Grande Recessione, globalizzazione e politica monetaria: perché c’è chi contesta l’innalzamento dei tassi d’interesse?

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Gli scandali del mondo finanziario sembrano voler riportare le lancette del tempo alla Grande Recessione, quando – a cavallo tra il 2007 e il 2008 – la bolla dei mutui subprime travolse l’economia americana e negli anni successi – con la crisi del debito sovrano europeo (2010-2011) – l’Europa. Oggi a far salire la febbre sono i fondi pensione inglesi, la speculazione sulle Crypto e sul settore tecnologico (dove l’indice Nasdaq sta scivolando verso il basso), ma soprattutto la difficoltà nel frenare l’inflazione in un contesto geopolitico scosso dalla guerra in Ucraina e lo spettro dell’atomica. Di fronte a questo avvenire tumultuoso si è scelto di attribuire il Nobel dell’Economia (con tutti i distinguo del caso) a Bernanke, Diamond e Dybvig, invitando così gli analisti e il mercato a una riflessione sul proprio agire e sulle possibili conseguenze che le loro azioni stanno avendo sul presente. Dalla stretta delle banche centrali alle speculazioni sui mercati a spot, tutto lascia intendere che la lezione che avremmo dovuto apprendere dalle recenti crisi non è servita a granché, anzi, forse ha solo dato l’illusione che tutto sia concesso.

La Grande Recessione e la lezione che nessuno vuole imparare.

La bolla da cui scaturì la crisi dei mutui subprime fu un amalgama di avidità, di omertà e di opportunismo che lasciò un segno indelebile nella fiducia dei risparmiatori. Ed oggi è importante ripartire proprio da quel contesto per capire la mitizzazione dell’incoscienza, divenuta all’epoca driver principale dell’agire degli operatori del mercato, e le contromosse messe in campo da Bernanke, Diamond e Dybvig.

All’inizio degli anni 2000, superata la bolla del Dotcom, il mondo si apprestava a cogliere i primi frutti della globalizzazione, ovvero, un minor costo d’importazione delle merci (prodotte perlopiù in Paesi in via di sviluppo) dovuto a minori costi di produzione, e una maggiore efficienza, il tutto accompagnato poi da tassi d’interesse bassi.

Interest rate history Fed (Credit)

In quegli anni la Fed, infatti, scelse di mantenere bassi i tassi d’interesse per due ragioni ufficiali, la prima per riemergere più velocemente dalla bolla del Dotcom e la seconda per dare una risposta reattiva di fronte agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Si potrebbe aggiungere che la politica monetaria espansiva fu anche dovuta all’apprezzamento che il dollaro stava subendo in quel periodo grazie agli acquisti di moneta da parte della Cina e che quindi la Fed dovesse abbassare i tassi per evitare che la valuta diventasse troppo forte. E tutto ciò, come riportato dalla Consob, non fece altro che stimolare la cessione di denaro senza se e senza ma per investirlo in forme d’investimento con rendimenti maggiori: questo è il mercato. Mantenere parcheggiato il denaro in titoli di Stato e obbligazioni dalla bassa remunerazione non aveva senso; quindi, si iniziarono a cedere crediti a persone senza garanzie e in cerca di case, in un contesto – quello del mercato immobiliare americano – che all’epoca era in forte ascesa (la tipica bolla). L’aspetto interessante della Grande Recessione è che essa non sarebbe stata tale senza l’aiuto di qualche apprendista stregone che per mezzo degli strumenti di cartolarizzazione più avanzati (C.D.O – Collateralised Debt Obligations) e della compiacenza delle agenzie di Rating ha potuto gonfiato la bolla immobiliare a più non posso. La quantità di denaro in circolazione era ingente anche per via dell’utilizzo della leva finanziaria, resa possibile dalla cartolarizzazione immediata di prestiti che sarebbero dovuti rientrare in 10-30 anni, la quale ha permesso alle banche di esporsi per cifre ben superiori rispetto al proprio capitale, inducendo così molti a dubitare del concetto stesso di solvenza.

Gli istituti di credito permettono l’incontro di un particolare tipo di domanda e di offerta. Da una parte ci sono i risparmiatori che voglio mettere al riparo i propri averi (di cui però vogliono anche la disponibilità immediata alla bisogna) e dall’altra ci sono coloro che necessitano di ingenti somme (imprenditori e chiunque voglia fare investimenti sul lungo periodo di cui non ha i capitali – ad esempio per un mutuo). In mezzo ci sono gli istituti di credito che a fronte di un tornaconto (gli interessi) gestiscono la liquidità in modo tale che entrambe le parti abbiano ciò che desiderano.

Prima e durante la crisi dei mutui subprime le banche si affidavano all’interscambio bancario per gestire le garanzie sulle posizioni aperte dagli investitori e le necessità dei correntisti, mantenendo sempre a mente che ciò che conta è essere solventi (ovvero detenere in pancia più crediti rispetto ai debiti, pur non avendo necessariamente i soldi dei correntisti nella propria pancia). Riducendo all’osso il meccanismo, tutto si regge sulla fiducia che i correntisti non si incolonnino tutti insieme agli sportelli per ritirare i propri soldi (come invece avvenne nella Grande Depressione – Crisi del ’29) e che gli investimenti non siano un buco nell’acqua (come invece accadde durante la crisi dei mutui subprime). Il crollo delle cartolarizzazioni dei CDO e di altri strumenti sintetici privi di garanzia determinò, tra il 2007 e il 2008, la perdita di fiducia tra gli istituti di credito e l’arresto del prestito interbancario (come poi capitò di nuovo nel 2011 con la crisi del debito sovrano). In altre parole, le banche non si prestano denaro se temono l’insolvenza di chi glielo chiede, e fu proprio quello che capitò a Lehman & Brothers.

La banca d’investimento americana, passata alla storia come il simbolo della crisi dei mutui subprime, nell’agosto del 2008 dichiarava a bilancio 28 miliardi di dollari, ma il suo sistema di finanziamento era insostenibile. Come scisse Walter Galbiati su Repubblica, “Ciò che rendeva Lehman Brothers più inaffidabile delle altre erano i suoi investimenti immobiliari e il modo con cui si finanziava: 7,9 miliardi di “pagherò” non garantiti e, quasi 200 miliardi (197 miliardi) di pronti contro termine, i “Repo”, alla fine del primo trimestre 2008”. L’aspetto più interessante di queste operazioni era il fatto che le società di revisione contabile, tra cui Ernest & Young (tra le Big Four) non esplicitò mai la natura di tali transazioni e la pericolosità ad esse associata. Quando Lehman fallì, la Fed dovette intervenire con oltre 700 mld di dollari per evitare l’effetto contagio, dopo aver però scelto di far naufragare un istituto di credito ritenuto, sino ad allora, too big to fail. Sul perché della decisione della Fed vi furono più e più versioni, lo stesso Bernanke cambiò versione almeno due volte. Alla commissione d’inchiesta spiegò che riteneva cosa nota l’esposizione di Lehman e che quindi i risparmiatori di altri istituti si fossero già liberati dei titoli tossici, successivamente, invece, diede la responsabilità a cause di natura tecnico-legale. Ed è qui, sui perché che la crisi dei mutui subprime si riaggancia al presente.

Perché Bernanke, Diamond e Dybvig hanno vinto il premio Nobel per l’Economia

Diamond e Dybvig hanno di fatto reso evidente l’estensione del meccanismo tra domanda ed offerta di denaro al di là dei soli istituti di credito più citati (ovvero le banche), perché esiste lo shadow banking e i Repo; ed hanno imposto l’unica strategia razionale da attuare di fronte a una corsa agli sportelli: keep calm and whatever it takes. L’esatto opposto di quello che avvenne nel ’29 e di ciò che prescrisse a suo tempo Milton Friedman. Il problema dell’approccio di Diamond e Dybvig, però, come suggerito dal premio Nobel per l’Economa Paul Krugman – dalle colonne del New York Times – è che soccorre le banche privante con i soldi degli istituti di credito centrali può portare ad un abuso, il famoso azzardo morale. Tradotto, se so che andando a sbattere non mi farò nulla, perché non farlo? Ed è su questa domanda che si aprono i problemi che coinvolgono il presente.

Al di là della letteratura, infatti, resta la difficoltà nel controllare e gestire efficacemente i problemi del presente, come sta avvenendo adesso con l’inflazione e i fondi pensione inglesi: due casi che spiegano perché alcune politiche monetarie possano fungere non solo da cura, ma anche da potenziale minaccia alla salute stessa.

I tassi d’interesse bassi, ad esempio, sono efficaci nel far ripartire la domanda, ma possono nascondere diverse insidie. Una di esse, come riportato da John Plender sul Financial Times, è che mantenere i tassi bassi possa, da una parte, attenuare – com’è di fatto avvenuto prima della Grande Recessione – gli effetti di una delocalizzazione della produzione in Paesi più poveri e una conseguente riduzione della domanda interna e di investimenti nei Paesi più avanzati. Ma dall’altra possa facilitare l’accesso al credito spingendo il comparto degli investimenti azzardati, come riportato da Franco Bruni – vice direttore dell’Ispi – che ha scritto “il guaio di tassi troppo bassi e sovrabbondante liquidità è anche quello di indurre gli operatori a investimenti con produttività media bassa e spesso molto rischiosi: un uso inefficiente delle risorse, peggiorato dalla facilitazione degli indebitamenti dei governi che ora non sarà facile sostenere”. Ed effettivamente, dai grafici sull’inflazione nella zona euro, emerge come gli obiettivi di post-Volckeriana memoria non sia stati raggiunti (almeno il più delle volte – il famoso 2%), mentre sia aumentato l’utilizzo di strumenti finanziari opachi e pericolosi, soprattutto durante la pandemia.

Tale quadro è sì pericoloso, ma non disastroso e ciò che rende il presente tumultuoso sono alcuni meccanismi che si pensava aver compreso e invece paiono ancora avvolti dalla nebbia. Si prendano ad esempio le misure della Fed in fatto di interessi. Paul Krugman era tra i promotori del piano ultra-espansivo di Joe Biden, salvo poi ammettere di essersi sbagliato e come lui tanti altri economisti che hanno sottovalutato il cambio di stile di vita che la pandemia ha indotto di moltissime persone. Ed è sempre Krugman, in due differenti editoriali, ad ammettere dapprima che il piano di Powell sulla stretta monetaria è già andato oltre i suoi obiettivi, innescando di fatto una recessione che c’è, anche se affetta da una sorta di jet-leg. In altre parole, ci vuole del tempo per vedere gli effetti di una stretta monetaria e continuare ad accanirsi sui tassi affinché l’inflazioni cali, così da giustificare il lassismo adottato prima che essa si palesasse (in tempo di tassi troppo bassi), risulta controproducente. Sempre Krugman, sottolinea poi come i modelli e gli indicatori adottati sino ad oggi per misurare l’inflazione abbiano ormai fatto il loro tempo: “Basically, simple rules for assessing where inflation is right now are broken. We’re in judgment territory — and that leaves lots of room for argument.”

Sul tema inflazionistico gli animi degli economisti sono divisi. Come racconta Andrea di Stefano in un articolo apparso sul mensile Millennium, esiste un nutrito gruppo di esperti che ritiene che quella in corso sia un’inflazione da profitto, ovvero un modo che hanno escogitato alcune società per incrementare i guadagni senza un giustificato aumento di altri indicatori (come ad esempio i costi). Ed a tal proposito, economisti del calibro di Piketty e Stiglitz continuano a insistere affinché si introduca una minimum tax globale al 25% sulle grandi aziende. Altrimenti il rischio è che il colpo assestato dall’incremento dei tassi delle banche centrali e la ventura recessione colpisca sempre i soliti noti, in un mondo, quello d’oggi, dove la disuguaglianza continua imperversare e per questo il ritorno alla parentesi sulla finanza malata è d’obbligo.

Mercati e istituzioni continuano a calciare più in là lattina

Il tessuto degli istituti di credito non si è ancora del tutto ripreso dalla Grande Recessione (come dimostra il caso MPS) e la situazione in cui versano importanti banche (tra di esse Credit Swiss e Deutsche Bank). Non c’è chiarezza sull’efficacia degli strumenti messi in campo per fronteggiare l’inflazione, come illustrato da Krugman, e la politica monetaria molto bassa per un periodo tempo così lungo ha incentivato investimenti rischiosi contro cui è stato fatto troppo poco per impedire effetti contagio sul mercato. In uno scenario così congeniato il crollo del Nasdaq e i timori che il Metaverso e altre iniziative delle big tech facciano un buco nell’acqua c’è e ci dice che la situazione potrebbe franare velocemente.

Ed è qui che l’attribuzione del premio Nobel per l’Economia acquisisce un senso. Bernanke, Diamond e Dybvig avevano già illustrato i rischi a cui si andava incontro dopo le crisi degli anni ’80 e 2000, ma poco è stato fatto e l’azzardo morale non è stato efficacemente frenato da nuove regole, anzi, una politica monetaria espansiva ha forse favorito gli appetiti degli speculatori. Ed oggi si ripropone di nuovo il problema che tolse il sonno ai banchieri centrali durante la crisi dei mutui subprime e successivamente in quella del debito sovrano: salvare i risparmiatori sapendo che gli speculatori la faranno franca, oppure lasciare che una si manifesti una depressione di dimensioni epocali per ripartire (chissà come e quando)? Nel mezzo si insinua la proposta di Piketty e Stiglitz, che però giace ancora senza eco tra i grandi del mondo.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

Il Price Cap e le divisioni europee

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Quella risposta pronta e coesa che l’Unione Europea aveva esibito di fronte alla pandemia lasciava intravedere degli spiragli per l’avvio di una nuova fase d’integrazione del Vecchio Continente. Ma l’attuale crisi energetica ha ampiamente infranto queste speranze riproponendoci la frammentazione e le divisioni che in passato hanno spesso caratterizzato l’agire dei ventisette.

La lentezza della burocrazia europea

Dopo oltre sei mesi dall’inizio del conflitto in Ucraina, infatti, non sembra esserci ancora nessun accordo in vista. Il vertice tenutosi qualche giorno fa a Praga tra i primi ministri dei Paesi Membri, non ha visto la formulazione di alcuna proposta concreta riguardo alla gestione dei prezzi del gas e dell’elettricità. Tutto ciò mentre su molte imprese e sulle famiglie con i redditi più bassi inizia a gravare il peso delle bollette. Il quale, almeno negli intenti dei promotori, doveva essere assorbito dal famigerato tetto al prezzo del gas, un’idea mesi fa fu avanzata e sostenuta con forza anche dal nostro ex-Presidente del Consiglio, Mario Draghi. Ma ad oggi che cosa si intenda esattamente con questa proposta non è chiaro, come non lo è il motivo per cui il price cap stia generando reazioni così diverse tra i vari Paesi.

Come funziona il mercato del gas in Ue e nel mondo

Per comprendere il meccanismo del price cap e le divisioni che ha suscitato, bisogna innanzitutto capire come funziona il mercato europeo del gas. Il gas arriva in Europa in due modi. Il primo è legato ai gasdotti internazionali, delle infrastrutture di trasporto fisse che vincolano attraverso contratti a lungo termine i Paesi fornitori e gli acquirenti (spesso entrambi rappresentati da società pubbliche – le utility). Il secondo è rappresentato dalle forniture via mare del gas naturale liquefatto (LNG), il quale viene rigassificato principalmente in Spagna e Inghilterra. Una particolarità dell’LNG è che può viaggiare ovunque e per questo il suo approvvigionamento è fortemente condizionato dall’incontro tra domanda e offerta, che assume perlopiù la forma della competizione tra l’Ue e i Paesi asiatici (grandi consumatori di questo prodotto). Infine, c’è un altro meccanismo che si è sviluppato nell’ultimo decennio e che negli ultimi mesi ha esposto il prezzo del gas a una maggiore volatilità. Si tratta dei mercati spot, dove i trader negoziano futures, operazioni fisiche e di cambio. I mercati spot si differenziano dai mercati a termine in quanto l’acquisto e la vendita dei beni vengono effettuati dietro pagamento immediato, invece che in differita. Non vi è pertanto differenza tra la data della transazione e quella del relativo saldo, motivo per cui il prezzo rappresenta il valore spot del bene in quell’esatto istante. L’esempio più celebre è sicuramente quello della Title Transfer Facility (TTF) olandese, le cui oscillazioni di prezzo hanno portato al record di 339 EUR/MWh dello scorso agosto.

Fonte: Trading economics

La situazione geopolitica causata dalla guerra Ucraina e il conseguente rialzo dei prezzi (già iniziato alla fine del 2021 per altre ragioni) hanno creato la necessità di politiche che ad oggi prefiggono due distinti obiettivi. In primo luogo quello di sostenere le categorie sociali e produttive dall’impatto dei prezzi (senza energia non c’è sviluppo e crescono le tensioni interne). Il secondo, connesso al primo, è quello di ridurre la dipendenza dal gas russo (e qui si può parlare di ragioni etiche e geopolitiche). Ma in che modo il prezzo al tetto del gas può concorrere a realizzare questi due propositi? E quali potrebbero essere gli effetti sul mercato?

La proposta e gli obiettivi del price cap: le proposte a confronto

Il price cap può essere genericamente definito come una regolamentazione economica che stabilisce un limite ai prezzi che possono essere addebitati da un fornitore di servizi pubblici. Se analizziamo il mercato europeo del gas più nello specifico, sono tre i modelli di tetto al prezzo che vengono attualmente discussi.

Il modello iberico, già attuato da Spagna e Portogallo, è quello che sembra riscuotere il maggior consenso tra i Paesi Membri. Consiste nell’applicare un tetto al prezzo del gas (e conseguentemente dell’elettricità) alle forniture pagate dai consumatori. Viene dunque imposto un prezzo nelle centrali elettriche che è circa metà di quello stabilito nel mercato TTF. Nel momento in cui il prezzo a cui il gas viene acquistato all’ingrosso è superiore a quello prefissato per la vendita ai clienti finali, il governo centrale, per garantire le forniture, compensa gli attori operanti sul mercato interno. Si tratta di una misura facilmente attuabile e che sicuramente contribuisce all’obiettivo di alleviare cittadini e imprese dal rialzo dei prezzi, perché a sopperire agli scostamenti improvvisi è lo Stato e non più il consumatore. Tuttavia, gli economisti sono molto divisi riguardo al raggiungimento dell’indipendenza da Mosca. Infatti, una misura simile potrebbe in realtà aumentare la domanda di gas anziché ridurla, esponendo maggiormente l’Unione Europea ai ricatti di Putin.

La seconda opzione è di applicare un tetto soltanto al prezzo del gas russo. Dovrebbe agire sostanzialmente come un dazio, riducendo i profitti del Cremlino. Avrebbe potuto rappresentare una buona soluzione (anche se difficilmente negoziabile) se non fosse che la Russia ha ormai già ridotto, se non completamente interrotto, i flussi di gas. In questo caso ad aver giocato contro è stata l’inerzia con cui l’Ue ha affrontato il tema, procrastinando ogni decisione.

Infine, il terzo modello riguarda un limite al prezzo rivolto a tutte le importazioni di gas, includendo paesi come Norvegia, Algeria, Stati Uniti, ecc. In questo caso il sostegno alle imprese e alle categorie sociali verrebbe garantito, l’impatto sulla domanda del gas russo andrebbe valutato attentamente. Ma il problema principale di quest’ultima soluzione è di tipo geopolitico e legato al mercato del gas via nave. Infatti, fissare un price cap per tutte le importazioni, non andrebbe a impattare i contratti a lungo termine, ma il potere d’acquisto europeo sul LNG. Fissare un tetto al prezzo significherebbe favorire i paesi asiatici, diventando meno competitivi e rischiando di perdere forniture di gas che attualmente sono indispensabili. L’LNG potrebbe andare ove è più conveniente lasciando l’Ue all’asciutto, inoltre già adesso ci sono molte polemiche sui traffici marittimi di gas liquefatto. Dove armatori dalle dubbie bandiere portano in giro per il mondo petrolio e gas che altrove sarebbero banditi o pesantemente sanzionati.

La soluzione dell’Ue al problema del gas

Pro e contro di ciascun modello possono essere valutati soltanto se si accetta il price cap quale giusto strumento economico e questo è già in sé un fattore divisivo sia all’interno dell’Ue che tra gli economisti. Alcuni di loro, infatti, ritengono che il mercato del gas sia caratterizzato da importanti distorsioni, per cui un intervento del governo sarebbe giustificato in quanto volto a internalizzare l’incertezza oggi esternalizzata e al contempo generata dal mercato stesso. Altri, invece, ritengono che il price cap possa significare la fine per il libero mercato del gas così come lo abbiamo conosciuto sino ad oggi, annullando così i benefici del price signaling (un meccanismo fondamentale per veicolare informazioni a produttori e consumatori e influenzare la quantità offerta e domandata), l’utilità del commercio transfrontaliero e incentivando la domanda. Alle divisioni ideologiche, probabilmente meno determinanti nell’influenzare il dibattito europeo, si sommano poi degli interessi strategici contrastanti. In queste divergenze di prospettiva troviamo la chiave per interpretare l’impasse di questi mesi e per ritenere che un accordo sul tetto al prezzo sia quantomai difficile, in qualsivoglia delle diverse forme discusse.

In Europa possiamo distinguere chiaramente due gruppi di Paesi. I 15 stati che hanno richiesto il price cap, guidati da Italia, Francia e Spagna, i quali hanno ancora capacità di importazione e mirano a rifornire le loro riserve con gas LNG, risentendo però in maniera particolare della volatilità del TTF, dove i prezzi del gas via nave, ma anche quelli dei contratti a lungo termine, vengono oggi determinati. Per loro un tetto al prezzo rappresenterebbe un modo per avere accesso a un maggior quantitativo di gas, a prezzi più contenuti.

Vi è poi il secondo gruppo di Paesi, guidato in primis da Germania e Olanda, i cui terminali LNG hanno già raggiunto la capacità massima e non possono pertanto aumentare le loro importazioni. Per questi Stati gli alti prezzi del gas sono uno strumento fondamentale per ridurre la domanda, là dove un price cap, invece, significherebbe incentivarla senza che questa possa essere corrisposta da un’adeguata offerta. In una parola: razionamento, con tutte le conseguenze politiche, sociali ed economiche del caso. Ancora una volta l’Ue si ritrova spaccata in due: da una parte ci sono i Paesi frugali, che si sono attrezzati per ridurre i consumi, e dall’altra quelli del Sud, maggiormente esposti per la mancanza di infrastrutture (come in Italia) o per le difficoltà nel ridurre i consumi senza poter compensare il disagio che ciò comporterebbe per le fasce più esposte.

Visti interessi così lontani è difficile immaginare che il price cap possa essere attuato senza scontentare gli attori in gioco. Tuttavia, la necessità di cooperare e trovare una soluzione comune si fa sempre più stringente. Come ricorda l’AD di Eni, Descalzi, infatti, l’inverno più complesso da affrontare sarà quello del 2023/4, quando il gas russo raggiungerà in minima parte l’Europa. Per rifornire le riserve europee servirà un’azione unita e coesa sul mercato, che dia ai Paesi dell’Unione un maggior potere di acquisto, rendendoli competitivi soprattutto rispetto alle importazioni di gas LNG. E a maggior ragione oggi, a pochi giorni dall’annuncio dell’OPEC+ in merito al taglio della produzione del greggio, diventa centrale anche la costituzione di un maccanismo comune di sostegno a famiglie e imprese. È fondamentale che a soffrire le conseguenze delle recrudescenze del covid, dell’inflazione, della recessione e della guerra non siano sempre le stesse categorie sociali. Sarebbe pericoloso sia per la tenuta dell’Unione, sia per il sogno europeo.

di Guglielmo De Puppi

Happy birthday Brexit: il disastro inglese targato Liz Truss

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Liz Truss ha compiuto un’impresa a dir poco leggendaria: in sole due settimane è riuscita a far crollare la sterlina, far schizzare i titoli di Stato e minare fortemente la credibilità di uno dei Paesi più importanti del mondo. E non contenta, ha persino quasi innescato una crisi finanziaria il cui epilogo avrebbe potuto trascinare l’Europa intera, e forse con essa il mondo Occidentale, in un baratro ben peggiore rispetto a quello che scaturì dal fallimento di Lehman Brothers. Per fortuna le banche centrali funzionano ancora ed agiscono in modo indipendente rispetto agli orientamenti politici, ma l’economia inglese farà fatica a riassorbire il colpo inferto da Truss e Kwarteng. Visti i sondaggi, è possibile che se si andasse a elezioni anticipate i Tory sarebbero lontano dal potere per molto tempo (salvo miracoli).

Ma che cosa è successo e qual è l’insegnamento che si può trarre dall’esperienza britannica?

Tutto è iniziato con le dimissioni anticipate di Boris Johnson. L’astro nascente del partito conservatore era riuscito a mantenere la guida del governo nonostante gli inciampi sulla gestione pandemica, la Brexit e i Covid Party da lui stesso organizzati, mentre in tutto il Regno Unito vigeva l’obbligo di non uscire di casa. Ma è crollato sullo scandalo Pincher. L’ex deputy chief whip, e fedelissimo di Johnson, finì sul The Sun, l’estate scorsa, per aver palpeggiato due uomini, un comportamento recidivo, visto che già nel 2019 Pincher era stato accusato di fatti simili, di cui Johnson era a conoscenza, ma a cui non seguirono provvedimenti. Finita la stagione di Johnson i Tory ha promosso Liz Truss, il cui stile, modo di parlare e pensare richiama subito alla memoria l’immagine di Margareth Thatcher, la Lady di Ferro; ricordata, insieme a Reagan, per le posizioni ultraliberiste a favore dei ceti più abbienti e i tagli al welfare state. Tutti questi elementi di contorno aiutano a capire le mosse compiute da Truss, che colta da un delirio di onnipotenza e la necessità di emulare quanto prima i passi del suo idolo ha quasi rischiato di trascinare il mondo intero in una recessione senza biglietto di ritorno.

Giunta al numero 10 di Downing Street, insieme al cancelliere Kwarteng, Truss ha da subito annunciato un piano imponente per rilanciare il Paese attraverso uno shock dell’economia inglese; e già su questo è importante aprire una parentesi. A seguito della Brexit, infatti, il Regno Unito aveva subito un vistoso rallentamento della propria economia, dovuto al fatto che il suo principale acquirente (ovvero l’Ue), non ha più acquistato le merci britanniche alle stesse condizioni di prima. Questo ha fatto crollare l’export made UK e appesantito le ferite economiche inferte dal Covid, tanto che l’inflazione britannica, nonostante tutto gli sforzi di Bank of England (BoE) ha galoppato più velocemente rispetto a quanto non avvenuto in Ue (in ottobre è stimato che salga all’11%). Truss ha quindi dovuto gestire sin da subito un’eredità pesante, ma frutto delle scelte del suo partito, e forse, anche per questo, ha pensato di imprimere subito un cambiamento drastico, che però si è rivelato un buco nell’acqua.

Il taglio delle tasse britannico.

L’idea partorita dall’erede delle Thatcher era semplice: se tagliamo le tasse e i vincoli per chi può spendere (imprese e privati), allora questi si daranno da fare, spingeranno la domanda, assumeranno e lasceranno sul terreno così tante briciole da poter distribuire qualcosa anche a chi non ha nulla (ovvero i ceti più poveri). D’altronde fu questa la ricetta di Thatcher e Reagan, ma il contesto era diverso e l’attuazione pure. Truss ha infatti scelto di vare un vasto piano di taglio delle tasse (da 45 miliardi di £) e uno di calmierazione delle bollette (da 65 mld £), andando a deficit e senza ridurre il welfare state. Una mossa questa, che ha irritato i mercati già preoccupati dagli effetti della Brexit, della guerra in Ue e dai colli di bottiglia che ancora bloccano le produzioni in tutto il mondo. Un primo errore è stato quindi quello di vendere all’opinione pubblica una “mini-finanziaria” (così è stata chiamata e le parole nel contesto economico hanno un loro peso) senza specificare gli effetti, i costi complessivi (che secondo l’Institute for fiscal studies, ammonterebbero a 120 mld £ da qui al 2025) e ridurre la spesa pubblica, già alta a causa della pandemia. Da qui la reazione dei media e dei mercati è stata muscolare e dettata dall’inaffidabilità del partito Conservatore nel selezionare la propria classe dirigente.

L’opinione pubblica si è indignata per il dito senza vedere la Luna. Dopo tutto, il messaggio che ha avuto più presa sui media britannici e quelli europei è stato quella decisione di ridurre l’aliquota, dal 45 al 40%, sulle persone fisiche che dichiarano di più di 150.000 £ all’anno. Nessuno nel Regno Unito, infatti, sentiva la necessità di aiutare chi già se la passa bene, però questa misura avrebbe impattato solo per un controvalore di 2 mld di £ (su un pacchetto da 45 mld £). Truss, infatti, aveva, e tuttora ha, concentrato i suoi sforzi altrove, come riporta correttamente l’ex Premier Gordon Brown sul The Guardian qualche giorno fa: “…Nonostante abbia abbandonato il taglio delle tasse di aliquota massima, il cancelliere, Kwasi Kwarteng, ha lasciato intatti 43 miliardi di sterline dei suoi tagli alle tasse di 45 miliardi di sterline. Sta ancora raddoppiando gli omaggi esentasse a coloro che hanno opzioni su azioni, tagliando 1 miliardo di sterline dalle tasse sui dividendi e sanzionando un libero per tutti nei bonus dei banchieri. Sta anche portando avanti la sua carta degli evasori fiscali: 2 miliardi di sterline per i dipendenti che possono dichiararsi lavoratori autonomi. Sono ancora in vigore i 2 miliardi di sterline che ha stanziato per gli acquisti esentasse per i turisti stranieri e i 19 miliardi di sterline di tagli alle tasse sulle società, che secondo Rishi Sunak non hanno fatto nulla per gli investimenti…il cancelliere potrebbe anche consegnare miliardi ai magnati del petrolio e del gas.”. E già da questo resoconto si capisce come la natura della politica fiscale britannica non sia stata per niente scalfita dalle reazioni dell’opinione pubblica.

La reazione dei mercati all’annuncio di Liz Truss e di Kwarteng

I mercati, d’altro canto, hanno colpito il Regno Unito sapendo di poter fare male in virtù di un piano economico scritto velocemente giusto per dare in pasto qualcosa all’opinione pubblica e affermare la propria linea. Subito dopo l’annuncio di Truss e Kwarteng il rendimento sui titoli inglesi è schizzato verso l’alto, tanto che i titoli a 10 anni avevano raggiunto il 4,25% e quelli a 30 il 5%. Nel frattempo, 1.700 mld di £ in fondi pensione britannici hanno iniziato a scivolare verso il baratro in virtù di continue richieste di margin-call da parte dalle società di clearing (come riportato da Milano Finanza). In sintesi, i soldi delle pensioni inglesi sono investiti perlopiù in titoli di stato (esteri e nazionali) e il repentino aumento dei tassi ha reso insostenibili molte posizioni sul mercato. Il problema è che proprio perché ingordi di titoli del tesoro, i fondi pensionistici britannici hanno in pancia anche i Btp italiani, e quindi il crollo degli uni avrebbe chiamato in soccorso gli altri in una spirale simile a quella innescata dalla bolla finanziaria della Grande Recessione, ma con un’importante differenza di fondo: qui a fallire sarebbe stato il debito sovrano delle economie del G7 e non il mercato immobiliare.

Di fronte alle richieste di emissione di nuovo debito da parte dei fondi pensionistici, BoE ha deciso di intervenire con un acquisto emergenziali di titoli, pari a 65 mld di £. È scontato il motivo imminente di questa scelta da parte della Banca Centrale: sul mercato i titoli di debito britannico scontavano la politica estrema di Truss, con tassi d’interesse che sono volati alle stelle (e di riflesso prezzi di questi ultimi in crollo) e conseguente rischio di vendita massiva sul mercato secondario dei titoli. La famosa e famigerata “speculazione” che altro non è la difesa dei portafogli di fondi, assicurazioni e banche commerciali, intermediari finanziari dei risparmi dei cittadini. Ma non è difficile intuire che questa politica di acquisto titoli getti benzina sul fuoco per quanto riguarda l’inflazione: infatti, comprare titoli da parte di Bank of England significa pompare liquidità (denaro) in un’economia già stremata dall’aumento generale dei prezzi. Una mossa, quella di salvare il debito inglese, che si scontra quindi con l’obiettivo primario di stabilizzare l’inflazione. Siamo proprio all’interno di un cortocircuito dal quale per i conservatori inglesi è difficile uscire. Con le sirene di un clamoroso ritorno di Boris Johnson sulla scena.

La perdita di consenso del partito Conservatore

Ci sono voci di lettere di sfiducia già partite all’indirizzo della premier: certo, una nuova sfida per la leadership non sembra alle viste, ma i conservatori temono che Liz li abbia portati subito a sbattere. Lei sapeva di avere a disposizione poche settimane per imprimere una svolta di fonte a una crisi economica che morde le tasche dei cittadini, ma la strategia scelta assomiglia tanto a una missione suicida. Intanto, il gradimento del nuovo primo ministro britannico è al minimo storico. Secondo un nuovo sondaggio di Redfield & Wilton Strategies realizzato il 5 ottobre, è il più basso mai registrato in assoluto fra i primi ministri. Solo il 15% degli intervistati apprezza la nuova inquilina di Downing Street e, fra l’elettorato conservatore, un esiguo 25% ha fiducia in lei. Il momento del suo possibile rilancio, due giorni fa, con un discorso alla conferenza nazionale del partito conservatore, non ha sortito i risultati sperati.

Intanto Truss cerca la sponda d’oltre manica chiamando in causa l’UE (!). Il primo ministro inglese ha definito Emmanuel Macron un “amico” mentre annunciava l’intenzione di lavorare insieme alla prima riunione di un nuovo club politico delle nazioni. Strategia per recuperare consenso? Ricerca di partner in Europa? Sembra comunque un appello disperato di aiuto, di salvezza da un pantano londinese tutto voluto, ma con grande incoscienza.

Di Claudio Dolci e Roberto Biondini

L’Odissea del fuori sede

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Hai un lavoro, una fideiussione e puoi garantire di restare almeno 18 mesi? Ah, lascia perdere, non prendiamo né studenti né coppie, cerca altrove.

Sono soltanto alcuni esempi delle richieste fatte dai locatori italiani a chi cerca un affitto in questi ultimi mesi. Un mercato, quello delle abitazioni in affitto, che dal post Covid è letteralmente impazzito. Se il periodo pandemico aveva reso i prezzi delle case abbordabili, nel post Covid-19 invece, la ricerca di una casa, in particolare nelle grandi città, si è dimostrata uno sforzo al limite della follia per le decine di migliaia di studenti o lavoratori fuori sede. Come riporta immobiliare.it: “Ad Agosto 2022 per gli immobili residenziali in affitto sono stati richiesti in media € 12,15 al mese per metro quadro, con un aumento del 7,52% rispetto a Agosto 2021 (€ 11,30 mensili al mq). Negli ultimi 2 anni, il prezzo medio in Italia ha raggiunto il suo massimo nel mese di Agosto 2022, con un valore di € 12,15 al metro quadro.”.

Fonte immobiliare.it

E facendo un po’ di ricerca nei più importanti siti di ricerca per stanze singole o doppie, monolocali e abitazioni si può facilmente riscontare un aumento generalizzato, e spesso solo a fini speculativi, dei prezzi. Si prenda ad esempio la città di Milano, la metropoli d’Italia, dove ogni anno centinaia di migliaia di studenti o lavoratori fuori sede fanno la loro comparsa. Sono oltre 190.000 gli studenti iscritti alle facoltà residenti in Milano: un numero di studenti universitari di poco inferiore a quelli di Parigi. La situazione meneghina è sconvolgente: si è arrivati a toccare punte di ottocento euro mensili non comprensivi di utenze per delle camere singole a volte ridotte a veri e propri loculi. La Repubblica aveva poco tempo fa parlato dell’argomento, riportando anche dei dati tragici nazionali: “Allarme alloggi per gli universitari, la richiesta sale del 75% mentre l’offerta cala dell’8%. E rispetto al 2021 il prezzo medio di una stanza singola è di 465 euro, +9,3%”.

Per questo oggi la rabbia tra chi ricerca un alloggio a Milano è alle stelle. Basta fare un giro nei diversi gruppi social di affitti dove gli utenti non solo segnalano disagi sull’impossibilità di trovare letteralmente un “buco dove stare”, ma si sbranano tra di loro per essere segnalati come i primi interessati a delle offerte che, se va bene sono care arrabbiate o in condivisione, mentre se va male sono in realtà degli annunci falsi. E via di nuovo tutto daccapo, magari su un nuovo sito o forum. “Sono veramente sconcertato dalla situazione di estrema indisponibilità di appartamenti e stanze che quest’anno si è creata in città – scrive Giacomo V. sul gruppo Facebook “Case/Stanze in affitto a Roma” -. Noi, studenti e non turisti, che dobbiamo iniziare l’università tra meno di una settimana, che cosa dovremmo fare per riuscire a reperire un maledetto buco in cui studiare e dormire?“.

Quella di un alloggio è diventata una ricerca continua che costringe l’utente a rimanere sintonizzato giorno e notte su una decina di siti diversi per poter sperare di vedere un nuovo annuncio. Giorni e giorni, e sempre più spesso settimane e settimane, se non mesi, spesi a cercare quello che sino a poco tempo si trovava con relativa facilità. E per questo c’è addirittura chi ha optato per studiare altrove, alimentando così quella divisione interna tra centro/periferia, Sud/ Nord, ricchi e poveri, che impedisce all’Italia di diventare un Paese davvero coeso. Chi invece non si arrende di fronte a una politica indifferente verso i giovani allarga i filtri di ricerca: se si partiva con singola, ci si adatta alla doppia; se si cercava di evitare zone non raccomandabili, si accetta di non dover tornare tardi alla sera e stare nell’abitazione il meno possibile; se l’arredamento era necessario, ora diventa un optional. E quando, con grande stupore, si arriva ad agganciare il locatore, parte la fase delle richieste fuori dal mondo, dove l’imbarazzo per chi ascolta si tramuta subito in indignazione.

Si parte dai contratti, buste paga, fideiussioni bancarie e garanzie di ogni sorta, accompagnate da preavvisi lunghi per te e brevi per chi affitta, no coppie, solo coppie, no uomini, no cani, si gatti, fumo dipende. Da subito, fra un mese, quando l’inquilino me lo dice, chissà. Tre mesi di caparra, affitto anticipato, agenzia al 12, 13, 15% di commissione. Un elenco che non trova fine, e per il quale non si può mai essere pronti totalmente. Qualcosa di nuovo può sempre uscire fuori, tutto è lasciato alla fantasia del locatore e alla sua sete. E se non hai tutte le risposte pronte e disponibili, in pochi minuti hai perso il posto in fila e ci sentiamo alla prossima…

E qui si aggiunge un altro problema: l’impossibilità di riflettere sulla proposta. Se si ha la fortuna di ottenere una visita o scatta il sì immediato o di nuovo hai perso il posto. Come si può prendere la decisione su dove vivrai e passerai la maggior parte del tuo tempo per anni in 30 minuti? Semplicemente non si può e nei casi di disperazione per tempistiche strette personali si dice di sì subito, scommettendo che non ci siano problemi logistici strutturali nella casa, o che il vicinato sia tranquillo o che la zona di sera non sia poco raccomandabile, ecc. Insomma, un contratto quasi alla cieca.

E si arriva così sfiniti alla fine di questa epopea, con finalmente un contratto in mano e migliaia di euro di caparra, anticipo e canoni di agenzia volati in un sol momento.

La riflessione è lapalissiana. Può esistere una situazione di disagio del genere nel 2022 in un paese occidentale? Ed è vero, le dinamiche della domanda e dell’offerta non si possono aggrappare al ricercare prezzi calmierati per risolvere il problema degli affitti a Milano, anche se qualcosa potrebbe essere fatto. I comuni, le regioni, lo Stato centrale stesso non possono abbandonare a loro stessi dei cittadini che si sfibrano per trovare un “buco dove dormire” per lavorare o addirittura studiare. Trovare una soluzione anche transitoria per rendere meno oneroso il prezzo della vita per gli studenti nelle grandi città è indispensabile per aiutare l’istruzione. Si è fatto molto sull’acquisto della casa per gli Under 36, ma senza prima poter studiare o lavorare là dove un titolo di studio può essere speso con profitto, chi mai potrà permettersi un mutuo? Per fare un albero occorre piantare un seme: un concetto, questo, semplice per tutti tranne per chi giovane non è più.

Purtroppo, la calca che accompagna la ricerca di un alloggio sono all’ordine del giorno e non possono appartenere ad un paese civile. Il nuovo governo non si dimentichi dei fuori sede e faccia qualcosa per aiutare chi o studiando o lavorando contribuisce alla ricchezza della nostra nazione presente e futura; altrimenti chi fermerà l’emorragia verso l’estero?

Di Roberto Biondini e Claudio Dolci

La manovra che verrà

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Gli italiani hanno deciso, fuori Draghi e dentro Meloni. Il successo della coalizione di centrodestra era già stato anticipato da numerosi sondaggi, ma ora ad aspettare la probabile neo-premier ci sono gli altrettanti i numerosi dossier economici aperti e in gran parte contraddistinti dal segno negativo. D’altronde, il quadro macroeconomico europeo è ancora contraddistinto da un’elevata incertezza, dall’esplosione dei prezzi energetici e dall’instabilità politica.

L’Europa tira dritto a prescindere dal futuro esecutivo italiano

Dal fronte europeo la prima a richiamare tutti all’ordine è Christine Lagarde, la quale ha annunciato che a breve la Bce dovrà aumentare ancora i tassi d’interesse. E ciò significa che vi sarà un aumento del costo del debito pubblico italiano, per via del crescere degli interessi, e che anche per le imprese sarà più difficile reperire i denari necessari a finanziare le loro attività. La mossa della Bce è obbligata dal contesto congiunturale, come ribadito da Lagarde stessa: le prospettive si stanno facendo più fosche. L’inflazione rimane troppo alta ed è probabile resterà sopra i nostro target per un periodo esteso di tempo”. Tuttavia, il costo da pagare per fermare l’inflazione è il raffreddamento della domanda interna all’eurozona e quindi della ripresa post-pandemica. D’altro canto, il mancato accordo sul price cap europeo impedisce di raffreddare la speculazione sul prezzo del gas, a cui si aggiungono il rallentamento dell’economia cinese e gli ancora persistenti colli di bottiglia, che nell’insieme di certo non aiutano a sedare un’inflazione ancora imperturbabilmente al galoppo.

E sempre con l’Europa Meloni dovrà ancora andare d’accordo per un po’, viste le imminenti scadenze del Pnrr. Da Bruxelles son infatti ora in arrivo i 24 mld, relativi alla seconda tranche del Pnrr (che ne complesso ne stanzia oltre 190), ma a dicembre dovranno essere centrati 55 obiettivi (di cui 29 già raggiunti dall’esecutivo Draghi e 26 ben avviati) per ottenerne altri 21,8 mld. Il che significa che, almeno per il momento, non sono possibili quelle modifiche al Pnrr tanto invocate dalla coalizione di centrodestra. L’unica scappatoia che Bruxelles potrebbe concedere alla coalizione guidata da Meloni, come riportato dal Sole24 Ore, riguarderebbe una o più deroghe su quelle opere i cui costi sono stati stravolti dall’impennata dei prezzi, ma oltre a questo i margini sono troppo stretti. Occorre poi ricordare come per i vertici amministrativi alla guida del Pnrr non sia previsto il collaudatissimo spoil system, con i quali vengono da sempre sostituite le persone alla guida di numerose istituzioni italiane, a partire dai Media statali.

Terminata la rassegna europea si passa al fronte domestico, quello più caldo.

Il governo Draghi ha stanziato complessivamente 66 mld di euro contro i rincari, ma molte misure scadranno a breve e dovranno essere rinnovate, altrimenti gli italiani si ritroveranno all’improvviso in un incubo occultato da misure a pioggia. Calcolatrice alla mano, per la Nadef serviranno tra i 40 e i 50 mld di euro: non proprio un inizio di legislatura in pompa magna. Questi miliardi serviranno a rifinanziare il taglio degli oneri di sistema sulle bollette di gas e di luce, a sforbiciare il cuneo fiscale, a ridurre di 30,5 centesimi il prezzo al litro dei carburanti ed infine a sostenere i crediti d’imposta per le imprese costrette a fronteggiare bollette alle stelle.

Non va poi dimenticata un’urgenza prossima relativa alla CIG. La riforma Orlando, partita a gennaio, prevede la CIG onerosa per le aziende e rigidi tetti alla durata, come riporta il Sole 24 Ore. Molte imprese, però, hanno esaurito il plafond e per questa ragione già 400 milioni di ore di deroga sono stati inseriti per evitare una catastrofe sociale. Nel frattempo, l’Istat dichiara l’aumento delle ore in cassa integrazione e la richiesta di sussidi di disoccupazione. Inoltre, le stime per il mercato del lavoro sono tutt’altro che rosee. Una bomba ad orologeria aleggia per il Bel Paese.

Dal canto suo, Meloni potrà contare su almeno un asso nella manica, ovvero l’extra-gettito lasciatole in eredità da Draghi e relativo ai mesi di settembre, ottobre e novembre. L’aumento dei prezzi ha infatti fatto registrare un surplus nei conti pubblici, che però ora si scontrerà con maggiori costi per il personale e le pensioni. Basterà quindi questo tesoretto a far dormire sonni tranquilli a Meloni e Company?

No, perché all’equilibrio dei conti pubblici italiani manca ancora il calcolo delle misure promesse in campagna elettorale dal centrodestra, le quali, come riportato da Pagella Politica, sono perlopiù prive di coperture e molto costose […]. Senza fare deficit, che altrimenti comporterebbe un primo passo falso nei confronti del mercato e delle istituzioni europee, la Meloni sarà costretta a proseguire il suo mandato all’insegna della sobrietà.

La coalizione di centrodestra, sempre ammesso che non si sfaldi nel tragitto per il Colle, riuscirà a dimostrare di essere davvero a pronta a governare, oppure ci attenderà un 2011 bis?

Redazione il Caffè Keynesiano

Nein! Un bicchiere mai pieno

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Nein! La svolta tanto attesa, ed invocata ormai 8 mesi fa dal dimissionario governo Draghi, è stata sonoramente stroncata dai vertici europei. Si dovrà dunque attendere sino al 6 ottobre per sapere se ci sarà o meno un price cap al tetto del gas e ciò dovuto al veto imposto dall’Ungheria, dalla Slovenia, dall’Austria, dai Paesi Bassi, dalla Repubblica Ceca e infine dalla Germania. Inutile dirlo, a pesare maggiormente è stato il dissenso di quest’ultima, la quale teme il blocco totale di qualunque fornitura di gas russo e con essa uno stop della propria industria, un aumento della disoccupazione e il rischio di tensioni sociali: in breve, no gas, no Pil. Di fronte a questa decisione gli osservatori economici si sono divisi in due blocchi, quello degli ottimisti da una parte e dei pessimisti dall’altra.

Dalla parte degli ottimisti

Chi nonostante tutto continua a vedere il bicchiere mezzo pieno confida nella razionalità degli attori economici e nelle aspettative, si spera positive, del mercato (le quali, almeno al momento, riemergono puntualmente nelle analisi statistiche). Dal lato razionale, l’idea che in breve tempo la Russia possa reindirizzare i propri gasdotti verso la Cina e l’India, così come si potrebbe fare con la canna per irrigare il giardino, risulta priva di fondamento. Da ciò ne consegue che senza l’Europa a spingere la domanda, al gas russo non resti che venir bruciato in Siberia (come già avviene) per mantenere la stabilità dei giacimenti. Sempre in quest’ottica, è ritenuto altrettanto assurdo che l’establishment russo continui nell’autoflagellazione della propria economia, la quale registra un calo del Pil a doppia cifra. Certo, c’è chi, soprattutto in Italia, dirà che tutto sommato poteva andare peggio e che quindi le sanzioni funzionino poco, il realtà il quadro è più complesso. La Russia sta letteralmente facendo di tutto per mantenere stabile la propria economia e ci riesce grazie a importazioni ridotte e maggiori entrate dal comparto commodities (grano, gas, petrolio, fertilizzanti ecc.). Tuttavia, proprio le scarse importazioni fanno presagire un venturo collasso della produzione interna, dovuto principalmente alla difficoltà nel reperire componenti ad alto contenuto tecnologico, ormai da anni in outsourcing (come, ad esempio, le turbine della Siemens per i gasdotti). Certo, se Atene piange Sparta non ride e l’attuale inflazione europea (trainata soprattutto dal comparto energetico, oltre che dai colli di bottiglia) n’è la prova; ma al momento dire chi, tra Ue e Russia, spunterà partita non è facile.

Un altro elemento a favore degli ottimisti è quello che riguarda il livello di stoccaggio delle riserve di gas nazionali, a cui si sta ora accompagnando una politica di risparmio energetico e la solidarietà promossa in seno all’Ue. Il governo Draghi, infatti, ha appena approvato il piano di risparmio energetico nazionale, che entro poche settimane dovrebbe essere reso operativo, il quale prevede che il riscaldamento si accenda più tardi, resti in funzione un’ora in meno e si abbassi di un grado per l’intera stagione invernale. Insieme a queste misure il Ministero della Transizione Ecologica ha ha fornito anche i numeri sull’approvvigionamento alternativo per evitare eventuali shock causati dallo stop al gas russo; come ad esempio la massimizzazione della produzione a carbone e a olio delle centrali già esistenti e regolarmente in servizio, che contribuirà da solo (per il periodo 1° agosto 2022 – 31 marzo 2023) a una riduzione di circa 2,1 miliardi di metri cubi di gas.

Le stime sull’impatto di tutte le misure di contenimento previste dal Mite porteranno ad un potenziale risparmio di circa 5,3 miliardi di Smc di gas, conteggiando anche la massimizzazione della produzione di energia elettrica da combustibili diversi dal gas (circa 2,1 miliardi di Smc di gas) e i risparmi connessi al contenimento del riscaldamento (circa 3,2 miliardi di Smc di gas), cui si aggiungono le misure comportamentali da promuovere attraverso campagne di sensibilizzazione degli utenti ai fini di ottonere un atteggiamento più virtuoso nei confronti dei consumi. Attualmente, e come già anticipato, il piano di stoccaggio nazionale di gas in vista del prossimo inverno (quale potenziamento dalle misure anticrisi energetica approvate successivamente alla guerra in Ucraina) procede puntualmente. Al primo settembre 2022 gli stoccaggi erano all’83%, in linea con l’obiettivo di riempimento superiore al 90%.

A questa lettura ottimistica del presente si accompagna a braccetto anche l’ultimo report trimestrale dell’Istat che vede un’economia italiana non ancora duramente colpita dalla crisi energetica, anzi, i dati riportati nel report sono tutt’altro che negativi. Nel secondo trimestre del 2022 il Pil nazionale è aumentato dell’1,1% rispetto al trimestre precedente e del 4,7% nei confronti del secondo trimestre del 2021. La variazione quindi acquisita per il 2022 è pari a +3,5%. Rispetto al trimestre precedente, invece, tutti i principali aggregati della domanda interna sono in ripresa, con un aumento dell’1,7% sia dei consumi finali nazionali, sia degli investimenti fissi lordi. Infine, le importazioni e le esportazioni sono aumentate, rispettivamente, del +3,3% e del +2,5%.

Il bicchiere mezzo vuoto e la crisi in arrivo

Chi invece vede il bicchiere mezzo vuoto legge i dati del momento come l’annuncio dell’imminente recessione. Goldman Sachs, ad esempio, ha previsto un aumento dei costi energetici europei, a partire dall’inizio del 2023, per un importo di 2 trilioni di dollari, pari al 15% del Pil europeo (e lo scenario migliore, nel peggiore si parla 4 trilioni e del 30% del Pil). Dal punto di vista del consumatore ciò si tradurrebbe con un aumento mensile delle bollette pari a 500€ (nel migliore degli scenari) e di 590€ nel peggiore. Considerando l’affitto, una macchina e l’inflazione che divora il potere d’acquisto, anche uno stipendio medio rischia di non essere più uno scudo efficace contro il caro vita. Sempre per restare in tema aumenti, anche Confartigianato ha annunciato che col caro energia sono a rischio 881.264 micro imprese e quindi 3.529.000 di posti di lavoro. Già ora le bollette stanno mettendo in ginocchio le imprese, soprattutto quelle energivore, che poi sono quelle che forniscono i materiali per la trasformazione degli altri prodotti. Un esempio esplicativo è quello delle vetrerie che devono mantenere accesi i forni e il cui vetro serve per praticamente di tutto, dalle bottiglie per il vino ai barattoli per la conserva. Infine, ad annunciare che il canarino in miniera è prossimo alla morte, si è aggiunta anche l’agenzia di rating Fitch, la quale stima che con un flusso di gas russo pari al 20% (sempre miglior scenario) si avrà un effetto negativo sul Pil tedesco pari al 3% e su quello italiano del 2,5%.

Che cosa succederà nei prossimi mesi?

Chi ha ragione? Lo si vedrà solo col tempo, ma due sono gli aspetti che devono far riflettere. Il primo, come ha ammesso la stessa Lagarde, è che la Bce ha sbagliato le proprie valutazioni circa l’impatto del Covid e della guerra in Ucraina sull’inflazione. Come riportato dall’agenzia Ansa, Lagarde ha affermato che “Abbiamo fatto degli errori nelle previsioni sull’inflazione, come tutte le istituzioni internazionali, come molti economisti, perché è virtualmente impossibile prevedere e includere nei modelli il Covid, la guerra in Ucraina, il ricatto sull’energia. Me ne assumo la colpa perché sono il capo dell’istituzione; aggiungendo poi, “Abbiamo fatto errori, abbiamo capito le cause, e vi posso assicurare che lo staff aggiorna costantemente, integra quello che finora non era stato preso in considerazione”.

Il secondo, invece, riguarda il fatto che la moneta (l’euro) e il mercato (Ttf) restano preminenti rispetto alla crescita. L’euro continua infatti a oscillare sulla parità col dollaro e in questi ultimi tempi è sceso addirittura sotto. I motivi sono tanti: crisi ucraina, crisi energetica, tassi d’interesse ancora bassi. E se da un lato una moneta debole permette di agevolare le esportazioni, dall’altro il rovescio della medaglia è presto detto: l’import subisce un colpo molto forte. E se il mercato (Ttf) dove il gas viene scambiato rimane a livelli estremi, il risultato di questa addizione è presto detta. D’altra parte, per apprezzare la moneta (anche se si ricorda che non fa parte degli obiettivi della BCE) occorre aumentare i tassi, come ha fatto Francoforte l’altro giorno per bloccare l’inflazione. Ma come si sa, un aumento dei tassi significa costo del denaro più alto, mutui più cari, rischio paralisi economica. La via è stretta, non vi è dubbio. Ma sta alla politica fiscale, non a quella monetaria, trovare una soluzione efficace per edulcorare l’impatto economico della crisi.

A conti fatti l’accoppiata tra questi due elementi (poiltiche monetarie e modelli previsionali) rischia di complicare ulteriormente la situazione dei ceti meno abbienti, soprattutto se accompagnata dalla cecità nei confronti della lettura geopolitica del momento storico. D’altronde, come sostengono da mesi Fabbri e Caracciolo, il popolo russo vive di gloria immateriale: se il blocco del gas si renderà strategico non ci sarà valutazione economica e/o razionale che possa impedire alla Russia di continuare la sua azione di stop all’occidente.

Difficile sapere come andrà a finire ed ancor più difficile è sapere quando la crisi potrà finire. L’Europa ha di fatto scelto una via etica di grande valore: sanzionare la Russia per aver invaso uno Stato straniero. Ma gli stati europei saranno altrettanto pronti a scontare una crisi economica quasi inevitabile per i loro ideali?

Di Claudio Dolci e Roberto Biondini

In gas veritas. Come nasce la dipendenza dal gas russo e dove ci porterà

Di chi è la colpa della dipendenza dal gas russo e quale governo ha contribuito maggiormente? Con l’aumento dei prezzi del gas, dovuti sia al disallineamento tra domanda e offerta (blocco dei gasdotti russi) sia alle speculazioni borsistiche (Ttf), è partito l’ormai classico scarica barile tra le forze politiche. Dapprima ad attaccare è stata la destra, con Berlusconi, che dalle colonne del Corriere ha rivendicato i successi dei suoi governi, da qui il contrattacco da sinistra. Ma di chi è davvero la responsabilità?

Le accuse della destra

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera (il 31 Agosto), Silvio Berlusconi ha dichiarato: «Con il mio ultimo governo, all’inizio del 2011, avevamo ridotto la quota del gas russo al 19,9 per cento. Tre anni dopo, all’inizio del 2014, con il governo Letta la dipendenza dalla Russia era salita al 45,3 per cento: più del doppio. Con il governo Conte nel 2019 ha raggiunto il livello record del 47,1 per cento». I dati riportati dal Cavaliere sono imprecisi, come dimostrato dalla ricostruzione di Pagella Politica, ma nel complesso dicono il vero. La dipendenza da Gazprom ha effettivamente ripreso a correre molto velocemente dopo la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, anche se una tendenza all’aumento era già in essere nel 2011, con le importazioni al 27% e non il 19,9% (un dato questo, relativo al 2010).

Imprecisioni a parte, è stato sufficiente il grafico delle importazioni per fornire ad Affari e Verità la possibilità di lanciare una stoccata al Pd Lettiano, inferta per mezzo di un articolo a firma di Franco Bechis. Quest’ultimo ripercorre le tappe del post-berlusconismo rintracciando uno per uno i responsabili dell’aumento delle importazioni: Monti e Letta (i più visibili), giungendo infine a Prodi (il regista occulto). Scrive il direttore di Affari e Verità: “è stato il professore di Bologna – Prodi – a preparare il cammino per lo sfondamento di Gazprom in Italia”. Ma come? Attraverso incontri privata e bilaterali. “Ai primi di gennaio – racconta Bechis – del 2014 Gazprom rese pubblici i suoi dati di bilancio, spiegando con soddisfazione di avere aumentato l’export verso la Ue del 20%. Ma la gemma di quel rapporto era stata proprio l’Italia di Letta (e forse di Prodi): l’export di gas verso Roma era cresciuto del 68%, più di tre volte la media europea”. La ricostruzione di Bechis collima con le parole di Berlusconi e col grafico sull’andamento delle importazioni, ma elude le ragioni sottostanti a quegli accordi.

Ciò che la destra non dice sul gas russo

Il primo grande escluso dal dibattito sul gas è il contesto geopolitico. Negli anni in cui si è scelto di affidarsi a Gazprom, nel nord d’Africa si stava via via diffondendo quella che poi verrà chiamata la primavera araba. Tunisia, Egitto, Libia e Yemen erano attraversate da proteste civili, molto violente, le cui ragioni erano sia economiche (l’inflazione aveva raggiunto livelli allarmanti, colpendo i generi alimentari e quindi soprattutto le fasce più deboli), sia politiche (con la richiesta di maggiore democrazia). Si temeva il tracollo delle autocrazie e con esse dei contratti con le aziende del comparto energetico, così ci si guardò attorno, verso altri partner. Il problema è che già all’epoca, come riportato da Formiche.net, la Russia possedeva ambizioni geopolitiche tutt’altro che innocue: nel 2009, Gazprom (per mano del governo) aveva iniziato quello che oggi potremmo definire come l’incipit della guerra in Ucraina, ponendo uno stop arbitrario alle industrie ucraine. Come riportato da Marco Mayer “In Europa si reagisce avviando un processo di diversificazione dei paesi di provenienza per ridurre la dipendenza dal gas russo. In Italia (e in Germania) NO”. Questa difformità rispetto alle mosse degli altri membri dell’Ue può essere spiegata, come fa Mayer, studiando la ramificazione di Gazprom a seguito delle liberalizzazioni che hanno coinvolto l’Italia dell’epoca. “A partire dal 2008 – scrive Mayer –  Gazprom raggiunge un accordo per l’acquisto di ENIA, sigla una intesa con A2A GazpromBank e GazpromExport  assumono il controllo di un importante gruppo di trading: Centrex”.

Responsabilità negate: l’azione geopolitica della Russia di Putin

A conti fatti nessun governo può dirsi né dalla parte della ragione, né da quella dei diritti, ed è quest’ultimo punto a ferire maggiormente. Già nel 2009 la Russia aveva dimostrato di considerare l’Ucraina un ostacolo, tanto da inficiarne le capacità produttive, e nel 2014 diede l’avvio alla guerra del Donbass, eppure, in entrambi i casi, l’Italia continuò ad approvvigionarsi da Gazprom con volumi via via più consistenti. Ma perché? Una risposta a questa domanda la fornisce Stefano Silvestri, Presidente dell’Iai e direttore di Affari Internazionali, che intervistato dal Riformista non lascia scampo a chiunque provi a scansare le responsabilità sulla dipendenza dal gas russo. “Abbiamo cercato di andare d’accordo con tutti, facendo del cerchiobottismo la cifra del nostro agire in politica estera. E quel poco o tanto che si è fatto è andato via via scemando fino a scomparire […] c’è una politica dell’ENI, come al solito e giustamente, ma poi il vuoto. E come dare torto a Silvestri? In politica estera l’Italia segue la direzione di un’azienda privata, che ha i suoi interessi specifici, e poco altro; prova ne è il fatto che l’ultimo Ministro degli Esteri è stato Luigi di Maio. Se chiunque può dirigere la Farnesina, meglio ancora se tecnico (come sostenuto da Silvestri), allora vuol dire che la politica italiana in campo estero non esiste.

Per decenni si è lasciato che il piano inclinato facesse il suo corso, senza che Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e II, provassero ad invertire la rotta, anzi. Si dirà che in un governo di coalizione è difficile imporre cambi di passo radicali, oppure che servono anni per anche solo avviare un processo di diversificazione; eppure, il governo Draghi, in soli quattro mesi, ha fatto quello che chi era venuto prima di lui semplicemente non aveva il polso di fare; per inciso, la Russia non è diventata un’autarchia dal 2022.

La conseguenza del cerchiobottismo italiano

Le certezze sono entità sdrucciolevoli, perché quando si pensa di poter far affidamento su di esse svaniscono lasciando solo il vuoto dell’ignoto. Tuttavia, alla luce di quanto emerge oggi, è possibile fare qualche ipotesi molto simile a una certezza.

La prima è che la crisi inflazionistica che sta colpendo l’Ue sia differente da quella a stelle e strisce. Negli States l’inflazione galoppa, ma gli indicatori macroeconomici mostrano comunque una ripresa sufficientemente forte da poter assorbire un incremento di tassi più ampio di quello già messo in campo dalla Fed. Come ha scritto l’economista Alessandro Penati, su Domani, a luglio negli Stati Uniti c’erano due offerte di lavoro per ogni disoccupato, le imprese (dell’S&P 500) avevano già iniziato a far fronte all’inflazione trasferendo i costi aumentando il margine operativo lordo e soprattutto, grazie allo scisto, petrolio e gas non hanno mai rappresentato un problema (salvo sul piano ambientale…). Per Penati, se l’Ue “segue la Fed (nel rialzo continuo dei tassi) la recessione non è più un rischio, ma una certezza” e visto che il Tpi (lo scudo anti-spread) non è ancora mai entrato in funzione, non si sa come si comporteranno i mercati nei confronti del debito italiano.

La seconda certezza riguarda il fatto che nessun Paese possa davvero salvarsi da solo, un concetto questo, che fatica a giungere a destinazione. Vista la lentezza nell’approvare il debito comune europeo, negato durante la Grande Recessione, è difficile che una soluzione europea arrivi in tempo utile per salvare le imprese già adesso in ginocchio. Purtroppo, ad oggi l’Ue marcia ancora divisa sul fronte energetico, ci sono sì degli spiragli, come il tetto al prezzo del gas e lo scorporo dell’energia rinnovabile da quella prodotta col fossile sul Ttf, ma è ancora tutto avvolto da eccessiva vaghezza e lentezza. Occorre poi considerare che per gli esperti del settore energetico, Tabarelli (di Nomisma) e Scaroni (ex A.D. di Eni), il tetto al prezzo del gas è fantascienza. Lo scorporo delle fonti energetiche sul Ttf, invece, rischia (soprattutto se accoppiato a uno stop delle quote di emissione, ETS) di rallentare l’avanzata delle rinnovabili. Oggi, infatti, ci si stupisce del fatto che gas ed eolico vengano quotati allo stesso prezzo, ma come riportato anche dal Corriere della Sera, questo meccanismo in passato ha favorito l’espansione delle rinnovabili; quando il loro costo di realizzazione era sconveniente rispetto al fossile. Anche se però è corretto sostenere che, in questo periodo transitorio di alto livello dei prezzi dovuti a tensioni geopolitiche piuttosto che ad aumenti di costi di produzione, il prezzo delle energie rinnovabili debba essere sganciato da quello delle energie fossili, così da evitare una speculazione redditizia per le industrie ed onerosa per la società.

La terza certezza riguarda proprio l’inverno che ci attende. Il riempimento delle riserve di gas non ci salverà da un’ipotetica, ma assai verosimile, chiusura totale di Nord Stream e non lo faranno neppure i contratti stipulati dal governo Draghi negli ultimi mesi. Quest’ultimi purtroppo diventeranno operativi solo col tempo, mentre le riserve di gas servono perlopiù per coprire i picchi di richiesta e non per sopperire in toto alla domanda energetica interna del Paese. Un dato confermato anche dalle parole di Benjamin Moll, professore di economia alla London School of Economics, il quale ha detto “è utile avere uno stoccaggio di gas pieno, ma anche se è pieno, dovremo ridurre la domanda”. Come riportato da Palombi, sul Fatto Quotidiano, la Germania non ha solo riempito le proprie riserve, ma ha anche ridotto i consumi, con l’obiettivo di fare a meno del 20% della domanda interna entro l’autunno. In Italia, invece, non si considera credibile uno stop totale delle forniture russe e pertanto si è scelto per il momento di non ridurre i consumi, che nei primi sei mesi del 2022 sono scesi di solo il 2%, contro il 15% della Germania. Anche se ad oggi qualcosa in più si sta facendo. Esiste infatti una proposta del governo di ridurre fino a 2 gradi e di un paio d’ore l’uso del gas nelle abitazioni. Un sacrificio non oneroso tecnicamente, ma politicamente scomodo da sostenere in campagna elettorale e per questo scansato dai leder politici.

Si dice che errare sia umano, mentre perseverare sia diabolico. Ecco, forse questa è la cifra che descrive il panorama politico italiano dove lo sport nazionale, lo scarica barile, impedisce di cogliere l’immobilismo della classe dirigente che negli anni ha ignorato il problema energetico perché priva di una qualsivoglia agenda geopolitica.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

L’economista in prestito, la Politica in debito – Il governo Monti

In meno di 30 anni sono già stati tre i governi tecnici che hanno dovuto gestire l’enorme debito pubblico italiano, che dagli anni ’80 in poi accompagna ogni esecutivo e ne condiziona le scelte. E tutte le volte che è stato istituito un governo tecnico, a guidarlo c’era sempre un’economista, prima Ciampi (’93), poi Monti (2011) e ora Draghi (2021), e c’è addirittura chi oggi ipotizza in futuro un ritorno di Tremonti a Palazzo Chigi e di Cottarelli in Regione Lombardia. Ma perché la politica italiana si lascia commissariare dall’economia e quali sono gli effetti dell’alternanza tra governi tecnici e partitici?

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L’alternanza tra i governi politici e quelli tecnici è stata la vera protagonista della stagione della seconda repubblica italiana. Negli ultimi trent’anni, queste due categorie di esecutivi si sono rimpallati l’amministrazione dello stato centrale con buona pace degli amanti dei governi stabili. Infatti, nonostante una iniziale propensione al sistema elettorale maggioritario, dal 1992 ad oggi si sono succeduti ben 19 governi di tutti i tipi e di tutti i colori. Ed a puntellare, o sarebbe meglio dire soccorrere, questa lunga stagione politica si sono succeduti almeno quattro governi tecnici presieduti non da politici di professione ma da economisti di fama anche internazionale: Dini, Ciampi, Monti, Draghi. Personalità “prestati” alla politica per colpa della politica; un climax ascendente di personalità tanto desiderate e volute per risolvere i problemi di una classe dirigente incapace di guidare il timone della nazione senza andare a sbattere, quanto scaricate velocemente una volta concluso il lavoro sporco. Sarebbe semplicistico demonizzare completamente il perimetro attorno a questi governi tecnici, quanto, allo stesso modo, idolatrare senza riserva degli esecutivi anomali (forse non così tanto?) che hanno solcato il terreno della Storia politica recente. Ad ogni modo, un’analisi sul come i governi tecnici si siano inseriti nella gestione dell’affare pubblico ed un paragone sulla loro gestione rispetto a quella dei governi politici contemporanei, può essere interessante e certificare un approccio diverso alle sfide quotidiane della nazione. È chiaro che ogni esecutivo rappresenti un unicum, così come un fiocco di neve non si distingue da un altro, e che quindi le sfaccettature possano essere molteplici e di infinita riflessione, ma è comunque possibile tracciare una rotta affidandosi a una qualche stella polare, individuando dei target precisi da cui suggere per capire il comportamento del Tecnico rispetto a quello del Politico.

In un paese, come l’Italia, dove il debito pubblico è stato, ed è tutt’ora, il problema finanziario principale, dal quale a cascata ne discendono altri di valore economico, sociale e politico, un’analisi di come i governi tecnici si siano comportati, rispetto a quelli politici, nell’affrontare l’aumento del debito e del deficit è quindi, con le dovute cautele e approssimazioni, uno strumento adeguato per scoprire la visione del Politico e quella del Tecnico.

In questa prima ricerca, approfondiremo il caso del governo Monti, un esecutivo nato sulle ceneri dell’ultimo governo Berlusconi, quando il Belpaese era tecnicamente sull’orlo del baratro finanziario.

Il 16 novembre del 2011, l’ex rettore dell’università Bocconi di Milano venne nominato presidente del consiglio da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dal punto di vista politico, questo governo ebbe il sostegno parlamentare più largo della storia repubblicana: solo Lega e Italia dei Valori sedettero negli scranni dell’opposizione. Nella società civile l’arrivo di Monti venne segnalato come una manna dal cielo. I giornali, anche i più polarizzati, segnalarono una svolta nel modo di fare. Scriveva, per esempio, Pretini su Il fatto Quotidiano: Sul rigore difficile trovare passaggi a vuoto. Il governo ha impiegato una manciata di settimane per riformare le pensioni sulle quali nei diciotto anni precedenti sono caduti almeno un paio di governi.” Ma anche esponenti della Lega Nord stessa (all’epoca si chiamava ancora così) celebravano alcuni provvedimenti del governo Monti. Diceva, per esempio, Giorgetti nel 2011 in Parlamento: “Il pareggio di bilancio è funzionale, in una prospettiva di medio periodo valida per tutti i Paesi dell’euro, ad assicurare il rispetto dei parametri europei in termini di deficit e debito pubblico.” Insomma, parole d’oro nei confronti dell’esecutivo non scarseggiavano e anche presso chi avrebbe potuto semplicemente criticare e basta. Tuttavia, alla fine della legislatura (e pure negli anni a seguire) il governo Monti è stato ripetutamente demonizzato e additato come responsabile della crisi economica del biennio 2012-2013, oltre che per la Riforma Fornero, la Legge Severino ma soprattutto l’aumento delle imposte in un periodo di crisi economica, con risultati (secondo i detrattori) pessimi per il sistema Italia. Matteo Renzi, per esempio, diceva: “La cultura dell’austerity ha visto aumentare il numero di famiglie in povertà, un PIL negativo e crescere le disuguaglianze. E paradossalmente in quegli anni il rapporto debito-Pil è peggiorato perché senza crescita il debito sale, sempre.” Come si usa dire in questi casi, una storia d’amore giunta alla frutta fin troppo presto, forse anche a causa dell’errore politico di Mario Monti di “salire in campo” (come amava dire lui per distinguersi da chi “scese”) togliendo chiaramente spazi alla politica tradizionale. Sta di fatto, che oggi, nei salotti dei partiti si fa fatica a trovare un esponente che celebri il mandato di Mario Monti a guida del governo tecnico del 2011, nonostante buona parte di questi personaggi lo abbiano appoggiato per lungo tempo.

Vediamo ora però più nel dettaglio l’effettivo comportamento del governo Monti verso i valori del deficit e del debito italiano durante il suo periodo di azione. Questo, anche per capire la validità o meno delle critiche sul suo conto di distruzione della produzione italiana.

Nel terzo trimestre di quell’anno, il PIL italiano era sceso dello 0,5 per cento e nel quarto trimestre crollò addirittura dell’1 per cento. Ma come abbiamo scritto, il governo entrò in carica a metà del quarto trimestre, si tratta quindi di problemi ereditati da una precedente gestione. Perché scese il PIL? In quel periodo il famoso spread aveva raggiunto vette mai viste (oltre i 500 punti base). Come molti sanno, ciò significava un aumento dei tassi d’interesse sui titoli di Stato e un costo quindi più oneroso del debito pubblico. In quel periodo finanziare la spesa pubblica chiedendo soldi sui mercati voleva dire pagare degli interessi altissimi. L’aumento dello spread ha effetti negativi sull’economia attraverso due principali canali. Il primo è di natura finanziaria: se tassi di interesse sui titoli di stato aumentano, tende a crescere anche il costo del denaro per banche, imprese e famiglia. Di conseguenza, le banche diventano più prudenti a prestare e razionano il credito (dandolo a chi ha più chance di essere solvente). E se i tassi d’interesse sui nuovi titoli emessi crescono, il valore di quelli già in pancia diminuiscono, offrendo questi ultimi un tasso d’interesse più basso sui mercati secondari. Di fatto, si creano buchi nei bilanci delle banche. In senso opposto, anche chi prestava denaro allo stato italiano di allora tendeva a fidarsi sempre meno proprio per via dell’aumento dello spread, fomentando così un circolo vizioso di aumento dei tassi d’interesse. Insomma, è stato quindi l’aumento dello spread insieme al calo nelle nostre esportazioni per la minore domanda che veniva dall’estero a causare la caduta del PIL nel 2011. Questo lo dice Cottarelli, uno tra i massimi esperti di economia del nostro secolo.

Come si è quindi comportato il governo Monti?

Nell’immediato, l’esecutivo rafforza i conti con misure restrittive che già Berlusconi aveva cominciato a introdurre: misure che ammontano a circa il 2-2,5% del PIL, la più consistente misura restrittiva dal 1997. La conseguenza immediata è un calo della crescita economica dovuto ad un aumento delle imposte. Ma come ci segnala la statistica, il calo del PIL è rimasto nei primi trimestri 2012 in linea con i cali dei due trimestri precedenti, segno che il calo derivi comunque anche dagli alti tassi d’interesse. Avrebbe potuto fare il contrario? Cioè aumentare la spesa per rivitalizzare l’economia come teorie keynesiane spesso ci insegnano? No, questo perché l’Italia non era un Paese con i conti in ordine. Fosse stata la Germania, un aumento di debito non avrebbe avuto effetti collaterali sul suo spread, mentre si sa invece come fosse la condizione italiana in quel momento sia dello spread sia del debito. Aumentare la spesa avrebbe di fatto chiuso la porta ai compratori di nostro debito, provocando il default.

Cosa venne allora a mancare? Sicuramente la stretta fiscale doveva essere accompagnata da un’azione diretta della BCE per calmierare lo spread. Cosa che in realtà avvenne, ma purtroppo in leggero ritardo, solamente nel luglio 2012 con il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi. Il ritardo fu sicuramente dovuto all’opposizione nordica di utilizzare la banca centrale come “cassa” ma ad ogni modo, sembra inverosimile che se l’Italia non avesse imposto a sé stessa una stretta fiscale si sarebbe creata una politica monetaria centrale espansiva nei suoi confronti. Allo stesso modo, mancò un coordinamento europeo di utilizzo di debito comune per finanziare la spesa, come avvenuto finalmente con il Recovery Fund. Solamente in quella circostanza l’Italia si sarebbe potuta permettere di spendere con meno preoccupazione. Ma la cecità (e il timore) delle singole nazioni europee di allora impedì la maturazione di questo approccio.

E nei numeri, l’azione del governo Monti cosa ha comportato?

Il rapporto deficit/PIL nel 2012 diminuì dal 3,7 al 2,9%. Il calo è avvenuto nonostante l’impennata della spesa per interessi dovuta all’aumento dello spread. Al netto degli interessi, la parte primaria del bilancio è migliorata dell’1,5%, con un avanzo primario che ha toccato il 2,1% del PIL.  Perciò questa austerità è servita a migliorare i conti pubblici. Il debito pubblico, invece, aumentò dal 116,5% al 123,4%. Cos’era legato questo dato? A tre fattori chiave: il deficit (come appena citato) che era diminuito ma comunque alto, l’aiuto avvenuto in quell’anno per i paesi europei in crisi (Portogallo, Grecia e Irlanda) e in parte anche all’effettiva politica di austerità. È quindi vero che una politica di austerità porta ad un aumento del rapporto debito/pil. Ma si senta ancora Cottarelli sul tema: “Si tratta di un effetto del breve periodo. Il motivo è che una riduzione del deficit causa una riduzione permanente della velocità a cui il debito cresce mentre causa una riduzione una tantum nel livello del PIL, ma non una riduzione del suo tasso di crescita. Insomma, se in una fase iniziale il rapporto fra debito e pil cresce per effetto di un taglio della spesa pubblica, in seguito il rapporto comincia a scendere perché il debito si accumula ad una velocità minore, mentre il PIL, dopo un calo iniziale non scende più.” E di fatto, il rapporto debito/PIL si stabilizzò. Si stima che senza la stretta fiscale, il debito pubblico sarebbe salito al 142% entro il 2018, rispetto al 131%.

Insomma, il governo Monti operò in una situazione di crisi nera per il Bel Paese, con tutti gli errori che una manovra fatta in velocità può comportare (vedere gli esodati) ma affermare che si sia sbagliato proprio l’approccio non solo è falso ma è anche umiliante per la classe politica che primo, è stata collusa nella formazione della precarietà dei conti pubblici, e secondo, ha voluto fortemente quel governo votando legge dopo legge per poi dimenticarsene allegramente. Il Paese vessava in condizioni terribili dal punto di vista di bilancio e frenare questa pazza corsa verso il burrone non si sarebbe potuta fare, purtroppo, senza lasciare delle sgommate sul terreno: milioni di cittadini si sono impoveriti dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla crisi del debito sovrano del 2010, il margine di manovra era risicato e misure di sostegno  per questi ultimi sarebbero stati possibili grazie ad un costo del denaro più basso che arrivò dalla BCE poco più tardi con l’intervento di Mario Draghi e grazie a misure di accorgimento sui conti pubblici. Ignorare la realtà e semplificare l’analisi scaricando, quindi, la responsabilità totale di un problema cronico su qualche capro espiatorio pure inventato (Monti, Fornero e Poteri Forti) non rende orgoglio ad una grande Nazione ma delucida una patologia di rigetto di responsabilità che non farà crescere questo Paese.

Roberto Biondini e Claudio Dolci

Un passo in avanti e due indietro: il vuoto politico post-Draghi

L’arma del delitto è ancora fumante, ma c’è già chi ha iniziato a frugare nelle tasche del malacapitato per poi darsi alla macchia. Poche ore dopo il crollo del governo Draghi è stato infatti stralciato l’art. 10 del Ddl Concorrenza ed è infuriata la bagarre partitica sul rigassificatore di Piombino. Nel mentre la Bce ha dato vita allo scudo anti-spread (Tpi), che in apparenza salvaguardia i Paesi più esposti agli attacchi degli speculatori, ma che in realtà impone delle condizionalità ed una discrezionalità tutte a svantaggio di coloro che sono privi di bussola, come i partiti.

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Sono trascorse poco più di due settimane dalle dimissioni dell’ex banchiere della Bce, eppure il Parlamento pare già ritornato al consueto caos istituzionale post governo tecnico, tra alleanze che inscenano un remake improvvisato del “la strana coppia” e la restaurazione dei privilegi per i soliti noti; il tutto accompagnato da un’impreparazione generale di quasi tutti i partiti nei confronti delle urne. E dire che dopo anni di campagna elettorale permanente ci si aspetterebbe quanto meno uno straccio di linea programmatica e una maggiore compostezza, ma pare chiedere troppo, anche perché con questo caldo è già difficile riuscire a posizionarsi lungo l’emiciclo parlamentare senza schiacciarsi tutti al centro, figurarsi elaborare delle idee con i transfughi che tirano la giacchetta da una parte e il taglio degli scranni dall’altra a rammentare a tutti la mancanza di posti a sedere. E così scattano i veti incrociati e una sfilza di ultimatum di carta pesta che stanno solo aspettando la pioggia delle urne per sciogliersi e restituire così una poltiglia informe chiamata maggioranza.

Troppo caustico? Forse, ma è la politica bellezza. D’altronde, a meno che la destra non inciampi su sé stessa, pare difficile immaginare che possa sorgere a sinistra un contenitore abbastanza robusto da poter tenere insieme Mastella e Fratoianni, ma anche Calenda e lo stesso Renzi, che pur sembrano condividere il giardino della medesima villetta bifamigliare. E così, mentre fuori e dentro il Parlamento infuria una guerra totale, i taxi escono indenni dal ddl Concorrenza, si bloccano i progetti volti limitare la dipendenza dell’Italia dal gas russo ed in Ue viene approvato uno scudo anti-spread che tale rischia di non essere.

La rivincita delle auto bianche

Sembrava fatta, dopo anni di battaglie politiche e innumerevoli nomi illustri decimati lungo il cammino (persino Bersani e Monti non poterono nulla contro i taxi), ma alla fine hanno vinto loro: l’articolo 10 è stato stralciato. Come riportato da Milano Finanza, in un articolo di Silvia Valente, sono subentrate più ragioni apparentemente inderogabili. “Da un lato – scrive Silvia Valente –, le proteste in tutta Italia e in particolare a Roma delle auto bianche, contro la liberalizzazione del loro comparto che aprirebbe la via al dominio di Uber. E dall’altro lato, il ruolo dell’uscente governo Draghi che deve limitarsi all’ordinaria amministrazione, all’attuazione delle leggi e delle determinazioni già assunte dal Parlamento, in particolare quelle funzionali al raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. La rotta scelta è stata dunque di sopprimere l’elemento più divisivo per avvicinarsi al compimento di una delle richieste europee, propedeutiche all’ottenimento dei fondi del Recovery italiano.” In realtà la situazione era più complessa di come era stata raccontata in principio e, complice la crisi di governo, si è scelto di accantonare tutto in attesa che politici più audaci ci mettano sopra le mani.

D’altronde, gli Uber Files, di cui abbiamo parlato anche noi, hanno svelato la fitta rete di relazioni opache e manipolatorie che la nota compagnia di trasporto californiana aveva costruito negli anni, a danno di settori blindati da contratti e associazioni di categorie senza peli sulla lingua. Se fosse stato approvato l’articolo 10, così com’era (ovvero, come riportato dal Corriere.it, «adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante l’uso di applicazioni web […] promozione della concorrenza, anche in sede di conferimento delle licenze») si sarebbe scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora. Questo perché da anni le licenze vengono utilizzate dai tassisti come Tfr e l’apertura indiscriminata del mercato avrebbe dato il via una corsa a ribasso dei prezzi, certamente a favore degli utenti, ma non di chi ha pagato, e forse fin troppo, l’accesso al settore. Basta questa argomentazione per sorvolare sullo stralcio dell’ex-articolo 10 e schierarsi a favore dei taxi? Assolutamente no.

Se la concorrenza sleale è uno dei mali del capitalismo d’oggi, lo è anche ed a maggior ragione, la creazione di mono e di oligopoli il cui obiettivo principale è spazzare via ogni forma d’innovazione, acquisendo e imponendo barriere inaccessibili a chiunque vorrebbe cambiare lo status quo. Per queste ragioni, ed anche se in presenza di molte incoerenze, avrebbe avuto senso continuare a lottare per cambiare un sistema sbagliato introducendo l’art.10, anche perché rimangiandosi la parola si offre ora su piatto d’argento l’arma che mancava ai balneari per chiedere un ritorno alla casella di partenza, vanificando così mesi di trattative e scontri tra bande partitiche.

I partiti in lotta con tutti, persino con loro stessi

Tuttavia, sui taxi i partiti politici erano quanto meno riusciti a prendere delle posizioni decifrabili e per questo riconducibili a un’ideale, a una visione della società nella quale potersi identificare, sulla vicenda del rigassificatore di Piombino, invece, si è verificato l’impossibile. I partiti locali hanno realizzato un fronte compatto contro il gas (Gnl) via mare, sconfessando così le decisioni prese da quella maggioranza, altrettanto bizzarra, che in Consiglio dei Ministri aveva invece approvato quel progetto e stretto quindi gli accordi internazionali necessari per renderlo possibile.

Come raccontato dal noto sito di Fact-Checking Pagella Politica, con un articolo di Federico Gonzato, “il progetto della nave rigassificatrice di Piombino rientra nella strategia del governo italiano per ridurre la dipendenza dal gas russo in seguito alla guerra in Ucraina, ed era stato annunciato dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ad aprile. A metà luglio, dopo quasi tre mesi di trattative, il ministero della Transizione ecologica e la Regione Toscana hanno trovato un accordo di massima sul posizionamento della nave rigassificatrice, che dovrebbe rimanere ormeggiata nel porto di Piombino per al massimo tre anni. Più nel dettaglio, la nave in questione si chiama “Golar Tundra”, è stata acquistata a giugno dalla Società nazionale metanodotti (Snam) e può rigassificare fino a 5 miliardi di metri cubi di gas all’anno.” In breve, tutti gli attori principali della decisione sembravano d’accordo sul dove posizionare il rigassificatore e sul perché fosse necessaria quest’opera, poi però è scattata la rappresaglia locale che è tracimata a livello nazionale, dove l’assenza del governo Draghi ha fatto il resto.

Persino Eugenio Giani, Presidente di Regione Toscana, ha esordito con “io non prenderò certo una decisione di autorizzazione se non vedo chi è il nuovo governo e chi sono i nuovi parlamentari”, lasciando intendere che qualcun altro dovrà decidere per lui, ma chi? Probabilmente il Pd, il quale, a livello locale ha preso parte alla protesta contro il rigassificatore, mentre al Nazareno si sono limitati a restare in silenzio, forse per non apparire allineati a Fratelli d’Italia. Il problema è che con i flussi ridotti dalla Russia, l’Italia ha più che mai bisogno di trovare altre soluzioni per consentire alle imprese di non chiudere. E visto che si è scelto di puntare quasi tutto sul gas e nucleare, invece di investire in fonti davvero green, occorre trovare un luogo ove ormeggiare il rigassificatore di Snam, ma dove? Ci penserà la prossima maggioranza, nella speranza che a Piombino non se ne formi un’altra, magari con gli stessi colori e simboli, pronta ad opporsi a ogni costo. D’altronde si sa, maggioranza scaccia maggioranza.

Lo scudo anti-spread che protegge con discrezionalità

E mentre in Italia si cerca di capire se esista davvero una qualche barra da poter tenere dritta, in Ue si è deciso di costruire uno scudo anti-spread che potrebbe non proteggere i Btp con la stessa efficacia che i più auspicavano all’inizio, ma andiamo con ordine. Il nome scelto dalla Bce è Transmission Protection Instrument (Tpi) e fungerà da freno d’emergenza nel caso in cui il differenziale dei titoli di Stato dei diversi Paesi Ue dovesse accelerare bruscamente. Quella tra gli spread dev’essere infatti intesa come una corsa nella quale l’Italia deve fare il possibile per non allontanarsi troppo dalla Germania o comunque restare in linea con il gruppo di Spagna, Francia, Grecia e Portogallo. Di fatto si tratta di una corsa dove si vince se vincono tutti, perché anche un solo Paese può rendere aridi tutti gli altri, come ha ben dimostrato la Grecia, il cui Pil ed impatto economico sull’Ue sembravano trascurabili fino a quando gli spread non sono impazziti.

Ed proprio per via di questo doppio filo tra spread ed economie che la Bce ha voluto porre delle condizionalità forti, ad uno strumento che se inefficace rischia di compromettere l’intera zona euro. Come riportato da Open, in un articolo di Alessandro D’Amato, affinché entri in campo il Tpi è necessario che il Paese beneficiario stia rispettando il quadro di bilancio comunitario e non vi siano gravi squilibri macroeconomici; inoltre, la spesa pubblica dev’essere tenuta sotto controllo, così come occorre rispettare il Recovery Plan. Rispetto all’Omt e il Pepp, le differenze sono marcate. Facendo un’analogia col racconto di Riccioli d’Oro e i tre orsi, si può immaginare l’Omt come il freno più rigido a disposizione della Bce, poiché vincolato alle regole del Mes, al contrario, il Pepp è fin troppo lasco, poiché interviene in proporzione alle dimensioni dei Paesi che ne fanno uso, mentre il nuovo Tpi rappresenta una via di mezzo tra i due. Può intervenire in ogni momento e senza limiti d’acquisto, ma occorre rispettare i parametri sopracitati, e quindi “meritarselo”.

Infatti, come ha scritto l’economista Angelo Baglioni, su LaVoce.info, “Il nuovo “scudo anti-spread” non prevede meccanismi automatici: esso verrà usato dal Consiglio direttivo a sua discrezione, a patto che vengano soddisfatte una serie di condizioni impegnative. Non sarà facile usufruire dello scudo, soprattutto per un governo che intendesse approfittarne per allargare i cordoni della borsa.” Ed ancora, scrive Baglioni, “il nuovo strumento sarà tanto più efficace quanto maggiore sarà l’effettiva volontà del Consiglio direttivo della Bce di metterlo in pratica.”. Ma perché introdurre così tanta discrezionalità e tra l’altro in un momento in cui la Bce ha deciso di alzare i tassi per contrastare l’inflazione? Baglioni suggerisce come l’aumento dei tassi e il Tpi debbano essere inquadrati nell’ottica di un sistema a matrice, dove gli obiettivi da perseguire sono due e differenti, ma legati tra loro. “La manovra dei tassi di interesse serve a determinare il grado di restrizione (rialzo dei tassi) oppure di espansione monetaria (ribasso dei tassi): nel primo caso per frenare la domanda aggregata di beni e servizi e combattere così l’inflazione, nel secondo caso per agire nella direzione opposta. La gestione del bilancio della banca centrale (attraverso operazioni in titoli e di prestito al settore bancario) serve invece per assicurare la corretta trasmissione della politica monetaria in tutta l’area euro. Per avere una politica monetaria unica non basta avere una unica banca centrale, occorre anche che le condizioni monetarie e finanziarie siano uniformi in tutta l’area: in altri termini, che gli spread di tasso tra un paese e l’altro non si amplino troppo e per motivi meramente speculativi, slegati dai fattori fondamentali.”

Tradotto per chi è a digiuno, la Bce ha deciso di riavvolgere il nastro del tempo a prima dell’era Draghi e del Quantitative Easing, introducendo tra l’altro maggiori vincoli per quei Paesi che negli anni hanno speso molto (debito cattivo) ottenendo in cambio poco, spesso nulla, come nel caso dell’Italia.

Cambia il vento ma i partiti mantengono la stessa rotta

Lo stralcio dell’art. 10 del ddl Concorrenza e le proteste di Piombino potranno sembrare solo gli elementi di contorno di una campagna elettorale soggetta a temperature marziane e a colpi di calore, ma in realtà svelano qualcosa di più, ed è l’assenza di una direzione univoca. La Bce dal canto suo, invece, una strada la sta tracciando e spera che col Tpi i Paesi più rischio righino dritto, mentre quest’ultimi sembrano più che altro aspettare il momento propizio per giocarsi la carta dell’azzardo morale, imponendo così un salvataggio pirata, costi quel che costi, affinché l’euro non sprofondi nel baratro. Andrà davvero così? Forse, ma ciò che spesso non considerano i fautori dell’azzardo morale è che questo inverno le temperature rischiano di essere ben più roventi rispetto a quelle attuali, suggerendo così ai decisori scelte al limite dell’impensabile e forse anche oltre.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

I mali del capitalismo e della dottrina di Milton Friedman

Esistono teorie economiche non solo capaci di persistere ben più a lungo dell’esistenza stessa del loro fautore, ma persino di riuscire a esercitare un’influenza così persuasiva da plasmare intere generazioni di imprenditori. Milton Friedman, ad esempio, ha convinto il mondo intero che l’unica preoccupazione a cui debbano rispondere le imprese sia il tornaconto degli stakeholders che su di esse hanno investito i propri capitali. Ed oggi, a distanza di oltre 50 anni dalla nascita della sua dottrina, gli effetti del modello capitalista di Friedman sono ancora vivi e vegeti, come ben esemplificato dagli Uber files, dagli scioperi delle compagnie low cost e dall’ingerenza delle industrie del fossile sulla stampa libera.

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In campo economico esiste sempre almeno una teoria e quindi una soluzione per ogni genere di problema, anzi, spesso gli economisti riescono persino a generare più di opzioni, anche tra di loro confliggenti, per lo stesso tema, sia esso l’inflazione o l’occupazione. Lo stesso Keynes divenne famoso proprio per la sua capacità di formulare ipotesi capaci di spaziare in più direzioni, sino a diventare tra di loro divergenti. Tuttavia, e a dispetto della malleabilità dell’economia e della creatività dei suoi cultori, sembra non esserci cura capace di estirpare la dottrina partorita di Milton Friedman, secondo cui la responsabilità sociale di un’impresa si esaurisce nell’aumentare i soli profitti, il resto non conta. Tant’è che se per raggiungere tale obiettivo, ovvero rendere ricchi sé stessi e gli azionisti, fosse necessario bruciare il mondo o disgregare il tessuto di una società, andrebbe comunque bene e anzi, sarebbe un dovere morale farlo, pena il mancato rispetto degli interessi degli stakeholders; ovviamente gli unici ad avene di legittimi.

La dottrina di Friedman nacque negli anni ’70 e da allora guida tanto la penna che verga la storia quanto l’agire degli amministratori delegati di importanti società per azioni. Non sono stati sufficienti né i numerosi scandali privati, né le bolle speculative o il crescete del divario salariale all’interno delle grandi società: nulla scalfisce questa massima e gli interessi che essa difende. Neppure lo scandalo di Uber, in cui sono coinvolti politici di primo piano e le maggiori autorità europee, smuove l’opinione pubblica, la quale non pare non curarsi neppure del rapporto immorale tra media e industria fossile, né degli scioperi che affliggono il mondo dell’aviazione low cost. E dire che tutti questi tre casi mostrano, nel loro insieme, proprio la perversione raggiunta dalle idee di Friedman e i rischi che la società corre nel perseguire una dottrina tanto scellerata quanto refrattaria al cambiamento.

Il caso di Uber

La storia di Uber inizia come quella di ogni altra star-up che ambisce a cambiare il mondo. Viene analizzato un mercato ritenuto improduttivo, troppo ancorato allo status quo e meritevole di un salto di quel salto di qualità che solo una grande intuizione scaturita dalla riflessione di una personalità geniale può apportare e la magia californiana fa tutto il resto. Nel caso di Uber si è quindi scelto di penetrare in un mercato, quello europeo, dove il sevizio di trasporto pubblico è normato attraverso la cessione di licenze, bypassando però ogni regola e facendo un’attività di lobbying senza quartiere, così come una feroce lotta  a qualunque corporazione e regola. D’altronde, se vuoi cambiare il mondo e le sue regole non vi è limite che non si possa valicare, o questo è quello che devono aver pensato in California prima di avviare la macchina che l’inchiesta del The Guardian ha rivelato.

Ben 124.000 documenti e nomi di primissimo piano, come quello di Emmanuel Macron, Joe Biden, Matteo Renzi e Neelie Kroes. Quest’ultimo ai più potrà non dire molto, ma si tratta dell’ex commissaria europea alla concorrenza (il ruolo oggi ricoperto da Margherita Vestager), la quale, stando a quanto riportato dai file e dall’articolo di Francesca Canto, pubblicato su TPI, “si sarebbe offerta di organizzare una serie di incontri tra Uber, i ministri olandesi e gli alti funzionari Ue tra il 2014 e il novembre 2016 – contrariamente a quanto richiesto dalla normativa vigente – per un totale di 200 mila dollari all’anno, versati sul suo conto dall’azienda di San Francisco.” Non proprio l’atteggiamento di trasparenza che ci si aspetterebbe da un funzionario Ue, ma in questo Kroes non era di certo da sola, anzi, il pubblico di politici pronti a rivendicare come legittime le battaglie di Uber era assai folto, nonostante la compagnia californiana fosse dedita a pratiche del tutto scorrette. Nell’articolo di Canto si legge “secondo gli Uber files, alcuni membri dell’azienda avevano visto nella violenza i propri autisti un’opportunità, un modo per fare pressione sui governi dei Paesi europei al fine di riscrivere leggi che ostacolavano l’espansione di Uber nel vecchio continente. Alcune manifestazioni furono pianificate direttamente dalla società.” Per il co-fondatore di Uber, Travis Kalanick “la violenza garantisce il successo.” Una frase questa, che risulta assolutamente in linea con la dottrina di Friedman e con l’epilogo di questa triste pagina del capitalismo d’oggi. Già, perché all’indomani della pubblicazione dell’inchiesta del The Guardian, la risposta di Uber è stata che sì, sono stati commessi degli errori, ma dal 2017 l’Ad è stato rimosso e quindi il problema rientrato.

Un modo per dire “quello era il passato, oggi siamo diversi”. Che negli anni siano stati calpestati dei diritti, letteralmente comprati degli incontri con alti funzionari politici o assoldati black bloc per gettare discredito su intere categorie di lavori non conta, perché frutto avvelenato del passato. Ed a guardar bene i conti della società californiana si direbbe che sia proprio così, perché grazie a queste politiche commerciali è riuscita a far breccia in 77 Paesi del mondo a generare un fatturato di ben 6,9 mld di dollari, facendo così felici azionisti e manager: esiste altro per cui valga la pena lottare?

Una transizione all’insegna del greenwashing

È poi sufficiente svoltare pagina ed ecco che la dottrina di Friedman ricompare come per magia, conquistando un altro adepto del capitalismo amorale, anzi, in questo caso a lasciarsi sedurre dai profitti è persino l’intera eurozona, che non riesce proprio a dire di no ai combustibili fossili, nonostante le evidenze scientifiche e i danni (questa volta geopolitici) che da anni accompagnano le guerre in Medio Oriente ed oggi alle porte dell’Europa stessa. Niente, nulla è più forte dello status quo e del profitto.

Con 328 voti l’Europarlamento ha deciso che la tassonomia Ue non cambia, gas e nucleare sono green e utili alla transizione energetica. D’altronde, nei soli 6 anni successivi all’accordo di Parigi, sono stati ben 4,6 i trilioni di dollari investiti dalle banche di tutto il mondo nel settore fossile: che fai? Vendi tutto e cambi strategia perché qualche scienziato sostiene che estraendo gas, carbone e petrolio finirà l’era dell’uomo? No. Persino gli Esg contengono al loro interno forme di finanziamento a sostegno dell’industria fossile e a dirlo non è Topolino, ma l’Economist.

Eppure, nonostante i dati degli scienziati, i cambiamenti climatici tuttora in corso e l’azzardo morale che la Russia ha potuto giocare nei confronti dell’Ue, le energie fossili vincono su tutto e si prendono pure una rivincita simbolica attraverso i Media. Non vi sono, infatti, solo i giornali che sostengono apertamente teorie negazioniste e ritenute minoritarie in ambito scientifico, ma i Media stessi, nel loro insieme, devono parte della loro stessa sussistenza alla pubblicità che proviene dall’industria fossile. Da uno studio, realizzato Greenpeace Italia e l’Osservatorio di Pavia – rilanciato poi dal sito Valori.it – si evince come i principali Media italiani ricevano fondi dall’industria fossile e finiscano spesso per sottovalutare l’impatto di tale settore. Nell’articolo, infatti, si legge come “nei 528 articoli esaminati, le compagnie petrolifere sono indicate tra i responsabili della crisi climatica appena due volte”.Ed ancora Grazie alle loro generose pubblicità, che spesso non sono altro che ingannevole greenwashing – aggiunge Giancarlo Sturloni, di Greenpeace Italia – le aziende del gas e del petrolio inquinano anche il dibattito pubblico e il sistema dell’informazione. Impedendo a lettori e lettrici di conoscere la gravità dell’emergenza ambientale che stiamo vivendo. Se vogliamo che il giornalismo svolga il suo ruolo cruciale di watchdog nella lotta alla crisi climatica, anziché di megafono delle aziende inquinanti, dobbiamo liberare i media dal ricatto del gas e del petrolio.”

È forse chiedere troppo che vi sia indipendenza tra Media e industria del fossile? Secondo la vulgata dei promotori della dottrina di Friedman sì, perché ciò che conta è che i media sia sostenibili economicamente parlando e non che lo sia ciò che scrivono.

L’era dei viaggi low cost è al capolinea?

Ma che cosa significa sostenibile? Ecco, questo è un altro di quei concetti che muta a seconda degli interessi degli stakeholders, come ben esemplificato dal settore delle compagnie aree low cost. C’è stato un tempo in cui, grazie a compagnie come Ryanair, era possibile viaggiare con una manciata di euro, poi è arrivato il Covid-19, l’inflazione ed ora le legittime pretese di un settore che negli anni ha visto assottigliarsi sempre di più i propri diritti ed oggi sciopera per difendere ciò che ne resta. Voli cancellati ed altre forme di disagio per i viaggiatori stanno diventando sempre più frequenti, perché di fatto protestare è l’ultima carta che resta da giocare a un settore, quello dell’aerotrasporto, ormai ridotto all’osso.

Durante la pandemia sono stati licenziati molti dipendenti ed a emergenza conclusa, col sopraggiungere di ulteriori incertezze economiche e geopolitiche, non sono stati reintegrati lasciando una mole di lavoro di espansione sui pochi rimasti. L’intero settore dei viaggi low cost è diventato talmente insostenibile che persino chi è stato fautore del suo successo oggi nasconde la mano facendo finta che il sasso nello stagno sia stato gettato per errore (anche qui, le analogie col caso di Uber si sprecano). O’Leary stesso, infatti, patron di Ryanair, al Financial Times ha dichiarato “È semplicemente diventato troppo economico. Trovo assurdo che ogni volta che volo a Stansted (aeroporto di Londra dove fa base Ryanair, ndr), il viaggio in treno fino al centro di Londra sia più costoso del biglietto aereo.” E, come riportato dal The Post, O’Leary ha poi aggiunto: “È stato il mio lavoro [offrire viaggi aerei a buon mercato]. Ho fatto un sacco di soldi facendolo. Ma alla fine, non credo che nel medio termine i viaggi a un costo di 40 euro possano essere sostenibili. È un prezzo troppo economico», aggiungendo che in futuro le tariffe medie potrebbero salire a 50 o 60 euro circa.”

Il caso di Ryanair esemplifica una pratica presente anche nella vicenda di Uber ed in quella del settore dell’energia fossile, ovvero che è tutto lecito fino a quando genere un utile che sia ritenuto significativo per gli stakeholders. Se diventa essenziale garantire un servizio a un prezzo irrisorio, penetrare un mercato tutelato con manovre predatorie, oppure inficiare il giudizio del mondo accademico e di quello giornalistico, non importa. Ciò che conta è il rispetto della dottrina elaborata da Friedman negli anni ’70.

Ed oggi, a distanza di oltre mezzo secolo da quando l’economista statunitense gettò le basi per la condotta societaria, nulla sembra essere cambiato. Permane un esercito di vinti che affolla aziende dai bilanci stracolmi e destinati perlopiù a una manciata di eletti e ad azionisti interessati solo al proprio tornaconto personale. Possibile che nel 2022 debba continuare a regnare indiscussa una dottrina i cui effetti perversi accompagnano il capitalismo?

di Claudio Dolci e Roberto Biondini