L’economista in prestito, la Politica in debito – Il governo Monti

In meno di 30 anni sono già stati tre i governi tecnici che hanno dovuto gestire l’enorme debito pubblico italiano, che dagli anni ’80 in poi accompagna ogni esecutivo e ne condiziona le scelte. E tutte le volte che è stato istituito un governo tecnico, a guidarlo c’era sempre un’economista, prima Ciampi (’93), poi Monti (2011) e ora Draghi (2021), e c’è addirittura chi oggi ipotizza in futuro un ritorno di Tremonti a Palazzo Chigi e di Cottarelli in Regione Lombardia. Ma perché la politica italiana si lascia commissariare dall’economia e quali sono gli effetti dell’alternanza tra governi tecnici e partitici?

4 min di lettura

L’alternanza tra i governi politici e quelli tecnici è stata la vera protagonista della stagione della seconda repubblica italiana. Negli ultimi trent’anni, queste due categorie di esecutivi si sono rimpallati l’amministrazione dello stato centrale con buona pace degli amanti dei governi stabili. Infatti, nonostante una iniziale propensione al sistema elettorale maggioritario, dal 1992 ad oggi si sono succeduti ben 19 governi di tutti i tipi e di tutti i colori. Ed a puntellare, o sarebbe meglio dire soccorrere, questa lunga stagione politica si sono succeduti almeno quattro governi tecnici presieduti non da politici di professione ma da economisti di fama anche internazionale: Dini, Ciampi, Monti, Draghi. Personalità “prestati” alla politica per colpa della politica; un climax ascendente di personalità tanto desiderate e volute per risolvere i problemi di una classe dirigente incapace di guidare il timone della nazione senza andare a sbattere, quanto scaricate velocemente una volta concluso il lavoro sporco. Sarebbe semplicistico demonizzare completamente il perimetro attorno a questi governi tecnici, quanto, allo stesso modo, idolatrare senza riserva degli esecutivi anomali (forse non così tanto?) che hanno solcato il terreno della Storia politica recente. Ad ogni modo, un’analisi sul come i governi tecnici si siano inseriti nella gestione dell’affare pubblico ed un paragone sulla loro gestione rispetto a quella dei governi politici contemporanei, può essere interessante e certificare un approccio diverso alle sfide quotidiane della nazione. È chiaro che ogni esecutivo rappresenti un unicum, così come un fiocco di neve non si distingue da un altro, e che quindi le sfaccettature possano essere molteplici e di infinita riflessione, ma è comunque possibile tracciare una rotta affidandosi a una qualche stella polare, individuando dei target precisi da cui suggere per capire il comportamento del Tecnico rispetto a quello del Politico.

In un paese, come l’Italia, dove il debito pubblico è stato, ed è tutt’ora, il problema finanziario principale, dal quale a cascata ne discendono altri di valore economico, sociale e politico, un’analisi di come i governi tecnici si siano comportati, rispetto a quelli politici, nell’affrontare l’aumento del debito e del deficit è quindi, con le dovute cautele e approssimazioni, uno strumento adeguato per scoprire la visione del Politico e quella del Tecnico.

In questa prima ricerca, approfondiremo il caso del governo Monti, un esecutivo nato sulle ceneri dell’ultimo governo Berlusconi, quando il Belpaese era tecnicamente sull’orlo del baratro finanziario.

Il 16 novembre del 2011, l’ex rettore dell’università Bocconi di Milano venne nominato presidente del consiglio da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dal punto di vista politico, questo governo ebbe il sostegno parlamentare più largo della storia repubblicana: solo Lega e Italia dei Valori sedettero negli scranni dell’opposizione. Nella società civile l’arrivo di Monti venne segnalato come una manna dal cielo. I giornali, anche i più polarizzati, segnalarono una svolta nel modo di fare. Scriveva, per esempio, Pretini su Il fatto Quotidiano: Sul rigore difficile trovare passaggi a vuoto. Il governo ha impiegato una manciata di settimane per riformare le pensioni sulle quali nei diciotto anni precedenti sono caduti almeno un paio di governi.” Ma anche esponenti della Lega Nord stessa (all’epoca si chiamava ancora così) celebravano alcuni provvedimenti del governo Monti. Diceva, per esempio, Giorgetti nel 2011 in Parlamento: “Il pareggio di bilancio è funzionale, in una prospettiva di medio periodo valida per tutti i Paesi dell’euro, ad assicurare il rispetto dei parametri europei in termini di deficit e debito pubblico.” Insomma, parole d’oro nei confronti dell’esecutivo non scarseggiavano e anche presso chi avrebbe potuto semplicemente criticare e basta. Tuttavia, alla fine della legislatura (e pure negli anni a seguire) il governo Monti è stato ripetutamente demonizzato e additato come responsabile della crisi economica del biennio 2012-2013, oltre che per la Riforma Fornero, la Legge Severino ma soprattutto l’aumento delle imposte in un periodo di crisi economica, con risultati (secondo i detrattori) pessimi per il sistema Italia. Matteo Renzi, per esempio, diceva: “La cultura dell’austerity ha visto aumentare il numero di famiglie in povertà, un PIL negativo e crescere le disuguaglianze. E paradossalmente in quegli anni il rapporto debito-Pil è peggiorato perché senza crescita il debito sale, sempre.” Come si usa dire in questi casi, una storia d’amore giunta alla frutta fin troppo presto, forse anche a causa dell’errore politico di Mario Monti di “salire in campo” (come amava dire lui per distinguersi da chi “scese”) togliendo chiaramente spazi alla politica tradizionale. Sta di fatto, che oggi, nei salotti dei partiti si fa fatica a trovare un esponente che celebri il mandato di Mario Monti a guida del governo tecnico del 2011, nonostante buona parte di questi personaggi lo abbiano appoggiato per lungo tempo.

Vediamo ora però più nel dettaglio l’effettivo comportamento del governo Monti verso i valori del deficit e del debito italiano durante il suo periodo di azione. Questo, anche per capire la validità o meno delle critiche sul suo conto di distruzione della produzione italiana.

Nel terzo trimestre di quell’anno, il PIL italiano era sceso dello 0,5 per cento e nel quarto trimestre crollò addirittura dell’1 per cento. Ma come abbiamo scritto, il governo entrò in carica a metà del quarto trimestre, si tratta quindi di problemi ereditati da una precedente gestione. Perché scese il PIL? In quel periodo il famoso spread aveva raggiunto vette mai viste (oltre i 500 punti base). Come molti sanno, ciò significava un aumento dei tassi d’interesse sui titoli di Stato e un costo quindi più oneroso del debito pubblico. In quel periodo finanziare la spesa pubblica chiedendo soldi sui mercati voleva dire pagare degli interessi altissimi. L’aumento dello spread ha effetti negativi sull’economia attraverso due principali canali. Il primo è di natura finanziaria: se tassi di interesse sui titoli di stato aumentano, tende a crescere anche il costo del denaro per banche, imprese e famiglia. Di conseguenza, le banche diventano più prudenti a prestare e razionano il credito (dandolo a chi ha più chance di essere solvente). E se i tassi d’interesse sui nuovi titoli emessi crescono, il valore di quelli già in pancia diminuiscono, offrendo questi ultimi un tasso d’interesse più basso sui mercati secondari. Di fatto, si creano buchi nei bilanci delle banche. In senso opposto, anche chi prestava denaro allo stato italiano di allora tendeva a fidarsi sempre meno proprio per via dell’aumento dello spread, fomentando così un circolo vizioso di aumento dei tassi d’interesse. Insomma, è stato quindi l’aumento dello spread insieme al calo nelle nostre esportazioni per la minore domanda che veniva dall’estero a causare la caduta del PIL nel 2011. Questo lo dice Cottarelli, uno tra i massimi esperti di economia del nostro secolo.

Come si è quindi comportato il governo Monti?

Nell’immediato, l’esecutivo rafforza i conti con misure restrittive che già Berlusconi aveva cominciato a introdurre: misure che ammontano a circa il 2-2,5% del PIL, la più consistente misura restrittiva dal 1997. La conseguenza immediata è un calo della crescita economica dovuto ad un aumento delle imposte. Ma come ci segnala la statistica, il calo del PIL è rimasto nei primi trimestri 2012 in linea con i cali dei due trimestri precedenti, segno che il calo derivi comunque anche dagli alti tassi d’interesse. Avrebbe potuto fare il contrario? Cioè aumentare la spesa per rivitalizzare l’economia come teorie keynesiane spesso ci insegnano? No, questo perché l’Italia non era un Paese con i conti in ordine. Fosse stata la Germania, un aumento di debito non avrebbe avuto effetti collaterali sul suo spread, mentre si sa invece come fosse la condizione italiana in quel momento sia dello spread sia del debito. Aumentare la spesa avrebbe di fatto chiuso la porta ai compratori di nostro debito, provocando il default.

Cosa venne allora a mancare? Sicuramente la stretta fiscale doveva essere accompagnata da un’azione diretta della BCE per calmierare lo spread. Cosa che in realtà avvenne, ma purtroppo in leggero ritardo, solamente nel luglio 2012 con il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi. Il ritardo fu sicuramente dovuto all’opposizione nordica di utilizzare la banca centrale come “cassa” ma ad ogni modo, sembra inverosimile che se l’Italia non avesse imposto a sé stessa una stretta fiscale si sarebbe creata una politica monetaria centrale espansiva nei suoi confronti. Allo stesso modo, mancò un coordinamento europeo di utilizzo di debito comune per finanziare la spesa, come avvenuto finalmente con il Recovery Fund. Solamente in quella circostanza l’Italia si sarebbe potuta permettere di spendere con meno preoccupazione. Ma la cecità (e il timore) delle singole nazioni europee di allora impedì la maturazione di questo approccio.

E nei numeri, l’azione del governo Monti cosa ha comportato?

Il rapporto deficit/PIL nel 2012 diminuì dal 3,7 al 2,9%. Il calo è avvenuto nonostante l’impennata della spesa per interessi dovuta all’aumento dello spread. Al netto degli interessi, la parte primaria del bilancio è migliorata dell’1,5%, con un avanzo primario che ha toccato il 2,1% del PIL.  Perciò questa austerità è servita a migliorare i conti pubblici. Il debito pubblico, invece, aumentò dal 116,5% al 123,4%. Cos’era legato questo dato? A tre fattori chiave: il deficit (come appena citato) che era diminuito ma comunque alto, l’aiuto avvenuto in quell’anno per i paesi europei in crisi (Portogallo, Grecia e Irlanda) e in parte anche all’effettiva politica di austerità. È quindi vero che una politica di austerità porta ad un aumento del rapporto debito/pil. Ma si senta ancora Cottarelli sul tema: “Si tratta di un effetto del breve periodo. Il motivo è che una riduzione del deficit causa una riduzione permanente della velocità a cui il debito cresce mentre causa una riduzione una tantum nel livello del PIL, ma non una riduzione del suo tasso di crescita. Insomma, se in una fase iniziale il rapporto fra debito e pil cresce per effetto di un taglio della spesa pubblica, in seguito il rapporto comincia a scendere perché il debito si accumula ad una velocità minore, mentre il PIL, dopo un calo iniziale non scende più.” E di fatto, il rapporto debito/PIL si stabilizzò. Si stima che senza la stretta fiscale, il debito pubblico sarebbe salito al 142% entro il 2018, rispetto al 131%.

Insomma, il governo Monti operò in una situazione di crisi nera per il Bel Paese, con tutti gli errori che una manovra fatta in velocità può comportare (vedere gli esodati) ma affermare che si sia sbagliato proprio l’approccio non solo è falso ma è anche umiliante per la classe politica che primo, è stata collusa nella formazione della precarietà dei conti pubblici, e secondo, ha voluto fortemente quel governo votando legge dopo legge per poi dimenticarsene allegramente. Il Paese vessava in condizioni terribili dal punto di vista di bilancio e frenare questa pazza corsa verso il burrone non si sarebbe potuta fare, purtroppo, senza lasciare delle sgommate sul terreno: milioni di cittadini si sono impoveriti dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla crisi del debito sovrano del 2010, il margine di manovra era risicato e misure di sostegno  per questi ultimi sarebbero stati possibili grazie ad un costo del denaro più basso che arrivò dalla BCE poco più tardi con l’intervento di Mario Draghi e grazie a misure di accorgimento sui conti pubblici. Ignorare la realtà e semplificare l’analisi scaricando, quindi, la responsabilità totale di un problema cronico su qualche capro espiatorio pure inventato (Monti, Fornero e Poteri Forti) non rende orgoglio ad una grande Nazione ma delucida una patologia di rigetto di responsabilità che non farà crescere questo Paese.

Roberto Biondini e Claudio Dolci

L’Italia alla prova della serietà 

3 min di lettura

Tanto tuonò che piovve. Non era difficile prevedere che Mario Draghi non si sarebbe fatto tirare a lungo per la giacchetta. D’altronde la sua storia personale parla chiaro, dalle scelte storiche di politica monetaria introdotte quando ancora era presidente BCE fino ad arrivare alle narrazioni sul suo modo di approcciare ogni interlocutore, c’è sempre stato un filo conduttore esplicito: la serietà. Una caratteristica che potrebbe sembrare banale ma che in realtà raccoglie sotto il suo ombrello l’insieme delle proprietà caratteriali di Draghi nell’affrontare ogni sfida che ha avuto davanti e che ultimamente è stata sottovalutata da un partito della sua maggioranza. 

Di quando lavorava a Francoforte, voci di corridoio hanno sempre sottolineato il suo pragmatismo nel gestire ogni problema, ascoltando la voce di molti senza mai, però, allontanarsi da quello che lui riteneva giusto e che si legava ai suoi valori. E questo suo modo operandi deciso ma anche capace (non si diventa per otto anni presidente BCE senza questa caratteristica) lo hanno reso uno degli interlocutori più rispettati dei nostri giorni, dalla destra alla sinistra, da Confindustria fino alle sigle sindacali, dai capi di partito fino al presidente degli Stati Uniti. “Draghi un maestro, quando parla lui in Consiglio europeo stiamo tutti zitti ed ascoltiamo” diceva poco più di un anno fa il premier spagnolo Sanchez a margine di un incontro a Bruxelles. Complice poi la mancanza di una forte leadership in Europa, post era Merkel, Mario Draghi ha acquisito il ruolo di perno centrale per una UE atlantista, in una fase, questa, di difficoltà per il mondo occidentale. Insomma, un cursus honorum brillante che giustamente (e qui bisogna sottolinearlo, soprattutto nell’era dell’uno vale uno) lo ha portato ad essere un presidente del consiglio quanto meno competente in materia e con un ottimo rapporto con le cancellerie mondiali, non tralasciando la stabilità finanziaria che ha prodotto, in un’epoca storica dove il capitalismo finanziario ha difatti moltissima influenza sulla politica. 

Quando Mattarella un anno e mezzo fa lo chiamò al Quirinale per risolvere la crisi di governo del Conte II innescata da Matteo Renzi, diversi opinionisti nonché varie testate giornalistiche sottolinearono la sua accettazione a formare un governo (nel parlamento più sovranista e populista della Storia repubblicana) più per dovere istituzionale e morale che per desiderio personale di traghettare l’Italia fuori dalla crisi del Covid. Molti si chiedevano come avrebbe potuto portare avanti una compagine così eterogenea di parlamentari nella crisi peggiore dal dopoguerra ad oggi. Si usciva da un contesto frammentato di accuse e contro accuse tra i partiti, il ritardo sulla presentazione del progetto del PNRR sembrava ormai un dato di fatto e l’uscita dalla pandemia attraverso la vaccinazione pareva ancora per lo più un miraggio. Mario Draghi era però più spaventato dal primo ostacolo che da tutti gli altri. Si poteva lavorare sul piano tecnico per la ripresa economica del Paese, magari non riuscendoci, ma non avrebbe potuto né sopportare né sopperire alla lotta dei veti e contro veti dei partiti. La soluzione del governo di unità nazionale fu quindi la strada unica percorribile per poter cominciare l’avventura di governo. Lo disse dal primo giorno del suo esecutivo, ripetendolo volta per volta, domanda dopo domanda, fino all’ultima sua dichiarazione stampa prima delle dimissioni: “Per me non c’è un governo senza i 5 stelle, ma questo governo continua finché riesce a lavorare.” Tenere uniti tutti è sempre stata la sua arma di “ricatto” nei confronti dei partiti: o ci state tutti oppure me ne vado, non mi faccio dilaniare da fuoco amico per motivi elettorali. E bisogna ammettere che questa scelta è risultata vincente per almeno un anno e mezzo (un’era geologica nella repubblica parlamentare italiana) ma non è stata sufficiente per valere fino alla conclusione della legislatura. 

Più ci si è avvicinati alla scadenza naturale della legislatura, più i partiti hanno iniziato a punzecchiare l’esecutivo e la maggioranza per testare il terreno. Prima lo scontro PD-Lega sulla cittadinanza agli stranieri e sulla cannabis, poi soprattutto l’escalation grillina (ormai contiana?) contro alcuni punti del DDL aiuti che si è però talmente ramificato su aspetti più generali (vedi i nove punti di Conte) che manco si riesce più a capire quale sia stata la vera causa dello strappo.

A parere di chi scrive, non ne esiste una vera e propria, anzi, forse non n’è mai esistita una diversa da quella di voler recuperare consenso in caduta libera come nessun partito nella storia italiana. Il movimento 5 stelle, per varie concause interne ed esterne al suo partito, ha intrapreso una discesa senza freni nella sua popolarità che lo ha portato a spingere qualsiasi tasto sul quadrante per cercare di frenare, senza contare su eventuali effetti collaterali prodotti dalle proprie scelte. A questo non si può omettere che, dall’altra parte, la corrente sovranista della Lega non ha perso attimi per gettare benzina sul fuoco tirando in ballo le elezioni per fare un’OPA sul nuovo parlamento.

Tirare la corda ha i suoi pro, se sai fare Politica con la P maiuscola, ma se ti sfugge di mano la situazione e soprattutto se dall’altra parte non c’è un politico ma Il tecnico per eccellenza, allora ti accorgi che il politichese ha poca presa. E così Mario Draghi, in linea con ciò che aveva sempre detto, non ha perso un attimo per ribadire il suo pensiero ed essere ligio ai suoi principi, rimettendo nelle mani del Presidente della Repubblica il suo mandato. 

Un’analisi potrebbe quindi essere svolta sulla cecità della classe politica italiana di oggi per quanto concerne la serietà delle idee. Purtroppo, siamo sempre stati abituati che l’ultimatum è in realtà un “penultimatum” e che quindi ogni volta che i giochi sembrano chiusi, essi possano in realtà riaprirsi senza problemi. Ogni volta che si stabilisce un principio, questo può essere naturalmente capovolto con un complicato linguaggio da azzeccagarbugli. Una cultura corrotta del parlamentarismo italiano che ha portato piano piano a fidarsi sempre meno della classe dirigente portando in parlamento forze demagogiche e innalzando a nuovi record l’astensione. Una distanza dal paese reale che si fa sempre più ampia e paurosa, una mancanza cronica di assunzione di responsabilità che è riuscita, nel caso della crisi del governo Draghi, a mettere d’accordo qualsiasi sindaco, presidente di regione, sindacato, sigla imprenditoriale, comunità civile e religiosa come mai prima. Come si è arrivato a tanto? Ma soprattutto, dove si può ancora arrivare? 

Nessuno sa cosa farà Mario Draghi mercoledì prossimo: se dicesse di sì al Draghi II si mangerebbe la sua parola, se invece dicesse di propendere per il no potrebbe essere imputato come il responsabile finale dell’affondamento della nave, se intendesse proseguire con lo stesso governo, come farebbe a fidarsi d’ora in avanti? È naturale sperare che questa crisi di governo rientri, ci sono troppe scadenze da rispettare, misure sociali da prendere e accordi internazionali delle quali essere protagonisti, ma quand’è che ci si inizierà a prendere “seriamente sul serio”? Quand’è che il politicante lascerà spazio al politico? Quand’è che prima dell’interesse dei partiti verrà anteposto l’interesse della Nazione?

Di Roberto Biondini e Claudio Dolci

L’economista in prestito, la politica in debito

In meno di 30 anni sono già stati tre i governi tecnici che hanno dovuto gestire l’enorme debito pubblico italiano, che dagli anni ’80 in poi accompagna ogni esecutivo e ne condiziona le scelte. E tutte le volte che è stato istituito un governo tecnico, a guidarlo c’era sempre un’economista, prima Ciampi (’93), poi Monti (2011) e ora Draghi (2021), e c’è addirittura chi oggi ipotizza in futuro un ritorno di Tremonti a Palazzo Chigi e di Cottarelli in Regione Lombardia. Ma perché la politica italiana si lascia commissariare dall’economia e quali sono gli effetti dell’alternanza tra governi tecnici e partitici?

3 minuti di lettura

Ogni società occulta dentro sé stessa un frammento del proprio passato mistico, sia esso un rituale, un inno o più semplicemente un riferimento a un’entità superiore alla quale affidare le proprie preghiere, speranze e paure nei momenti più bui. Per i britannici molto di tutto ciò è racchiuso nel noto God save the Queen, mentre in Italia quando cresce il timore per il baratro ci si affida sempre di più agli economisti. L’Italia, ad esempio, coltiva pressoché da sempre, e per ragioni storiche, il mito del salvatore a cui consegnare le sorti del proprio destino, ed ovviamente ogni responsabilità: sia in caso di successo, sia di insuccesso. D’altronde, essendo stato il Belpaese zona di dominazione straniera per lungo tempo, la conseguente alienazione dal sentimento di Stato si è spesso tradotta col disinteresse verso il consolidamento del Bene Comune, visto più come bene di qualcun altro che proprio. Da questo incastro storico è così nato un genuino rimbalzo delle responsabilità verso l’esterno, una burocrazia macchinosa e quindi una delegittimazione degli organi preposti a dirigere lo Stato.

Questa cultura del “rimbalzo” non è quindi estranea alla politica italiana e troppo spesso si sono infatti materializzate delle situazioni socio-economiche talmente gravi da imporre il richiamo ad un vero e proprio “deus ex machina”, quale simbolo di speranza e allo stesso tempo oggetto di accollamento di ogni forma di responsabilità. In particolare, quando nel recente passato è cresciuto il timore per il baratro economico e/o sociale ci si è affidati sempre più spesso agli economisti. Sono loro, a conti fatti, a rappresentare l’incarnazione tutta italiana della provvidenza, le perenni riserve dello Stato a cui attingere nei momenti del bisogno, sempre pronti a risolvere i problemi di una classe politica che negli ultimi trent’anni non è stata capace di essere autonoma. Questa anomalia ha radici profonde che trovano la loro origine nel ’93 con l’ex banchiere Ciampi, poi Monti e ora Draghi, con l’auspicio che nel futuro figure come quella di Tremonti e di Cottarelli possano continuare sulla loro scia: uno come Presidente del Consiglio e l’altro come governatore della Regione Lombardia. Insomma, ovunque si volga lo sguardo, che sia destra, sinistra o centro, la figura degli economisti prende sempre più la forma del “salvatore”, con il commissariamento a tempo indeterminato dei politici di professione. Ma come mai si è innescato questo meccanismo di debordamento del sistema economico a danno di quello politico e quali possono essere gli effetti?

In primis, a segnare la svolta è stato l’avvento della società per specializzazione e quindi l’aumento del ricorso alla tecnocrazia come forma di governo preferenziale. Ciò significa che non vi possa essere ministro migliore di colui che per primo conosce la materia; ne consegue che all’istruzione e Università sia nominato un docente, alla sanità un medico e all’economia un’economista. D’altronde, chi se non un cultore della materia può gestire al meglio un ministero ad essa dedicata? Questo ragionamento fila per un po’, per poi inciampare rovinosamente su sé stesso, perché proprio secondo tale imperativo dovrebbe essere un politico di professione a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio e non un economista in senso stretto, men che meno se banchiere. Ed è proprio qui che emerge il dubbio: è corretto il ricorso ossessivo agli economisti?

Dagli anni ’80 in poi il debito pubblico del nostro Paese ha letteralmente preso il decollo e senza che vi fossero ragioni esterne tali da giustificare uno scostamento così elevato rispetto alla media UE. Ed è stato proprio questo ricorso smodato ai soldi dei contribuenti, necessario per tappare i buchi di bilancio ed elargire regalie di ogni sorta di categoria e capaci di aggregare attorno a sé dei voti, ad aprire la via agli economisti prestati alla politica. Questi ultimi, una volta eletti a deus ex machina, sono poi saliti al Colle ed hanno costruito maggioranze, sempre molto ampie, per cercare di aggiustare solo e sempre una cosa: i conti pubblici. Di fatto l’economista che guida il governo non viene chiamato a fare politica, ma solo a risolvere un problema per poi dissolversi nel nulla delle urne e magari ricevendo (molti) insulti su come si fa quel mestiere.

Nel’93 Ciampi prese le redini di un Paese in preda a crisi di natura sia partitiche (Tangentopoli e la crisi dei partiti avevano dilaniato la fiducia dell’elettorato), sia economiche. Infatti, l’Italia era lontana dagli obiettivi fissati dal Trattato di Maastricht che lei stessa aveva firmato ed erano ancora presenti grossi colossi statali nati col dopo guerra (l’Iri su tutti). Ed una volta chiusasi la parentesi Ciampiana la politica riprese il suo corso come se nulla fosse mai accaduto, fino a quando, nel 2011, il differenziale tra BTp e Bund non superò i 500 punti base e l’Italexit non era più così impensabile. Subentrò quindi l’esecutivo guidato da Mario Monti, che rinforzò sì i fondamentali economici italiani, ma con misure lacrime e sangue, per poi lasciare il testimone a Letta e successivamente a Renzi. Passarono altri governi, ed ecco ritornare alla guida del Paese un’economista, Mario Draghi, anche lui chiamato per traghettare l’Italia fuori dalla crisi sanitaria e partitica, nonché economica ed ambientale. Le analogie che accompagnano tutti questi governi tecnici sono quasi sempre state le stesse: crisi partitica ed economica insieme, ma è l’ordine tra questi due fattori ad essere fondamentale. È la crisi economica a determinare quella politica o viceversa? E qual è, ammesso che eista, il nesso causale tra le due?

Di fatto la parabola dell’economista che risolve i problemi è una costante della cultura politica italiana. Interessante sarà quindi analizzare due differenti fenomeni: da un lato, come questi governi tecnici si formino, agiscano e vengano successivamente rivalutati dalla società stessa che li aveva formati, dall’altro come l’eredità di questi tecnici venga spesa dai governi successivi, perlopiù di natura strettamente politica.

Nasce così una rubrica che vuole fare un po’ più di luce su questa dinamica squisitamente in salsa italiana, con un’intenzione critica e d’inchiesta.

Roberto Biondini e Claudio Dolci