Too big to fail: cosa si nasconde dietro il crack di Silicon Valley Bank e la crisi di Credit Suisse

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La cronaca finanziaria delle ultime due settimane ha risvegliato in molti risparmiatori ed analisti quella paura, mista ad angoscia ed incredulità, che 12 anni fa accompagnò la crisi dei mutui subprime, culminata, il 15 settembre 2008, col fallimento di Lehman & Brothers. Un tonfo capace indurre tutti a ripensare la finanza e il rapporto tra mercati, risparmiatori e istituzioni centrali. Ed oggi, il fallimento di Silicon Valley Bank (SVB), prima, e la crisi di Credit Suisse (CS), poi, hanno riacceso il panico nei mercati e obbligato gli analisti a un nuovo esame di coscienza: com’è stato possibile? Davvero non abbiamo imparato nulla dal passato? In parte è così, la lezione che la Grande Recessione e la Crisi del debito sovrano avrebbero dovuto impartirci è stata dimenticata sotto la spinta del denaro facile, reso accessibile a tutti grazie a un periodo prolungato di tassi bassissimi, quando non addirittura negativi, ma dietro gli shock di queste settimane vi è qualcosa di più.

Il terreno della crisi, tra denaro facile e pochi controlli

SVB e Credit Suisse rappresentano l’emblema di ciò che oggi non funziona nel mercato finanziario e delle colpe delle banche centrali, nonché della politica, ma il 2008 è stato tutto un altro film. La crisi del 2007-2008, infatti, affondava le sue radici nella fragilità del mercato immobiliare, le cui fratture erano state stuccate ad arte con i CDO, forme di aggregazione del rischio nate con l’obiettivo di gestire, rendendo profittevoli, prodotti che se trasparenti nessuno avrebbe sottoscritto a cuor leggero, anzi. La stragrande maggioranza di chi comprava questi prodotti finanziari non sapeva davvero che cosa stesse acquistando, né i rischi sottostanti, poiché ciò su cui i mediatori finanziari facevano leva era il rendimento.

Oggi, invece, la cronaca ci racconta di una banca regionale, SVB, che ha gestito incautamente i soldi di investitori e correntisti di un particolare settore, quello dell’High Tech. Per capire il crack finanziario che ha colpito la California occorre partire proprio da questo dato: SVB rappresenta perlopiù una pagina delle cronache del mercato d’oggi, al più un capitolo, non l’intero libro.

SVB e la crisi dell’obbligazionario indotta dall’ascesa dei tassi d’interesse

Tutto è cominciato tre anni fa, con l’avvento della pandemia da Sars-Cov2, quando ingenti quantità di denaro, ancora lasciato libero di riprodursi senza troppi vincoli (come stimolo ad un’inflazione ferma al palo, e ben lontana dal 2% fissato dalla teoria macroeconomica) inondava i mercati e cercava casa tra gli investimenti. La chiusura di molte attività economiche, a seguito dei lockdown, non impedì ad altre di proliferare, anche in virtù di una diversa organizzazione del lavoro. D’altronde una fabbrica di lampadine richiede una presenza sul lavoro ben diversa rispetto a quella di cui necessita una start-up del settore dell’High Tech. A fronte del blocco del lavoro, e con l’obiettivo di sostenere l’economia, le principali economie del mondo hanno dato vita a manovre espansive, le quali hanno determinato un aumento del debito pubblico dei singoli Stati. Un esempio? Come riportato da un report della Banca d’Italia a firma di Gabriele Bernardini e Valerio Ercolani (datato 30 Giugno 2021), gli Usa avevano impiegato ben più di 6.000 miliardi di dollari per fronteggiare la crisi pandemica (pari al 30% del PIL americano). E come ci ricorda l’IRA varato qualche mese fa da Biden, la pioggia di soldi facili non ha ancora mollato la sua presa sul decisore pubblico, nonostante gli ammonimenti di diversi economisti.

Di questa ingente mole di liquidità hanno giovato un po’ tutti, compresi i correntisti e gli investitori di Silicon Valley Bank, la quale, tra il 2020 e il 2022 (gli anni della pandemia) ha incrementato i suoi depositi da 102 a quasi 189 mld di dollari (come riportato dal Financial Times). Un fiume in piena in cerca di profitto a basso rischio. Già, perché coi tassi negativi e un mercato azionario non proprio stabile, l’opzione allora più sicura pareva l’obbligazionario sui titoli di Stato americani. SVB scelse così di porre in un unico paniere, a lunga scadenza, pari a 10 anni, ben 120 miliardi di dollari. Di questi, ben 91 mld erano investiti in titoli obbligazionari con un rendimento del 1,64%, che nel 2020/2021 era molto buono, ma che oggi, con l’ascesa dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali (Fed, Bce e Boe) risulta svantaggioso; ed è qui che la strategia di Svb si è rivelata poco lungimirante e per due differenti ragioni.

Gli errori commessi da SVB

La prima è che dopo una fase espansiva, per quanto prolungata possa essere (e quella del Quantitative Easing è durata più di 10 anni) ne segue sempre una restrittiva, con tassi in aumento, e così è stato. Sono i cicli economici, che quanto calibrati per evitare stagnazione e recessione, regolano l’economia tutta. Il secondo errore commesso dagli analisti di SVB è stato quello di sottovalutare il profilo dei propri clienti, e questo errore è stato forse peggiore del primo. Le start-up del settore High Tech, infatti, hanno bisogno di mobilitare ingenti quantità di capitale per produrre innovazione e quindi richiedono un accesso alla liquidità rapido e imponente, aspetti, questi, che mal si conciliano con l’investimento in titoli obbligazionari a 10 anni, il cui rendimento dipende proprio dalla capacità di lasciare i soldi fermi sino allo scadere dell’obbligazione.

Con la riprese dell’attività economica gli investitori hanno quindi domandato liquidità, che però SVB non era in grado di garantire, se non rimettendoci, e tanto. Ma perché? Perché con l’aumento dei tassi d’interesse si erano generate obbligazioni, sempre su titoli di Stato, dai rendimenti molto più alti e tali da rendere quelle contratte nel 2020 e 2021 poco appetibili. Chi comprerebbe mai un’obbligazione con un rendimento all’1,64% se può acquistarne invece una, ex-novo, che garantisce oltre il 4%? Solo un forte sconto, così come quello che oggi riguarda il petrolio degli Urali (posto sotto embargo) può spingere un investitore ad acquistare un’obbligazione del genere. Ed è così che SVB ha dovuto cercare altri modi per farsi finanziare sul mercato, ma così facendo ha ammesso pubblicamente di avere un problema, di cui nessuno sapeva nulla. E qui entrano in gioco le colpe della politica.

Il populismo americano è stato a favore della deregulation finanziaria

Nel 2018, infatti, Donald Trump decise di rivedere il Dodd-Frank Act, permettendo così alle banche regionali con un valore inferiore ai 250 mld di dollari, come SVB, di non doversi sottoporre a nessun controllo da parte della Fed centrale, ma solo a quelli dei distaccamenti della banca centrale americana disseminati nei singoli Stati. In questo modo, per quanto controllata, SVB non era soggetta allo stesso rigore di una major bank, nonostante fosse in 16 posizione nel ranking delle banche americane e di primaria importanza per un intero settore, ovvero quello dell’High Teck (oltre 1.500 aziende innovative e start-up avevano i loro conti in SVB, come riportato dal New York Times). Dopo la notizia della ricerca di liquidità è bastato un giorno per far crollare il castello di carte. Durante l’ennesimo venerdì nero sono stati prelevati dei depositi della fu banca californiana ben 42 mld di dollari e da lì il crack. A seguire l’intervento di Biden per garantire i depositi anche sopra i 250.000 dollari (dei correntisti e non degli investitori) e della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC). Non i contribuiti, ma le banche risaneranno il buco generato da SVB e dalle altre banche regionali in prossimità del baratro: questa è la promessa, anche se è assai probabile che il mondo delle istituzioni creditizie decida di rivalersi poi sui propri correntisti e quindi su tutti.

Credit Suisse: che cosa ha portato alla crisi dell’istituto bancario elvetico?

Che cosa ha determinato la crisi di Credit Suisse (CS) in Ue? Che legame c’è con SVB? La storia di Credit Suisse è simile, eppure assai diversa rispetto a quella di SVB e ci racconta di come la finanza, da ben prima del 2008, sia sì cambiata e non per il meglio.

Alla base del crollo di CS vi è l’annuncio, da parte della Saudi National Bank (SNB), partecipata per il 37% dal fondo sovrano saudita, di escludere un nuovo sostegno finanziario alla banca svizzera. SNB è il maggior azionista del Credit Suisse: per questo la notizia ha scatenato la bufera su Zurigo. Alla fine dello scorso anno gli arabi avevano acquistato una partecipazione del 9,88% dell’istituto, in concomitanza con l’aumento di capitale da 4 miliardi di franchi, così come riportato da OPEN. Come nel caso di SVB, anche in questo caso è la mancanza di liquidità ad aver dato una spinta in più a un istituto di credito da tempo in crisi.

Già, perché CS, fondata nel 1856 da Alfred Esher, è, come riportato dalla Tv nazionale svizzera, “una banca internazionale che ha perso di vista le sue radici svizzere” e non da ieri. Quindici anni fa un’azione di CS valeva 80€, mentre cinque anni fa solo 15€, ed ora è crollata a 0,76 Franchi (UBS ha infatti messo sul piatto 3 mld di Franchi svizzeri, pari a 3,2 mld $ per prendersi CS). Com’è stato possibile? In una parola? Avidità. Prima il tracollo del giocattolo di Bill Hwang e il suo Archegos Capital Management, poi Greensill, a seguire lo scandalo del tonno in Mozambico (come riportato da Repubblica), e infine i “Suisse Secrets”: ovvero i file con i nomi di 18.000 clienti che difficilmente avrebbero ottenuto un conto altrove. A tutto ciò si accompagnano le lotte tra le fazioni interne alla banca, come descritto dal giornalista finanziario Lukas Hassig: da una parte quella più attaccata alle tradizioni svizzere (depositi e poco altro) e dall’altra, invece, quella americana, più incline all’unica logica che domini la finanza, ovvero quella di Milton Friedman. Il problema è che a pagare i conti e gli errori del capitalismo senza regole, come quello libertario invocato dai magnati della Silicon Valley e delle grandi banche svizzere, sia sempre e solo lo Stato.

A salvare il capitalismo è collettività tutta

La Svizzera intera, per non perdere la credibilità acquisita in secoli d’attività, nonché la principale fonte d’introiti del Paese, ha deciso di aprire il portafoglio. Dapprima con un prestito ponte a CS per 50 mld di Franchi, bruciati, come riportano le indiscrezioni del Financial Times, in poco meno di cinque giorni, a causa di una folle corsa agli sportelli (con un prelievo di 10 mld al giorno). Poi altri 100 mld, più 9 in caso di necessità, sono stati messi sul piatto come scorta e incentivo affinché UBS decidesse di fare il passo ed acquisire lo storico rivale di sempre, CS.  

Allarme rientrato? In realtà non si sa ancora. I mercati non hanno digerito benissimo né l’acquisizione di UBS, né la fretta con cui la banca centrale svizzera ha gestito il problema, bypassando la riunione di soci azionisti di Credit Suisse, in barba alle regole (oggi sotto revisione) che essa stessa aveva scritto; tant’è che oggi gli azionisti sembrano muoversi per chiedere i danni. Insomma, il panico nato in USA fuso con la scelta del fondo saudita di non sostenere Credit Suisse insieme all’accumulo di vicende giudiziarie che hanno interessato la banca elvetica negli ultimi anni, hanno di fatto portato scatenato una bufera che ha rischiato di portarla alla banca rotta e trascinare con sé i mercati europei. Se il panico è rientrato, la tempesta non è ancora finita: perché se un istituto di credito di valenza sistemica, come CS, il cui Cet1 era pari a 14,1, è piombata nel baratro per il fallimento di una banca americana, questa volta neppure sistemica, allora c’è un problema di fondo pronto ad esplodere. I tassi d’interesse, oggi al 4,75% negli Usa e al 3,5% in Ue, stanno infatti cambiando il modo di ragionare degli investitori e dei correntisti, attratti da profitti che suggeriscono loro di non lasciar più parcheggiati i soldi sui conti correnti. Vi è poi l’onda lunga di una serie di crisi che dal 2000 in poi sembra aver sensibilizzato ed esasperato l’emotività delle persone, le quali si aspettano sempre il peggio anche quando non ve ne sarebbe ragione.

La situazione italiana: che cosa rischiamo?

E l’Italia cosa rischia? C’è la possibilità dell’effetto domino? La Repubblica fa sapere che Palazzo Chigi segue il dossier in contatto con Consob Banca d’Italia. Le controparti italiane non paiono esposte in modo significativo sugli 11,9 miliardi di euro iscritti a bilancio come debiti bancari. Quindi, secondo la premier, dal punto di vista dei numeri non c’è molto da preoccuparsi. Ma l’effetto domino è sempre dietro l’angolo: gli speculatori sono sempre alla finestra, per tentare di forzare la mano su situazioni fragili di realtà Too big too fail, cioè troppo grandi per essere lasciate fallire.

L’Unione Europea nel corso del tempo si è preparata ad evitare una seconda crisi finanziaria al pari di quella accaduta nel 2008: con l’Unione Bancaria UE i controlli sono più centralizzati, gli stress test sulle banche vengono fatte in continuazione, la liquidità deve essere garantita e il capitale a bilancio deve essere al di sopra di una certa soglia se si vogliono effettuare investimenti rischiosi. Insomma, la Bce ha garantito solidità degli istituti. Ma l’elefante dentro la stanza esiste e si chiama “liquidità”. Trilioni di dollari e di euro sono stati pompati nel mercato per far ripartire l’economia, sottovalutando i rischi su indebitamento (come SVB ci insegna) e l’inflazione eccessiva. Ora si corre ai ripari per evitare un livello dei prezzi troppo elevato stringendo come mai prima la liquidità: è come se a un fumatore accanito si consigliasse di non fumare più neanche una sigaretta dal giorno X. Effettivamente non fumerà più, così come l’inflazione scenderà. Ma a che prezzo? Recessione? Scoppio di bolle nascoste? Il terreno è un campo minato, non ci sono notti tranquille nei palazzi delle banche centrali. Il futuro è molto indeterminato.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

Nein! Un bicchiere mai pieno

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Nein! La svolta tanto attesa, ed invocata ormai 8 mesi fa dal dimissionario governo Draghi, è stata sonoramente stroncata dai vertici europei. Si dovrà dunque attendere sino al 6 ottobre per sapere se ci sarà o meno un price cap al tetto del gas e ciò dovuto al veto imposto dall’Ungheria, dalla Slovenia, dall’Austria, dai Paesi Bassi, dalla Repubblica Ceca e infine dalla Germania. Inutile dirlo, a pesare maggiormente è stato il dissenso di quest’ultima, la quale teme il blocco totale di qualunque fornitura di gas russo e con essa uno stop della propria industria, un aumento della disoccupazione e il rischio di tensioni sociali: in breve, no gas, no Pil. Di fronte a questa decisione gli osservatori economici si sono divisi in due blocchi, quello degli ottimisti da una parte e dei pessimisti dall’altra.

Dalla parte degli ottimisti

Chi nonostante tutto continua a vedere il bicchiere mezzo pieno confida nella razionalità degli attori economici e nelle aspettative, si spera positive, del mercato (le quali, almeno al momento, riemergono puntualmente nelle analisi statistiche). Dal lato razionale, l’idea che in breve tempo la Russia possa reindirizzare i propri gasdotti verso la Cina e l’India, così come si potrebbe fare con la canna per irrigare il giardino, risulta priva di fondamento. Da ciò ne consegue che senza l’Europa a spingere la domanda, al gas russo non resti che venir bruciato in Siberia (come già avviene) per mantenere la stabilità dei giacimenti. Sempre in quest’ottica, è ritenuto altrettanto assurdo che l’establishment russo continui nell’autoflagellazione della propria economia, la quale registra un calo del Pil a doppia cifra. Certo, c’è chi, soprattutto in Italia, dirà che tutto sommato poteva andare peggio e che quindi le sanzioni funzionino poco, il realtà il quadro è più complesso. La Russia sta letteralmente facendo di tutto per mantenere stabile la propria economia e ci riesce grazie a importazioni ridotte e maggiori entrate dal comparto commodities (grano, gas, petrolio, fertilizzanti ecc.). Tuttavia, proprio le scarse importazioni fanno presagire un venturo collasso della produzione interna, dovuto principalmente alla difficoltà nel reperire componenti ad alto contenuto tecnologico, ormai da anni in outsourcing (come, ad esempio, le turbine della Siemens per i gasdotti). Certo, se Atene piange Sparta non ride e l’attuale inflazione europea (trainata soprattutto dal comparto energetico, oltre che dai colli di bottiglia) n’è la prova; ma al momento dire chi, tra Ue e Russia, spunterà partita non è facile.

Un altro elemento a favore degli ottimisti è quello che riguarda il livello di stoccaggio delle riserve di gas nazionali, a cui si sta ora accompagnando una politica di risparmio energetico e la solidarietà promossa in seno all’Ue. Il governo Draghi, infatti, ha appena approvato il piano di risparmio energetico nazionale, che entro poche settimane dovrebbe essere reso operativo, il quale prevede che il riscaldamento si accenda più tardi, resti in funzione un’ora in meno e si abbassi di un grado per l’intera stagione invernale. Insieme a queste misure il Ministero della Transizione Ecologica ha ha fornito anche i numeri sull’approvvigionamento alternativo per evitare eventuali shock causati dallo stop al gas russo; come ad esempio la massimizzazione della produzione a carbone e a olio delle centrali già esistenti e regolarmente in servizio, che contribuirà da solo (per il periodo 1° agosto 2022 – 31 marzo 2023) a una riduzione di circa 2,1 miliardi di metri cubi di gas.

Le stime sull’impatto di tutte le misure di contenimento previste dal Mite porteranno ad un potenziale risparmio di circa 5,3 miliardi di Smc di gas, conteggiando anche la massimizzazione della produzione di energia elettrica da combustibili diversi dal gas (circa 2,1 miliardi di Smc di gas) e i risparmi connessi al contenimento del riscaldamento (circa 3,2 miliardi di Smc di gas), cui si aggiungono le misure comportamentali da promuovere attraverso campagne di sensibilizzazione degli utenti ai fini di ottonere un atteggiamento più virtuoso nei confronti dei consumi. Attualmente, e come già anticipato, il piano di stoccaggio nazionale di gas in vista del prossimo inverno (quale potenziamento dalle misure anticrisi energetica approvate successivamente alla guerra in Ucraina) procede puntualmente. Al primo settembre 2022 gli stoccaggi erano all’83%, in linea con l’obiettivo di riempimento superiore al 90%.

A questa lettura ottimistica del presente si accompagna a braccetto anche l’ultimo report trimestrale dell’Istat che vede un’economia italiana non ancora duramente colpita dalla crisi energetica, anzi, i dati riportati nel report sono tutt’altro che negativi. Nel secondo trimestre del 2022 il Pil nazionale è aumentato dell’1,1% rispetto al trimestre precedente e del 4,7% nei confronti del secondo trimestre del 2021. La variazione quindi acquisita per il 2022 è pari a +3,5%. Rispetto al trimestre precedente, invece, tutti i principali aggregati della domanda interna sono in ripresa, con un aumento dell’1,7% sia dei consumi finali nazionali, sia degli investimenti fissi lordi. Infine, le importazioni e le esportazioni sono aumentate, rispettivamente, del +3,3% e del +2,5%.

Il bicchiere mezzo vuoto e la crisi in arrivo

Chi invece vede il bicchiere mezzo vuoto legge i dati del momento come l’annuncio dell’imminente recessione. Goldman Sachs, ad esempio, ha previsto un aumento dei costi energetici europei, a partire dall’inizio del 2023, per un importo di 2 trilioni di dollari, pari al 15% del Pil europeo (e lo scenario migliore, nel peggiore si parla 4 trilioni e del 30% del Pil). Dal punto di vista del consumatore ciò si tradurrebbe con un aumento mensile delle bollette pari a 500€ (nel migliore degli scenari) e di 590€ nel peggiore. Considerando l’affitto, una macchina e l’inflazione che divora il potere d’acquisto, anche uno stipendio medio rischia di non essere più uno scudo efficace contro il caro vita. Sempre per restare in tema aumenti, anche Confartigianato ha annunciato che col caro energia sono a rischio 881.264 micro imprese e quindi 3.529.000 di posti di lavoro. Già ora le bollette stanno mettendo in ginocchio le imprese, soprattutto quelle energivore, che poi sono quelle che forniscono i materiali per la trasformazione degli altri prodotti. Un esempio esplicativo è quello delle vetrerie che devono mantenere accesi i forni e il cui vetro serve per praticamente di tutto, dalle bottiglie per il vino ai barattoli per la conserva. Infine, ad annunciare che il canarino in miniera è prossimo alla morte, si è aggiunta anche l’agenzia di rating Fitch, la quale stima che con un flusso di gas russo pari al 20% (sempre miglior scenario) si avrà un effetto negativo sul Pil tedesco pari al 3% e su quello italiano del 2,5%.

Che cosa succederà nei prossimi mesi?

Chi ha ragione? Lo si vedrà solo col tempo, ma due sono gli aspetti che devono far riflettere. Il primo, come ha ammesso la stessa Lagarde, è che la Bce ha sbagliato le proprie valutazioni circa l’impatto del Covid e della guerra in Ucraina sull’inflazione. Come riportato dall’agenzia Ansa, Lagarde ha affermato che “Abbiamo fatto degli errori nelle previsioni sull’inflazione, come tutte le istituzioni internazionali, come molti economisti, perché è virtualmente impossibile prevedere e includere nei modelli il Covid, la guerra in Ucraina, il ricatto sull’energia. Me ne assumo la colpa perché sono il capo dell’istituzione; aggiungendo poi, “Abbiamo fatto errori, abbiamo capito le cause, e vi posso assicurare che lo staff aggiorna costantemente, integra quello che finora non era stato preso in considerazione”.

Il secondo, invece, riguarda il fatto che la moneta (l’euro) e il mercato (Ttf) restano preminenti rispetto alla crescita. L’euro continua infatti a oscillare sulla parità col dollaro e in questi ultimi tempi è sceso addirittura sotto. I motivi sono tanti: crisi ucraina, crisi energetica, tassi d’interesse ancora bassi. E se da un lato una moneta debole permette di agevolare le esportazioni, dall’altro il rovescio della medaglia è presto detto: l’import subisce un colpo molto forte. E se il mercato (Ttf) dove il gas viene scambiato rimane a livelli estremi, il risultato di questa addizione è presto detta. D’altra parte, per apprezzare la moneta (anche se si ricorda che non fa parte degli obiettivi della BCE) occorre aumentare i tassi, come ha fatto Francoforte l’altro giorno per bloccare l’inflazione. Ma come si sa, un aumento dei tassi significa costo del denaro più alto, mutui più cari, rischio paralisi economica. La via è stretta, non vi è dubbio. Ma sta alla politica fiscale, non a quella monetaria, trovare una soluzione efficace per edulcorare l’impatto economico della crisi.

A conti fatti l’accoppiata tra questi due elementi (poiltiche monetarie e modelli previsionali) rischia di complicare ulteriormente la situazione dei ceti meno abbienti, soprattutto se accompagnata dalla cecità nei confronti della lettura geopolitica del momento storico. D’altronde, come sostengono da mesi Fabbri e Caracciolo, il popolo russo vive di gloria immateriale: se il blocco del gas si renderà strategico non ci sarà valutazione economica e/o razionale che possa impedire alla Russia di continuare la sua azione di stop all’occidente.

Difficile sapere come andrà a finire ed ancor più difficile è sapere quando la crisi potrà finire. L’Europa ha di fatto scelto una via etica di grande valore: sanzionare la Russia per aver invaso uno Stato straniero. Ma gli stati europei saranno altrettanto pronti a scontare una crisi economica quasi inevitabile per i loro ideali?

Di Claudio Dolci e Roberto Biondini

E’ guerra delle Valute

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Che cosa sta succedendo all’economia Russa? In principio, dopo il blocco dello SWIFT, il congelamento delle riserve in valuta estera e il crollo del rublo, sembrava imminente il default economico, ma poi l’Orso ha reagito con una zampata; dapprima alzando i tassi d’interesse della banca centrale, sino al 20%, e successivamente obbligando i Paesi Occidentali ad aprire conti per la conversione degli euro in rubli presso Gazprom Bank. E in questo modo, tra mosse e contromosse artificiali, si è consumato un conflitto economico che pare ora prossimo all’epilogo, con l’avvicinarsi di un default che di reale non ha nulla, ma i cui effetti avranno modo di propagarsi ben oltre i confini russi.

La forza del dollaro

Le armi economiche sono da sempre parte dell’arsenale tattico americano, da quando cioè gli Stati Uniti si sono imposti non solo come guardiani dell’ordine globale, ma anche come possessori dell’unica moneta in grado di dettar legge nel mondo economico. Ciò fu dapprima possibile grazie al golden standard (1922), un sistema che consentiva la convertibilità del dollaro con l’oro, e poi, dal 1981, grazie a una politica monetaria molto stringente imposta da Regan e Volcker. Come scrive Luca Fantacci, su Ispi, “l’attuale paradossale versione dell’egemonia monetaria, in cui la moneta chiave (il dollaro) è tanto più forte (in termini di diffusione globale) quanto più debole (in termini di competitività) è l’economia dell’emittente: in effetti, l’accumulazione di riserve in dollari in tutto il mondo è semplicemente il riflesso dei deficit di bilancia dei pagamenti americani. Questa peculiarità del biglietto verde per eccellenza, lo ha reso la moneta più utilizzata per gli scambi commerciali internazionali (dove occupa il 40% dei pagamenti tra Paesi) e come punto di riferimento sia per il mercato, sia per l’apprezzamento delle altre valute di riserva (come l’euro, la sterlina, lo Yen e i Renminbi). Non è quindi inusuale la presenza di ingenti quantità di dollari nella quota di valuta estera detenuta dagli Stati, come nel caso della Russia, né l’utilizzo della stessa come moneta per il rimborso delle cedole sui Bond. Sempre gli Stati Uniti, oltre alla moneta, hanno da sempre usato mezzi di pressione economica per destabilizzare economie di Paesi avversi, dal celebre embargo su Cuba agli 8,9 mld versati nel 2014 da Bnp Paribas, sanzionata dall’Ofac (Office of Foreing Assets Control), per aver fatto operazioni non consentite con Sudan, Iran e altri Paesi ritenuti ostili da parte di Washington. Di fatto esisteva una black list e un modus operandi a modi “bando” ben prima dell’attuale guerra in Ucraina, anche se questa volta ci sono almeno un paio di peculiarità degne di nota.

La guerra dei numeri

La prima è che la Russia rischia di finire in default non per incapienza o diniego nei confronti del contratto, ma perché non può materialmente adempiere al contratto, a differenza di quanto accaduto in Argentina e in Pakistan. Fino al 24 maggio, infatti, era in vigore una licenza, la 9A, che consentiva alla Russia di pagare i propri debiti in valuta esterna, ma il suo mancato rinnovo fissa oggi la data del default russo al 23-24 giugno, quando andranno in scadenza le prossime cedole. Se quindi il ministero delle finanze moscovita non dovesse riuscire a scoprire metodi alternativi per saldare i propri contratti esteri, ecco che scatterebbe l’avvio della procedura per il default, con altri 30 giorni di vita prima della definitiva messa al bando economico, sancito dall’attivazione dei Credit default swaps (già aumentati dell’85% su base settimanale).

Tuttavia, alla bancarotta russa mancherebbero quei presupposti di base che si verificarono col caso argentino. Il rublo, infatti, grazie ai continui flussi di denaro europeo (quasi un miliardo al giorno) e agli obblighi di conversione della valuta estera, aveva raggiunto il suo valore massimo degli ultimi 4 anni, per poi perdere terreno in questi giorni (a seguito del taglio degli interesse da parte della banca centrale russa, oggi scesi dal 20% all’11%). Un balzo, quello del rublo, talmente forte da imporre continue revisioni nei confronti della strategia manipolatoria adottata dalla banca centrale russa. D’altronde, nessuno vuole più i rubli e quindi l’aumento improvvido della domanda interna è un risultato del tutto artificiale, frutto dell’obbligo, per qualunque soggetto russo che tratti valuta estera, di convertirla immediatamente. Una mossa questa, che di recente ha subito un brusco dietrofront da parte della banca centrale russa stessa, che ha passato la quota di valuta da convertire in rubli dall’80% al 50%. La ragione di questa mossa è molto semplice, il rapporto tra import ed export ha creato un forte avanzo commerciale, la russa esporta materie prime ma non importa più quasi nulla; e tutto ciò non è un bene, soprattutto per un Paese che vive di esportazioni verso l’esterno, da qui la necessità di rallentare l’apprezzamento del rublo sull’euro e sul dollaro. Nei fatti però, al netto delle mosse e contromosse per compensare l’effetto delle sanzioni, l’economia russa non gode di buona salute. Il Pil, ad esempio, è già dato in caduta libera con una forchetta che oscilla tra un meno 8/10% (e solo per il 2022), mentre l’inflazione è scesa solo di qualche decimo di punto, dal 17,8 al 17,5%, restando comunque talmente alta da obbligare Putin stesso ad aumentare 10% le pensioni e il salario minimo; lasciando così intendere che l’aumento dei prezzi non calerà tanto velocemente.

In breve, è vero, la caduta dell’economia russa è frutto delle sanzioni, le quali (nonostante il continuo approvvigionamento di soldi da parte dei Paesi dell’Ue) stanno colpendo duramente Mosca. Tuttavia, vi è dell’artificio sia nel venturo default tecnico, sia nelle mosse volte a scongiurare questo epilogo. Di fatto, Russia e Stati Uniti stanno partecipando e barando allo stesso gioco e con analoghi strumenti. Da una parte si sta sostenendo la moneta domestica, il rublo, con artifici di ogni sorta, da obblighi a conti correnti paralleli, mentre dall’altra parte si dichiara un default quando lo Stato debitore, in questo caso la Russia, sarebbe disposta a pagare quanto dovuto, ma semplicemente non può. Si arriva così alla seconda peculiarità di questo duello ambientato sullo scacchiere economico internazionale, ed è il rischio che a perdere siano entrambi i contendenti, anche se per ragioni differenti.

Le conseguenze

Non è necessario essere degli indovini per capire che il contraccolpo più pesante di questa guerra economica sarà assorbito dalla Russia, come testimonia il direttore del dipartimento di Ricerca e previsione della banca centrale russa stessa, Alexander Morozov, il cui intervento è stato riportato in versione integrale da Il Foglio. Lo choc dal lato dell’offerta sarà, secondo Morozov, paragonabile a quello della recessione degli anni ’90, tranne per il fatto che serviranno più anni per riprendersi. E ciò è dovuto al fatto che i comparti ad alta innovazione tecnologica necessitano di componenti di provenienza estera, i quali sarà molto difficile, se non impossibile, sostituire, rallentando così efficienza e produttività. D’altronde, com’è stato anche per l’embargo su Cuba, il rischio è che la Russia debba regredire o nel caso migliore accontentarsi di standard tecnologici più bassi rispetto a quelli attuali e pre-invasione dell’Ucraina. Per Morozov, inoltre, “si prevede che il declino della trasformazione tecnologica dell’economia russa continuerà in questa fase, con l’invecchiamento delle strutture materiali e tecniche e la loro sostituzione con prodotti sostitutivi meno produttivi”. Nei fatti, i russi non torneranno a guidare le Lada, ma poco ci mancherà (almeno sul piano tecnologico). Sul piano internazionale, invece, il default peggiorerà ulteriormente la reputazione di Mosca, rendendo ancor più difficile l’accesso a capitali per finanziare il proprio debito. Certo, siano a quando la Russia potrà contare sui miliardi che i Paesi dell’Ue le inviano ogni giorno per gas e petrolio, l’accesso ad ulteriore credito potrebbe non servire, ma il sesto pacchetto di sanzioni potrebbe vedere la luce nelle prossime settimane rendendo imminente un cambio di strategia per il Cremlino.

Sul versante europeo, invece, il default russo potrebbe avere delle conseguenze non trascurabili, anzi. In un articolo uscito su Domani, a firma di Vittorio da Rold, viene illustrato come il debito mondiale abbia ormai raggiunto livelli preoccupati, con un importo complessivo pari a 303 mila miliardi di dollari e di come un default russo potrebbe innescare un effetto panico sui mercati di tutto il mondo. Come riportato da Rold Gopinath (numero due del Fondo Monetario Internazionale) il quale afferma che l’eventuale default russo avrebbe conseguenze soprattutto in Europa e ha nominato l’Austria e l’Italia come le più esposte alla Russia dei paesi europei. Il ministro dell’Economia Franco ha però rassicurato sul fatto che l’Italia risulta esposta con la Russia solo per 8 mld di euro, ma il commento di Gopinath era riferito soprattutto all’alto debito del nostro Paese, il quale potrebbe subire più di altri le turbolenze di un mercato irrequieto. Occorre inoltre considerare che diversi istituti di credito italiano sono esposti ben di più rispetto ai valori dichiarati dal ministro Franco. La Stampa, a marzo, riportava un’esposizione complessiva pari a 25 mld di euro di crediti elargiti dal settore bancario italiano verso la Russia e il 27 maggio, Milano Finanza, quantificava a 7,5 i mld concessi a Mosca dalla sola Unicredit.

Oltre allo choc immediato sulla finanza russa e su quella europea, non è poi da escludersi che l’arma economica impiegata dagli Usa non possa nuocere anche al dollaro stesso. Sono in molti, infatti, a ritenere che dopo questa entrata a gamba tesa sulla solvibilità dei conti di un Paese straniero possa andarsi affermando un sistema non più dollaro-centrico, magari sostituito dai renminbi. Ad oggi è solo uno scenario ipotetico, ma la Cina si è già mossa nella creazione di un sistema di pagamento internazionale sganciato dallo SWIFT e lo Yuan digitale è già una realtà, a differenza delle valute Occidentali, senza considerare poi che una gran parte del mondo ha votato contro la risoluzione che condannava la Russia per l’invasione dell’Ucraina.

L’Occidente è oggi in grado di vincere la guerra economica contro la Russia, ma non sarà a costo zero e potrebbe rivelarsi, soprattutto nel lungo periodo, un boomerang. D’altronde l’attuale domanda interna di combustibili fossili sta venendo rimpiazzata con fornitori dal pedigree non meno autocratico rispetto a quello russo e non è chiara quale sia la politica estera intrapresa dell’Europea…

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

Le banche centrali sono davvero indipendenti dalla politica?

Fed, Bce e Banca Centrale Russa a confronto: come stanno reagendo agli shock esogeni del momento

5 min di lettura

Nel 2004 il linguista statunitense George Lakoff, per anni docente all’Università di Berkeley, scrisse un saggio dal titolo “Don’t think of an elephant” svelando al grande pubblico ciò che per anni i cognitivisti hanno sostenuto con le loro ricerche, ovvero che le parole strutturano il nostro pensiero, i problemi che affrontiamo e le soluzioni a nostra disposizione. A prima vista potrebbe sembrare una scoperta di poco conto, ma le sue implicazioni possono aiutarci a comprendere l’attuale fenomeno inflazionistico e soprattutto il frame decisionale nel quale si stanno muovendo tre grandi banche centrali: quella americana, quella russa e infine quella europea.

Al post pandemia e i suoi colli di bottiglia si aggiunge ora il conflitto russo-ucraino

Ad oggi ogni istituzione centrale è costretta a dover fronteggiare più fonti di destabilizzazione (o stressor) di natura esogena, come ad esempio la crisi innescata dalla pandemia, che ha dapprima immobilizzato il motore della globalizzazione, facendo crollare la domanda (con i lockdown), per poi ridimensionare l’offerta (attraverso i famosi colli di bottiglia) e infine ha paralizzato le strategie di spesa dei singoli governi e di conseguenza l’azione delle banche centrali. Le quali, dal canto loro, erano già impegnate nel consolidare la ripresa successiva alla Grande Recessione e l’emergenza climatica; che da Parigi in poi, ha subito diverse battute d’arresto, sfociando nell’impegno mondiale di Glasgow e nella rimodulazione dei fondi del Next Generation EU per una transizione energetica. Occorre infatti ricordare che l’aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto quelle legate a fonti energetiche meno inquinanti (si fa per dire), come il gas, è stata innescata anche da una crescente domanda, la quale ha coinvolto non soltanto l’Occidente, ma anche la fabbrica del mondo, ovvero la Cina. A tali variabili (pressoché tutte esogene) si è ora aggiunta la crisi geopolitica (ennesima influenza esterna), che trova indubbiamente nel conflitto tra Russia e Ucraina il suo sintomo più manifesto, ma che in realtà era già ben presente da tempo. Un esempio? La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, la corsa alle terre rare in Africa (con la conseguente lottizzazione neo-imperialista di quel continente) ed ovviamente il conflitto Cina-Taiwan-Usa e quello in corso in Medio Oriente per rallentare l’ascesa dell’Iran in qualità di potenza nucleare.

Ognuna di queste variabili ha accresciuto l’impatto economico di quelle che l’hanno preceduta modificando l’agenda dei governi e delle banche centrali più e più volte, sino a determinare l’attuale situazione, nella quale è difficile abbandonare la strategia in corso per abbracciare quella più utile alla situazione corrente. E qui subentra il primo problema. Le banche centrali, infatti, e così dovrebbero fare anche i dicasteri preposti alla gestione economica, non ragionano in termini di emergenze (o come in questo caso, di Cigni neri), ma svolgono perlopiù un’attività di pianificazione affinché la crescita prosegua e con essa l’occupazione, il benessere e gli investimenti: tutto in linea cone le aspettative degli attori del mercato. Certo, oltre a questo le banche centrali assolvono anche la funzione di reset dell’economia nei confronti dei grandi stravolgimenti esogeni, ma c’è un limite oltre il quale la bussola che orienta le decisioni dei banchieri centrali non indica più il nord, né il sud, e l’unica cosa che pare sensata fare è navigare a vista, ed ogni comandante lo fa a suo modo, così come sta accadendo ora.

L’america dell’austerity: come ne uscì e che cosa ci insegna oggi

Ad esempio, nel 1980 l’economia americana dovette affrontare un’inflazione a doppia cifra, pari al 14,2% (contro i 7,6% attuali) e l’allora governatore, Adolph Volcker Jr, sotto l’amministrazione Carter, trovò il modo di stabilizzarla adottando strategie da guerriglia mista, in parte previste dagli strumenti convenzionali e in parte così forti da imporre una destabilizzazione nella mente degli operatori del mercato (come fece Draghi col bazooka del Quantitative easing). Di fatto Volcker fece ciò che è necessario per spegnere un incendio in un pozzo di petrolio, usare la dinamite e bruciare così l’ossigeno necessario alle fiamme per alimentarsi. Una mossa apparentemente controintuitiva, ma necessaria a modificare radicalmente le aspettative. Così, nel 1981 i tassi sui titoli del tesoro raggiunsero il 22,4%, quindi 13 punti in più rispetto al ’79, e il messaggio di Volcker fu, come riportato da Franco Bruni su Domani, “la gente doveva capire e credere solo che la politica monetaria avrebbe piegato l’inflazione, indipendentemente dal rialzo dai tassi che la contrazione della liquidità avrebbe causato”. Tradotto, la Fed avrebbe fatto tutto il possibile e persino l’impensabile per modificare le aspettative dei mercati, gettando un candelotto di dinamite là dove era scoppiato l’incendio. Magari un piano folle, ma funzionò. Oggi, invece, Powell sta sì aumentando i tassi, ma attraverso un intervento più cauto rispetto a quello adottato da Volcker, il cui esito è ancora tutto da verificare.

La banca centrale russa alla prova della guerra

Chi invece sta seguendo la strategia dell’ex-banchiere della Fed Volcker, è Elvira Nabiullina, che per salvare l’economia russa e il rublo dal default ha dapprima alzato i tassi del 20% e poi giocato per anni a una politica che per i governi italiani è pura fantascienza: ridurre il debito. Con un economia che si regge quasi unicamente sulle materie prime, quindi improntata all’export, Nabiullina ha fatto di tutto per mantenere in ordine i conti che Putin ereditò dal disastro compiuto da El’cin, bilanciando le spese e le manovre espansive in modo da ottenere una crescita modesta dell’economia, invece di premere sull’acceleratore a suon di debito (come invece ha fatto l’Italia per quasi trent’anni). In questo modo il rublo è stato lasciato libero di fluttuare, com’è tuttora, basando le spese sull’ingente ingresso di valuta estera, utili sia a stabilizzare i conti pubblici, sia ad acquistare prodotti d’importazione. La banca centrale russa (CBR, Central Bank of Russia) ha evitato di creare debito persino di fronte alla sciagura pandemica, continuando verso la via dell’austerità, conscia del fatto che il mondo avrebbe sempre avuto bisogno di gas e petrolio, pagato a suon di dollari ed euro. Ed anche oggi, nonostante sia evidente la spinta imperialista di Putin, che nulla ha a che vedere con la politica monetaria adottata dalla banca centrale russa negli ultimi 9 anni, il rublo sta, seppur faticosamente reggendo, anche se con molte incognite. La borsa russa è solo parzialmente riaperta (dopo la chiusura all’indomani della guerra), le riserve in valuta estera sono ancora perlopiù bloccate (eccezion fatta per i capitali in ingresso e l’oro) e l’inflazione a febbraio ha toccato il 9,2% ed è probabile, vista la corsa ad accaparrarsi i generi d’importazione, che sia destinata a crescere. Tuttavia, la strategia adottata da Nabiullina ha retto l’impatto e il rublo, come riporta Fubini sul Corriere, ha subito perso un 42%, all’indomani dell’invasione in Ucraina, per poi riacquisire il 32% del proprio valore; ed inoltre, l’attuale mossa di Putin, che obbliga ad acquistare le materie prime in rubli, potrebbe stemperare ancor di più quelle sanzioni che volevano affossare l’economia russa. In questo caso si tratta di riscrivere contratti già siglati e i Paesi europei più dipendenti dal gas e petrolio russo hanno già fatto sapere che non intendono accettare le nuove condizioni, ma il solo fatto di aver annunciato (perché è di questo che si tratta) un cambio della valuta ha fatto risalire il rublo di un +6%.

La bce e il controllo dell’inflazione dopo anni di politica espansiva

E la Bce invece? In Europa regna ancora una strategia attendista. Ma come mai si è scelto di tergiversare? Una prima risposta la fornisce Giorgio Arfaras sul Il Foglio, ricordando come “se la maggior inflazione fosse frutto degli andamenti dell’offerta (i prezzi delle materie prime che salgono e dei colli di bottiglia nel campo della tecnologia e dei trasporti) allora un rialzo dei tassi servirebbe a poco, anzi rischierebbe di frenare la ripresa che stava prendendo forza dopo la pandemia. Se per il timore di sbagliare, perché l’inflazione è da offerta e non da domanda, le banche centrali non facessero nulla, o molto poco, e quindi l’inflazione si mantenesse elevata nel tempo, si potrebbe avere lo stesso un forte impatto negativo sulla crescita, nel caso comparisse, come negli anni Settanta, la ricorsa fra prezzi e salari”. Arfaras invita quindi tutti a non confondere le mele con le pere, ovvero ad evitare analogie tra le risposte della Fed e la Bce. In breve, è possibile che l’inflazione a stelle e strisce sia trainata perlopiù dalla crescita della domanda (che è un bene, perché segno di un boom post-pandemico), mentre quella europea sia ancora sospinta dalle carenze del lato dell’offerta (e questo è un male). Come ha ricordato Fabio Panetta, membro del consiglio direttivo della Bce, si differenziano tre tipologie d’inflazione, quella cattiva – frutto di uno schock dell’offerta, come nel caso dei colli di bottiglia –, quella buona – dettata da un aumento della domanda, dell’occupazione e della produzione –, ed infine quella brutta – che quindi persiste nel tempo –, ed in Europa ora c’è quella cattiva. Che fare dunque?

Una prima risposta potrebbe essere quella di allinearsi alla politica della Fed, alzando quindi i tassi, ma così facendo c’è il serio rischio di compromettere la crescita non ancora consolidata; occorrerebbe perciò proseguire con una politica fiscale espansiva, come suggerito dall’economista Paolo Trezzi, così da attenuare gli effetti negativi per famiglie e imprese (quindi altro debito comune). Tuttavia, per fare ciò diventa necessario un accordo tra i 27 e questo al momento non c’è. L’Ue sta proseguendo l’ormai collaudatissima strategia di frammentazione che riguarda già sia la difesa (dove si stanno sperperando risorse in barba a qualsiasi economia di scala e di raggio d’azione), sia il fronte energetico, dove non si è ancora trovato un accordo (anche perché gli aumenti stanno colpendo principalmente Italia, Germania e quasi tutti i Paesi di Visegrad). Senza considerare poi che sul famoso fiscal compact aleggiano ancora le nubi dell’incertezza, mentre sul Pepp (il piano d’acquisto europeo) il dado è ormai tratto, terminerà a fine mese. Ed è in questo mare di contraddizioni e non azioni che si consuma il dramma della Bce, perché sottostima i rischi, tra cui quello di una possibile stagflazione, e non rende chiare le sue decisioni ai mercati e forse anche a sé stessa: e questo è un errore che una banca centrale non può permettersi.

In Russia, ad esempio, è la politica a guidare le decisioni della banca centrale, mentre negli States, salvo rare eccezioni (com’è accaduto durante la Grande Recessione) è l’indipendenza a guidare la Fed, anche perché il dollaro funge da moneta di riferimento per il sistema economico. In Europa, invece, esiste una moneta unica, ma non c’è un istituzione bancaria né davvero indipendente dalla politica (stile Fed), né succube di quest’ultima (com’è in Russia) e i dati a favore di questa tesi sono due. Il primo riguarda l’attuale Presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, più volte accusato dai falchi dei Paesi frugali di avvantaggiare gli interessi del Bel Paese, ed oggi alla sua guida. Un caso, quello di Draghi, che rischia di ripetersi con Lagarde, visto le indiscrezioni riportate da La Repubblica circa un possibile ingresso dell’attuale numero uno della Bce nel venturo governo Macron, in qualità di Primo ministro. Se ciò dovesse verificarsi, si tratterebbe dell’ennesimo caso di revolving doors inopportuno, nonché smaccato nei confronti di ruoli e carriere che dovrebbero restare scissi. Tuttavia, la Bce non è neppure succube della volontà politica com’è la CBR in Russia, dove Nabiullina non ha neppure potuto dare le proprie dimissioni. Si assiste quindi a una sorta di vuoto decisionale in seno alla Bce, la quale rincorre l’agire di chi ha più potere decisionale (ed economico) nella zona Ue, senza imporsi davvero come un’entità super partes. Ed è per questo che oggi Lagarde appare come bloccata in uno stallo strategico, che grazie a Lakoff e la sua intuizione acquista un senso.

Sia la Fed, sia la CBR, infatti, si muovono nel tentativo di creare aspettative, di far coincidere i loro pensieri con quelli degli investitori, affinché siano quest’ultimi, con le loro azioni, a realizzare vere e proprie profezie che si autoavverano. D’altronde, se gli investitori credono che l’inflazione sia transitoria essa lo diverrà, ed è così per tutto ciò che le banche centrali riescono a generare con le loro dichiarazioni e la credibilità di cui dispongono. L’economista Tommaso Monacelli ha ricordato, in un articolo su il Foglio, come “non esistono un’inflazione transitoria e una permanente, l’inflazione è unica e può diventare transitoria in base alle scelte di politica monetaria che orientano le scelte di consumatori e investitori”. Ed è questa la cornice decisionale nella quale si muovono da sempre i banchieri e i mercati, ma soprattutto le varie teorie macroeconomiche: tutto ruota attorno alle aspettative, un concetto che in Europa non sembra aver presa. La Bce, infatti, è priva di una voce univoca e forte e per questo la sua capacità di creare delle aspettative credibili è debole e spesso contradditoria. Il problema, come ha sottolineato Tommaso Monacelli, è che la politica monetaria “è un misto tra scienza ed arte” ed forse il caso che Lagarde rifletta su ciò, perché con le sue parole, e l’assenza di una strategia di medio periodo, rischia di affossare l’intera zona Ue e non più solo le cicale del Sud: perché in ambito macroeconomico le parole hanno il potere di modificare la realtà più di quanto possa fare l’oro contenuto in un caveau.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini