e al fronte comune di stimolo fiscale varato dai 27. Tant’è che l’iniziale spauracchio dovuto al rincaro dell’inflazione, insorto in coda al 2021 a seguito della carenza di materie prime (i famigerati colli di bottiglia), fu ben presto etichettato come una circostanza limitata nel tempo e dovuta all’eccezionale ripresa della domanda di beni. E per questo, nei fatti, rinomati studiosi se non proprio la BCE stessa intimavano prudenza e contenimento del panico circa l’ascesa dell’inflazione, sicuri della sua transitorietà ed incapacità di influenzare la struttura macroeconomica della zona euro in maniera profonda e duratura. Infatti, prima dello scoppio della guerra, la fiducia generale stava crescendo e l’occupazione riprendeva, incoraggiando una visione ottimista del prossimo futuro. Ma poi il 24 febbraio tutto è cambiato, anzi, il mondo è cambiato.

Immediatamente l’Occidente si è schierato contro la Russia, colpevole di aver minato l’indipendenza di uno stato sovrano. Le dichiarazioni, da parte dei vari capi di stato occidentali, a supporto dell’Ucraina si sono fatte via via più affollate e dalle parole, la UE e gli Stati membri, sono passati quindi ai fatti con l’approvazione di sanzioni commerciali mai viste prime, accompagnate dall’invio di armi per sostenere la resistenza.

Ad oggi l’Ue ha varato ben 5 pacchetti di sanzioni, ognuno di portata maggiore rispetto al precedente, ma giunti al sesto (che prevede, sulla carta, uno stop all’importazione di petrolio russo) la macchina europea si è inceppata sul diritto di veto e sulle necessità (geopolitiche, poiché sia geografiche che strategiche) a cui sono soggetti alcuni dei Paesi del patto di Varsavia. Di fatto, i cinque pacchetti già varati coinvolgono svariati ambiti: dal divieto, a partire da agosto 2022, di acquistare, importare o trasferire nell’Ue carbone e altri combustibili fossili solidi (investendo così il comparto energetico), al divieto di esportazione di altri beni, come i prodotti del lusso (ma non solo), e il sequestro di quelli privati (come gli yacht degli oligarchi). Ma dal punto di vista strategico ed economico, le sanzioni più pesanti hanno riguardato l’accesso ai porti dell’Ue per le navi registrate sotto la bandiera della Russia e il fermo del settore finanziario russo. L’Occidente ha costretto l’autocrazia russa all’autarchia, fatta eccezione per il rapporto che Mosca intrattiene con la Cina e con tutti quei Paesi che non hanno varato la risoluzione dell’Onu che condannava l’invasione ai danni dell’Ucraina.

E da un punto di vista etico, non c’è dubbio che queste sanzioni abbiano una natura ammirevole e condivisibile. Tuttavia, ognuno di questi pacchetti ha portato con sé degli effetti economici. Effetti che non solo sono molto più lenti ad apparire ma, proprio per la loro lentezza nel mostrarsi, sono ancora poco considerati tra i governi europei. Ma ad ogni azione corrisponde sempre una reazione.

E qualche segnale si è già palesato nella vita quotidiana. Ad esempio, da transitoria l’inflazione sembra destinata a radicarsi per almeno 2 anni e forse più. Il gas e la benzina, il pane e la pasta, il costo dei mutui e dei prestiti, solo per citarne alcuni, stanno salendo vertiginosamente ed aggredendo una base economica ancora fragile e convalescente dal post pandemia. La differenza sostanziale rispetto a quest’ultima, infatti, è che i prezzi erano fermi e quindi i tassi d’interesse generali rimanevano bassi e stabili, oggi invece i prezzi schizzano e le banche centrali non possono fare altro che rendere il denaro più oneroso per cercare di stabilizzarli. Ed è quello che ha fatto la Fed pochi giorni fa, senza tra l’altro riuscire a frenare un’inflazione all’8,3%. Ma un denaro più oneroso significa anche un aumento del costo per i debiti e per i finanziamenti, col rischio di innescare una paralisi creditizia. Blocco che si aggiungerebbe a quello, anch’esso potenziale, del settore manifatturiero, suscettibile al costo delle utenze del gas, della luce e del petrolio. In breve, una situazione piuttosto pericolosa per il futuro. È chiaro che le boccate d’aria date dai bonus sono sì necessarie, ma non sufficienti e presto bisognerà trovare nuovi mercati (e l’Italia qualcosa sta già facendo con accordi in Africa) per sopperire alla domanda di materie prime: ma il prospetto per il futuro non pare certo rose e fiori. Si sta comunque limitando “un’industria” con dei colpi protezionistici non da poco (per buona pace dei sovranisti). Si stima che milioni di persone nel mondo soffriranno la fame per questa guerra (!). E l’impatto sociale dovuto alla crisi economica si manifesterà anche a causa della crisi migratoria impellente, se la guerra non finirà nei prossimi mesi e nulla lascia presagire un esito differente.

Un dibattito a senso unico

Dal punto di vista morale questa guerra ha già prodotto più di un illustre vittima. Sin dall’inizio, come fu profetizzato da Monti stesso, i principali organi di stampa hanno preso partito senza sé e senza ma, conducendo uno scontro ben più acceso di quello tra no-vax e pro-vax. La logica di fondo suona più o meno così: c’è un aggressore e un aggredito, e persino un cretino capirebbe da che parte stare, perché è ovvio. Ed in parte forse è anche così, peccato che vi sia altro di cui tener conto. Come ha ben argomentato Francesco Fronterotta sul Riformista, la storia (come materia di studio) esiste per capire le cause di qualcosa, così come il dibattito ci aiuta a ragionare sulle parti coinvolte in un evento. Invece, ciò che accade, è che si sovrappongano due parole con significati diversi, come sono spiegare e giustificare, che in questa vicenda vengono usate alla stregua di sinonimi, com’è stato negli anni per favola e fiaba. Quest’ultima è priva di morale, mentre la prima deve alla morale stessa la sua genesi.

E purtroppo, operare dei distinguo non ha salvato dalle liste di proscrizione insigni intellettuali e studiosi, da Luciano Canfora a Lucio Caracciolo. Il primo accusato a vario titolo di essere un comunista filoputinista, una sorta di ossimoro vivente, mentre il direttore di Limes, nota rivista di geopolitica, ha osato sostenere che quella attuale sia una guerra per procura. Ed in quest’ultimo caso è interessante notare come l’onta per aver sollevato un simile dubbio non abbia scalfito Dario Fabbri, che dagli studi di La7 conduce Mentana e il suo pubblico nel mondo geopolitico e che sul primo numero di Domino ha scritto: “Di nuovo alla testa di un compatto fronte occidentale, in Ucraina gli Stati Uniti stanno stravincendo la guerra per procura”. Sarà anche Fabbri al soldo di Mosca? Già, perché la ricerca di chi cerca di spiegare ha condotto il Copasir a investigare sugli ospiti dei Talk Show, sempre che la Rai non li cancelli prima, risolvendo così il problema alla radice. Non che sulle altre reti il dibattito sia più pacato e le ipotesi di cura più sobrie, anzi, come ben dimostra lo scambio tra Scurati e Feltri, ormai dialogare pubblicamente in modo pacato della guerra in Ucraina è pressoché impossibile.

Eppure, cercare di capire, darsi un metodo per indagare i fenomeni del mondo rappresenterebbe il fondamento dell’illuminismo e ciò che l’ha distinto dalla fede e dalle altre forme di credenze dogmatiche. Perché ora non è più così? Forse perché di fatto, ci piaccia o meno, l’Ue è in guerra così come lo sono gli Stati Uniti e quindi, una volta operata la scelta di campo, diventa impossibile leggere il conflitto da una diversa angolatura, poiché vi si è coinvolti mente e corpo. E quando viene meno la distinzione tra il soggetto e l’oggetto di studio, cessa di conseguenza ogni analisi metodica; d’altronde, in guerra la comunicazione è questa, nulla di cui stupirsi. Salvo per il fatto che una vera voce unica, almeno in Europa, non è ancora pervenuta, anzi, regna ancora il caos e le posizioni di mediazione, seppur vi sia una guerra e sia stata presa una posizione netta. Se vi è quindi una convergenza su chi condannare per la guerra, come potrebbe fare da sé qualunque cretino, restano molti dubbi sulle strategie e gli obiettivi da perseguire, nonché sulle modalità d’azione dell’Ue: anche se di questi temi e sul ruolo di storici e studiosi di geopolitica, è meglio non parlare, almeno ad alta voce e in pubblico. Beata democrazia.

In breve

Di conseguenza, siamo davvero consapevoli di che cosa implicano le scelte circa questo conflitto e di come ci stiano modificando? È fantastico difendere i principi di libertà e democrazie, ma saremo pronti e maturi a patire anche lacrime e sangue, quando verrà il momento? Siamo consapevoli che è ancora possibile che nonostante tutto la Russia vinca il conflitto, e che cosa succederà alle sanzioni? Resteranno? E come faremo a riaprirci al diverso in un clima da caccia alle streghe com’è quello attuale? A questi interrogativi dovremo saper rispondere molto presto, perché avere la botte piena e la moglie ubriaca non sarà di certo possibile e c’è pure il rischio che alla fine non riusciremo neppure ad ottenere nessuna delle due.

di Roberto Biondini e Claudio Dolci

Una sanità malata

Pnrr e sanità: come verranno spesi i soldi europei e qual è lo stato della sanità italiana?

3 min di lettura

Nonostante la pandemia, e le promesse dei governi che l’hanno gestita, la sanità italiana resta universale solo sulla carta, lasciando di fatto scoperto uno dei pilastri del welfare state, al quale purtroppo neppure il Pnrr pare ora in grado di fornire un adeguato rinforzo.

Le risorse del Pnrr destinate alla sanità

Numeri alla mano, il Pnrr varato dall’attuale governo ha stanziato 15,63 mld di euro alla sanità, (ovvero, alla sesta missione del piano italiano), declinati in due differenti rami: 8,63 mld a Innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale (SSN) e 7 mld alle Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale. Al di là delle etichette, l’idea di fondo è quella di delocalizzare l’assistenza medica sul territorio, così da non gravare più un sistema, quello ospedale-centrico, rivelatosi non più funzionale né in caso di emergenza, né di fronte a una popolazione sempre più anziana e affetta da più patologie croniche. In Italia, nel 2019, si stimavano circa 10 milioni di persone, sopra i 15 anni, affette da comorbilità, ovvero con almeno 3 patologie croniche. Di conseguenza, l’idea di realizzare 1.350 case della comunità, 400 ospedali di comunità e 600 centrali operative territoriali per gestire chi di fatto non necessita di essere ricoverato in un ospedale classico, trova una sua sensatezza. Fin qui tutte misure di buon senso, ma che si scontrano con la realtà storica della sanità italiana.

Lo stato di salute della sanità italiana

Nel nostro Paese il Covid-19 ha ucciso 161.000 persone (siamo primi in Europa, se si esclude il Regno Unito) e stando a quanto riportato da Francesco Zambon, in un’intervista al quotidiano La Verità, i morti reali sarebbero molti di più. Un articolo uscito sulla rivista Lancet, suggerisce infatti come a livello mondiale siano morte 18 milioni di persone, rispetto ai 6 mln conteggiati sinora, di conseguenza “per il biennio in questione (2020-2021) – dichiara Zambon – i morti non sarebbero 137.000, ma 259.000. Abbiamo ampiamente sottostimato il loro numero”. E uno dei fattori che ha determinato questo esito è forse da ricercarsi nei tagli che per anni hanno colpito la sanità pubblica.

Tra il 2010 e il 2018, in Italia, sono venuti a mancare 33.000 posti letto (da 244.000 a 211.000) e con essi il personale ospedaliero necessario a farli funzionare. Secondo le elaborazioni della fondazione Gimbe, inoltre, nella stessa decade sarebbero venuti meno 37 mld di euro di investimenti per la sanità pubblica. Ed addentrandosi ulteriormente nella matassa è facile capire come in realtà le responsabilità coprano un arco temporale ben più ampio, di almeno 20 anni, coinvolgendo più o meno ogni partito, a prescindere dal colore e dalle promesse fatte in campagna elettorale. Marco Ravelli infatti, sul settimanale TPI, ha analizzato nel dettaglio l’ultimo ventennio politico, attribuendo ben 33 mld di tagli al secondo governo Berlusconi, altri 30 mld (ancora in divenire) all’esecutivo guidato da Monti e infine 9,3 a quello di Renzi. “Il risultato – scrive Ravelli – è che quando è iniziata la pandemia non mancavano solo i posti letto, ma anche 56.000 medici e 50.000 infermieri: in Italia ci sono 5,6 infermieri ogni 1.000 abitanti mentre in Francia il rapporto è di 10,5 e in Germania di 12,6”.

Il rapporto tra forze ed esiti non è sempre lineare e Paesi con più personale e strutture sanitarie rispetto all’Italia non hanno comunque fronteggiato la pandemia con risultati molto differenti da quelli nostrani. Tuttavia, è indubbio il fatto che alcune strutture abbiano dovuto scegliere a priori chi assistere e chi no sulla base della disponibilità di un posto letto in ospedale e questo non sarebbe dovuto succedere, soprattutto in un Paese dove la sanità dovrebbe essere un servizio universale. Ed oggi il problema è che l’investimento del Pnrr rischia di non sanare affatto le attuali lacune e di lasciare inoltre ai posteri tanti edifici privi di alcuna utilità.

Le criticità del Pnrr in tema di salute

A lanciare l’allarme è Openpolis, che nella sezione del sito dedicata al Pnrr, sottolinea come “per far funzionare questo sistema tuttavia serviranno nuovi medici, infermieri, personale tecnico-amministrativo eccetera. Ne consegue quindi che senza un incremento strutturale della spesa pubblica nel settore sanitario queste strutture rischiano di rimanere delle scatole vuote”. In altre parole, non basta costruire una struttura, sia essa informatica oppure fisica, affinché la si possa usare al meglio, perché senza un personale qualificato ogni investimento rischia di rivelarsi un buco nell’acqua o, peggio ancora (come in questo caso), di esser lasciato addirittura come zavorra alle future generazioni. Oltre alla beffa anche il danno.

Le Regioni, dal canto loro, hanno già capito che senza un aumento considerevole della spesa pubblica in ambito sanitario è inutile procedere con la costruzione di nuove strutture e infatti la Campania di De Luca ha detto di no nella Conferenza Stato-Regioni. D’altronde, è Giovanni Fattore stesso, su LaVoce.info, a evidenziare una criticità nell’agire del governo: “la programmazione prevista per gli interventi strutturali, quelli finanziabili con i fondi del Pnrr, non tiene conto delle implicazioni sulla spesa corrente”. Tradotto, i soldi che l’Ue ha destinato all’Italia, e agli altri Paesi, non possono essere spesi per assumere del personale (ma per formarlo invece sì), anche perché in caso contrario verrebbe meno l’intento del piano europeo stesso: creare una serie di riforme per rilanciare la futura generazione di europei. C’è da sottolineare però, come solo la Campania si sia opposta, lasciando così intendere che chi negli anni ha accantonato risorse ora può permettersi di spenderle meglio e che di fatto esiste un divario tra le diverse Regioni d’Italia.

Tirata una riga e sommati i problemi con le soluzioni è evidente che i soldi del Pnrr destinati alla sanità siano sulla buona strada per arginare una deriva, ma assai lontani delle esigenze del Paese. Solo analizzando i dati degli ultimi 10 anni, a fronte di un taglio di 37 mld ne vengono impiegati 15,63 mld, ampiamente insufficienti per recuperare le depauperazioni portate avanti da più governi. Vi sono poi dei problemi legati a una disparità del servizio sanitario regionale (come dimostra la protesta Campana) e che il Pnrr cerca di sì di bilanciare (destinando il 40% delle risorse al Sud), ma che al tempo stesso sembrano invece destinate a riaffermarsi con ancor più forza. La sanità Calabrese, ad esempio, è tuttora sotto commissariamento e i conti dell’attuale gestione e di quella passata, prima ancora dei soldi del Pnrr, sono ancora in fase di calcolo: data di elaborazione prevista, entro il 31 dicembre 2022.

Il rischio ad oggi è quindi che il Pnrr sanitario finisca per acuire, invece di stemperare, le differenze tra Nord e Sud del Paese, rendendo così vana sia l’idea di una riforma per le future generazioni, sia la costruzione di una sanità davvero universale lungo tutto lo stivale.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

I soldi non fanno i vincitori: occorre una strategia

Come l’industria bellica influenza le decisioni politiche

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Correva l’anno 1961 quando il 34esimo Presidente americano, Dwight D. Eisenhower, pronunciò le seguenti parole: “Nel governo dobbiamo stare in guardia contro le richieste non giustificate dalla realtà del complesso industriale militare. Esiste e persisterà il pericolo della sua disastrosa influenza progressiva. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione metta in pericolo la nostra democrazia. Solo il popolo allertato e informato potrà costringere ad una corretta interazione la gigantesca macchina da guerra militare….in modo che sicurezza e libertà possano prosperare insieme”. Ed oggi, a 60 anni di distanza, è difficile non intravederne il valore profetico e l’influenza che il comparto militare continua ad esercitare sulle democrazie di tutto il mondo.

Il mercato delle armi

Secondo i dati pubblicati da Sipri (l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma), nel 2020 gli Stati Uniti hanno speso ben 778 mld di dollari in difesa (equivalenti al 3,52% del Pil americano), seguiti dalla Cina (252 mld), dall’India (72,9 mld) e dalla Russia (61,7 mld). Nel complesso, i 10 Paesi che nel 2020 hanno speso di più in difesa coprono il 75% dell’intero mercato d’armi del mondo, ed hanno investito complessivamente 1.482 mld di dollari. E a beneficiare maggiormente di questo importo sono state Lockheed Martin Corp., Boeing, Raytheon Technologiese, Northrop Grumman e General Dynamics: ovvero, le 5 più importanti aziende produttrici d’armi al mondo. Neanche a dirlo, sono tutte americane e nell’insieme formano un oligopolio arginato solo dal lavoro degli enti federali. La Lockheed Martin Corp., ad esempio, qualche mese fa era in procinto di acquisire la Aerojet Rocketdyn, quando la US Trade Federal Commission (TFC) è intervenuta per fermare l’affare. La TFC ha motivato il suo intervento con la necessità di preservare quel poco di competitività di cui ancora dispone il mercato delle armi americano. Con l’acquisto della Aerojet Rocketdyn, infatti, si sarebbe ridotto ulteriormente il numero di aziende attive nel settore, comportando un aumento di spese per i contribuenti americani, così come riportato dal Financial Times e dalla Senatrice Elizabeth Warren; la quale ha aggiunto “ondate di attività di fusione e di consolidamento hanno trasformato l’industria della difesa della nazione da un mercato competitivo con oltre 50 aziende a un oligopolio di soli 5 grandi rivali. Di fatto, dal 1961, data del discorso di Eisenhower, ad oggi, il mercato degli armamenti americano si è letteralmente trasformato in un circolo per pochi eletti.

E dove finiscono la maggior parte delle armi prodotte? Da soli, gli States guidano saldamente la classifica dei 10 più grandi esportatori d’armi al mondo (e dal 2017), con una quota pari 39% dell’intera torta, e a comprare è la Nato e chiunque voglia muovere guerra e non abbia contrasti con la patria delle libertà a stelle e strisce. Numeri alla mano, dal 2015 ad oggi, l’Ue ha investito 1.510 mld di dollari in armamenti, mentre la Russia 414 mld. E all’interno dell’Ue, chi spende di più in esercito è la Grecia, col 3,82 del Pil (pari a 723 mln$), ma se guardiamo il valore monetario, cioè i miliardi davvero spesi, è facile rendersi conto come la classifichi la guidino alla pari la Francia (2,1% del Pil, pari a 52,7 miliardi di dollari) e la Germania (1,38% del Pil, pari a 52,8 mld$), seconde solo al Regno Unito (col 2,29% del Pil, pari a 59,2 mld$), che però oggi figura fuori dall’Europa, pur restando sempre all’interno del perimetro della Nato. E bastano questi pochi numeri per trarre almeno due considerazioni. La prima è che falso sostenere che l’Ue abbia destinato pochi miliardi alla difesa, anzi, ha speso 3,5 volte in più dell’intera Russia (nel periodo che va dal 2015 ad oggi). Secondo, che lo standard del 2% del Pil per la difesa, fissato dalla Nato, è un traguardo importante, ma che non fotografa efficacemente i miliardi spesi dai singoli Paesi. In altre parole, lo sforzo che ogni governo compie in rapporto al Pil è lo stesso, ovvero 2%, ma i miliardi spesi sono di ben altra entità, basti guardare ai milioni di euro spesi dalla Grecia contro i miliardi degli altri Paesi dell’Ue.

Che fine fanno i soldi europei?

L’Europa spende miliardi in armamenti, ma a conti fatti si ritrova con un esercito frammentato e tecnologicamente arretrato. È come se dalla montagna di soldi europei fuoriuscisse sempre un topolino. Nel dettaglio, su La Verità, in un articolo a firma di Claudio Antonelli, vengono riportate le voci di spesa dell’esercito italiano ed è subito evidente che immettere altri denari nell’apparato militare non sia di per sé sufficiente, occorre infatti pensare strategicamente e saper spendere. “Secondo prassi Nato – scrive Antonelli – metà del budget (per la difesa) dovrebbe andare al personale, il 25% alle spese di esercizio, manutenzione e addestramento, il rimanente 25% per l’innovazione tecnologica. Nel nostro caso (in Italia), il 70% se ne va in personale (che include caserme e pensioni), il rimanente è suddiviso sulla parte operativa”. Ma il caso italiano non è l’unico in cui si presentano disfunzionalità ed inefficienze. La Germania, ad esempio, ha sì deciso di destinare 100 mld di euro alla difesa (oltre al 2% del Pil annuno), ma si ritrova con arsenale così antiquato da dover correre ai ripari senza se e senza ma. Scholz, infatti, ha deciso di sostituire i Tornado con gli F-35, i quali possono trasportare testate nucleari, e di acquistare gli Eurofighter Typhoon, nati da un consorzio che vede partecipare insieme UK, Spagna e Italia. Peccato che la Germania fosse già impegnata con la Spagna e la Francia nel Future Combat Air System (FCAS), che a sua volta coinvolge l’azienda Airbus e che nel 2040 dovrebbe sfornare il nuovo caccia europei. Ma la guerra incombe e quindi gli accordi saltano mettendo a nudo la fragilità che accomuna i singoli Paesi della zona Ue. E a tal proposito, Claudia Major, del German Institute for International Security Affari, ha detto, al Financial Times, che “Fin dall’inizio [FCAS] è stato l’esempio della difficile cooperazione industriale europea, della sfiducia e di tutti coloro che cercano di difendere il proprio interesse industriale.

Di fatto quel che manca in Europa è una politica che sappia sfruttare decentemente due dei principi cardine dell’economia aziendale: le economie di scala e quelle del raggio d’azione. La prima ci dice che all’aumentare della capacità produttiva seguirà un calo dei costi unitari di produzione; tradotto, a un’azienda costa molto di più produrre un’auto personalizzata (come una Pagani), invece di una 500 (di cui magari ne vengono realizzati milioni di esemplari). L’economia del raggio d’azione, invece, ci dice che il costo per produrre due oggetti che condividono il medesimo processo di fabbricazione è inferiore a quello che dovremmo sostenere per produrli singolarmente. In breve, se l’acciaio di cui necessitano carrarmati e aerei proviene dalla medesima acciaieria, questo sarà un vantaggio rispetto alle costruzioni di tante piccole acciaierie sparse in tutta Europa per altrettante fabbriche d’armi. In entrambi i principi economici vi è del buon senso, mentre nell’agire dei singoli Paesi europei emerge principalmente la paura e la necessità di proteggere sé stessi (ed i propri interessi).

Sarebbe sufficiente frammentare il mercato delle armi quel tanto che basta per bilanciare tra di loro costi e potere delle aziende, barattando un costo produttivo maggiore per una riduzione del rischio di creare oligopoli (com’è invece accaduto negli States). Ed inoltre, sarebbe opportuno creare delle strutture di difesa comuni per migliorare la coordinazione e l’efficienza dell’arsenale bellico europeo, ma al momento tutto questo è letteralmente fantapolitica. Tra l’altro, tali problemi gestionali si stanno ora accompagnando a un rinnovato entusiamo del mercato finanziario per la guerra, tanto che le armi sono oggi diventate improvvisamente sostenibili.

Gli Esg e le armi stringono un’alleanza contro il pianeta

Da qualche tempo a Wall Street il vento è cambiato, gli investitori hanno compreso che le loro scelte finanziarie hanno un impatto sul futuro del pianeta e che dare soldi ad aziende del fossile e di tutti quei comparti che minacciano la specie umana risulti insensato sia sul breve che sul medio-lungo periodo. Per questo sono nati gli Esg (Environmental, Social, Governance), dei prodotti finanziari che dovrebbero tener conto degli standard ambientali, di quelli sociali e in generale di una corretta governance, abbandonando così quella strada di avidità intrapresa mezzo secolo fa con Milton Friedman. Sulla carta sembrava filare tutto liscio e Wall Street pareva aver sviluppato una coscienza, ma oggi, analizzando nel dettaglio gli Esg, ci si rende conto che il concetto di “sostenibilità” può essere storpiato così tanto da farci rientrare dentro persino l’industria bellica.

D’altronde i soldi sono pur sempre soldi, e di fronte agli incrementi delle azioni del settore militare è difficile restare impassibili sui propri principi. Numeri alla mano, le azioni dell’azienda italiana Leonardo (al tredicesimo posto tra le aziende produttrici d’armi al mondo) sono passate dai 6,08€ ad azione del 7 di febbraio scorso, ai 9,35€ di oggi, ed un balzo simile l’hanno registrato anche la francese Thales (+47,9%), la britannica Bea Systems (+33,2%) ed ovviamente l’americana Lockheed Martin Corp. che è passata dai 387$ ad azione di febbraio, agli attuali 447$. Il mercato delle armi è oggi talmente redditizio che persino la banca svedese Seb, che neanche un anno fa aveva dismesso tutti i suoi investimenti in armi, ha deciso di consentire (dal 1° aprile) a 6 fondi di tornare a puntare sulla difesa. E solo un anno fa, l’Ue voleva etichettare l’industria militare come dannosa, mentre oggi le carte in tavola sono già cambiate.

Su La Stampa, in un articolo a firma di Fabrizio Goria, il direttore commerciale di AcomeA Sgr, Matteo Serio, suggerisce come in “un futuro prossimo in cui il concetto di sostenibilità rifletterà anche una prospettiva di contributo alla sicurezza nazionale in senso più ampio, con implicazioni ad oggi non scontate”. E Goria stesso ha poi esplicitato meglio il concetto: Nel mondo Esg 2.0 il focus non è più sul settore “buono” o meno, sottolinea il manager di AcomA, bensì sulla singola azienda, sulla propria politica d’impresa atta, per esempio, a contenere gli sprechi energetici o a includere procedure di svolgimento delle attività che abbiano ricadute positive sul contesto locale”. Tutto questo significa che la geopolitica ha ormai preso il sopravvento anche in quei settori della finanza, che per marketing o ideali, cercavano di traghettare il mondo altrove rispetto al passato, e così il mondo degli Esg sta oggi investendo in energie fossili ed armi.

Per Wall Street tutto questo è routine, visto che in un passato recente la quotazione di Aramco aveva già ristabilito i rapporti di forza rispetto alle economie della Silicon Valley. Tuttavia, qui il problema non è solo di natura economica, ma politica, poiché investire miliardi di euro in armi e fossile potrebbe anche risultare efficace a una situazione contingente, com’è quella della guerra Russo-Ucraina, ma l’assenza di una strategia e di una coordinazione europea è pericoloso. In Europa, a differenza degli Usa (che pur sempre sono un aggregato di Stati federali accomunati da moneta e legge condivisa – come in Ue), manca totalmente una visione strategica. E l’attuale impiego di risorse monetarie, che potrebbero sostenere il welfare e la crescita, vengono qui dissipate in tanti micro-eserciti, non coordinati e numericamente inferiori rispetto alle grandi minacce del presente. Tra l’altro, l’Ue sta già impiegando nella difesa (complessivamente) più risorse della Russia e della Cina, ma non riesce a conseguire gli stessi risultati.

E ad oggi purtroppo non c’è solo il rischio che l’industria militare continui ad esercitare la sua influenza sui singoli Stati (europei e non), così come profetizzato da Eisenhower 60 anni fa, ma per di più si sta facendo largo anche il ritorno agli Stati nazione, i quali agiscono soddisfando le proprie paure, senza alcun coordinamento e/o strategia di lungo periodo che preservi l’unico interesse davvero comune a tutti: la pace.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini