Il PNRR: il Piano Nazionale di Ricerca dei Responsabili

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Il cortocircuito istituzionale che stiamo vedendo in questi giorni oscilla tra la commedia e la tragedia; quello che è certo che l’Italia non ci fa una bella figura. Il ritardo ormai certificato nell’utilizzo dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sembra quasi inarrestabile e piuttosto che soffermarsi sul “perché” (come il pragmatismo vorrebbe), la classe dirigente continua a ragionare sul “chi”, alla ricerca di un capro espiatorio capace di espiare le colpe e di veicolare l’attenzione della popolazione.

Sta di fatto che ogni giorno che passa, l’esecutivo cerca redenzione dai suoi elettori, spiegando loro l’impossibilità di poter intervenire su questo dossier, avendo le mani legate causa governi precedenti ed istituzioni comunitarie. E c’è talmente tanta confusione tra note ufficiali, dichiarazione alla stampa, voci di corridoio e media più o meno schierati, che anche i più interessati alla vicenda fanno veramente fatica a comprendere dove stia la verità. E la verità nei confronti dei cittadini che sono i destinatari di questi miliardi che ora rischiano di perdere, pare al quanto necessaria. È umano che nessuno voglia metterci la faccia per giustificare l’eventuale perdita dei fondi del PNRR, farebbe vergognare chiunque, ma impegnarsi nella cosa pubblica significa proprio assumersi le responsabilità di ciò che riguarda una comunità, di assumersi le colpe almeno quanto vengono sbandierati i successi. La maturità, la civiltà di un Paese si può intravedere proprio da questo e l’Italia dimostra di essere una piccola nazione tra le grandi nazioni.

Ma a parte queste stoccate moraliste che magari non hanno alcuna presa nella società in cui viviamo, dove forse il cinismo e la propaganda prevalgono, la mancanza di trasparenza sul PNRR, la concentrazione dell’esecutivo a trovare dei responsabili piuttosto che lavorare sul recepimento dei fondi è una mossa politicamente strategica ma rischiosa: sarebbe meglio lavorare in silenzio con la Commissione Europea, cercando di capire quali sono i punti più sensibili, magari anche giustamente vista le condizioni della nostra macchina burocratica, e negoziare una via di uscita ma al contempo impegnandosi sodo per mostrare la serietà del sistema Paese.

Perché stavolta è diverso, i compiti a casa non vengono richiesti dalla UE per il semplice obiettivo di farli (che comunque fa parte di un gioco che l’Italia ha sottoscritto) ma perché in cambio Roma riceverebbe dei finanziamenti anche a fondo perduto che da sola non potrebbe senza subbio ottenere. Se si ragiona un attimo sembra proprio una follia che questi soldi in buona parte gratis vadano persi, ma pare che essa sia di casa nel Bel Paese.

Se si perderanno i soldi, poi, l’effetto tsunami è molto più potente della scossa di terremoto in essere: perdita di credibilità con il resto dei partner commerciali e finanziari, stop a futuri fondi comunitari e probabilmente perdita di alleanze strategiche nei posti che contano. Non a caso il professor Giavazzi, già consigliere di Mario Draghi ai tempi del governo, scrive sul Corriere che perdere la faccia oggi, anche in riferimento al MES, significa essere senza amici in sede di approvazione del nuovo Patto di Stabilità e Crescita che potrebbe esserci svantaggioso se gli altri Stati dell’Unione si metteranno d’accordo per una stretta di bilancio più di quanto noi vorremmo e potremmo sopportare per le condizioni precarie in cui versiamo. Insomma, l’effetto stigma sarebbe per noi geopoliticamente svantaggioso oltre che per tutte le motivazioni finanziarie già citate.

E si torna a dare la colpa a Germania e Francia, che a quanto trapela da Palazzo Chigi, sono in combutta per poter far sfigurare Giorgia Meloni agli occhi di tutti. Che il gioco della geopolitica sia una partita a scacchi è certo; che i Paesi frugali non vedano l’ora di dimostrare quanto siamo incapaci di usare fondi comunitari è probabile; che però Macron e Scholz siano così impegnati a far cadere Meloni è pura fantasia demagogica usata per martirizzarsi nel momento in cui non sa più cosa dire. Siamo sicuri che stiamo usando al meglio le nostre carte?

di Roberto Biondini

La complessità del mercato elettrico: attenzione a quello che si legge sulle bollette

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Negli ultimi mesi abbiamo assistito, diverse volte, ad annunci da parte dei media dove si affermava che il caro bollette sarebbe rientrato. Durante il lockdown alcune agenzie di informazione del calibro di Bloomberg erano arrivate addirittura ad affermare che i consumatori sarebbero stati pagati per l’elettricità consumata, visto che la crisi aveva abbattuto i prezzi del mercato. Nella maggior parte dei casi queste informazioni si sono rivelate sbagliate, in quanto non fondate su una solida comprensione delle dinamiche del mercato dell’elettricità. Il ragionamento più comune tra giornalisti in queste settimane è che al calare del prezzo del gas debbano calare anche le bollette. Tuttavia, la realtà del mercato elettrico è molto più complessa di così, e se è vero che c’è una relazione tra il prezzo del gas e quello dell’elettricità che viene distribuita al consumatore, è vero anche che i passaggi intermedi sono molteplici. Parliamo, infatti, di una commodity che ha caratteristiche molto particolari e che, non essendo facilmente immagazzinabile, si espone molto più di altri prodotti alla volatilità dei prezzi. Cerchiamo quindi di ripercorrere il flusso commerciale dell’elettricità, analizzando come diversi mercati determinino il prezzo finale che il consumatore andrà pagare in bolletta.

Il mercato dell’elettricità wholesale (all’ingrosso) e retail (al dettaglio)

Lasciando perdere per un attimo il mercato del gas e, più in generale, dei combustibili fossili, esaminiamo il percorso dell’elettricità a partire dai produttori. In Europa così come negli Stati Uniti la produzione elettrica è stato liberalizzata verso la fine del secolo scorso. In un contesto competitivo, coloro che hanno degli impianti di produzione, che siano alimentati a rinnovabili o risorse fossili, vendono i loro prodotti nel mercato all’ingrosso (wholesale market). Tra i compratori del mercato all’ingrosso abbiamo grandi consumatori industriali, che per risparmiare preferiscono stipulare contratti a lungo termine direttamente con i produttori, e i così detti rivenditori al dettaglio, ovvero quelle aziende che si occupano di portare l’elettricità nelle nostre case.

Il mercato al dettaglio (retail market) è il secondo mercato che troviamo seguendo il flusso commerciale dell’elettricità. Ed è qui che avviene la vendita al consumatore finale (fatta eccezione per i grandi consumatori), nonché dove si determina il prezzo della bolletta. Se nel mercato all’ingrosso il prezzo dell’elettricità rispecchia per lo più quelli che sono i costi di investimento e di produzione (quindi anche dei combustibili), nel mercato al dettaglio, invece, oltre a tali voci di spesa devono essere incluse anche quelle di trasmissione e di distribuzione, con annesse tassazioni.

Il prezzo di una bolletta tedesca pre-crisi del settore energetico

Il grafico ci mostra come una tipica bolletta tedesca (del periodo precrisi energetica) possa essere suddivisa nei suoi vari costi, passando dal mercato all’ingrosso, là dove l’elettricità viene immessa in rete dai produttori, al mercato al dettaglio, dove l’elettricità raggiunge i consumatori finali.  Volendo essere precisi, ci sarebbe anche un terzo mercato dell’elettricità, quello dei system services. Si tratta di un mercato di scambio di servizi chiave per il sistema elettrico, anche se ha un impatto limitato sui prezzi finali. Il suo ruolo, infatti, è quello di tenere l’intero sistema che regola l’approvvigionamento energetico in costante equilibrio, evitando così cali di frequenza che potrebbero causare dei blackout.

Il divario dei prezzi e le analogie tra energia elettrica e petrolio

La relazione tra mercato all’ingrosso e al dettaglio dell’elettricità è simile a quella tra il prezzo di un barile di greggio e quello indicato alla pompa di benzina. Se ci pensiamo bene, durante il lockdown i prezzi del petrolio al barile sono stati negativi per diversi giorni, ma il prezzo alla pompa è sempre rimasto oltre la soglia dell’euro al litro. E ormai capita spesso anche che i prezzi dell’elettricità possano andare sotto la soglia dello zero (anche settimanalmente). Nessun consumatore si è però mai visto recapitare un compenso per l’elettricità consumata o andare a fare benzina gratis. In tal senso, il paragone col petrolio può aiutarci a comprendere il divario tra i prezzi, anche se, come detto sopra, l’elettricità ha delle caratteristiche assai peculiari. In primis, non essendo facilmente immagazzinabile, ci deve essere un equilibrio continuo tra elettricità prodotta e consumata. Il petrolio può essere stoccato in barili, navi etc. mentre l’energia elettrica (salvo gli esperimenti di gigantesche batterie) viene consumata o dispersa.

Il problema della complessità dei prezzi, poi, emerge anche dal fatto che all’interno di questi “macro” mercati che abbiamo descritto (wholesale e retail), ci sono a loro volta dei “micro” mercati che giocano un ruolo determinante sui prezzi. Per esempio, all’interno del mercato all’ingrosso abbiamo prodotti caratterizzati da maturities molto diverse. Ad esempio, ci sono contratti a lungo termine, attraverso cui i produttori vendono gran parte dell’elettricità prodotta e che sono poi quelli che rendono però più difficile un calo di prezzi repentino. D’altro canto, chi distribuisce l’energia elettrica ne determina il prezzo in funzione dei costi d’approvvigionamento che ha dovuto sostenere. Chi ha comprato energia a prezzi bassi ci ha guadagnato durante la bolla del 2022, ma coloro che hanno stipulato contratti durante quel periodo ora deve rientrare dei costi ed è difficile che decidano di vendere sottocosto. Inoltre, ci sono da considerare anche mercati spot, dove l’elettricità viene venduta quotidianamente (day-ahead auction) o anche addirittura momentaneamente (intra-day trading). Ed anche in questi casi l’oscillazione dei prezzi gioca un ruolo nel calcolo del prezzo della bolletta.

La realtà dei Media e quella del mercato dell’energia elettrica

Se soltanto all’interno di uno dei mercati più importanti dell’elettricità c’è così tanta differenza sia in termine di prezzi, sia di prodotti, è evidente che comprendere le dinamiche del mercato nella sua interezza risulta molto difficile. È per questo che si assiste spesso ad errori nelle previsioni o ad annunci shock. Per quanto riguarda le tendenze dei prossimi mesi è molto probabile che si assisterà a un importante calo dei prezzi in bolletta, dovuto sia all’arrivare della bella stagione sia alla normalizzazione dei prezzi del gas (effetto che si può ben comprendere attraverso il merit order model). In un contesto così incerto com’è quello attuale, soprattutto in campo energetico, occorre fare attenzione agli annunci troppo belli per essere veri e ricordarsi che il legame causa-effetto si presta a interpretazioni superficiali e per questo fallaci.

di Guglielmo De Puppi

Attacco al welfare state. La riforma previdenziale francese e la fragilità politica di Macron

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“Liberté, égalité, fraternité, retraite”. Uno scherzo? Purtroppo no. L’aria che si respira a Parigi in queste settimane pare la stessa del 1789: da una parte ci sono le forze dell’ordine che reprimono i moti di piazza sotto l’indicazione di un Presidente privo di maggioranza parlamentare. Dall’altra, invece, i manifestanti, la cui rabbia monta giorno dopo giorno e che oggi non si accontentano più di protestare contro la riforma delle pensioni, a detta della maggioranza, fatta male; no, chi scende in piazza lo fa perché desidera difendere la democrazia dalla deriva autoritaria. Ed è questo il cortocircuito a cui può portare l’insipienza politica di chi fatica a far quadrare i conti pubblici. La miccia, infatti, non si trova né in Parlamento, né tra le voci dei cortei che sfilano accompagnati dalla Marsigliese, ma tra le pieghe del bilancio francese, falcidiato dalla pandemia, dall’inflazione e dalla politica dei tassi decisa dalla banche centrali.

Il sistema previdenziale francese

Innanzitutto, che cosa prevede la riforma voluta da Macron e come funziona il sistema pensionistico francese? La Francia spende ogni anni circa 350 mld di € per il comparto pensionistico (come riportato da Il Foglio e da LaVoce.info), pari a circa il 14,8% del Pil (il cui valore è prossimo ai 3.000 mld di €); nel complesso si tratta di un quarto di tutta la spesa pubblica e già questo spiega il perché la riforma previdenziale sia ciclicamente presa di mira da quasi ogni Presidente Francese. I cugini d’oltralpe, infatti, sono famosi in tutta Europa per aver costruito un welfare state che aiuta le giovani coppie, che permette di vivere la vecchiaia in serenità e che prevede un sistema sanitario nazionale gratuito, ma tutto questo ha un costo. In Ue, ad esempio, solo Grecia e Italia spendono in pensioni più della Francia, e non si tratta di due Paesi i cui conti pubblici godano di buona salute.

La Francia, inoltre, ha nel tempo costruito un sistema previdenziale un po’ all’italiana, dove cioè si è tutti uguali sulla carta, ma nei fatti si è profondamente diversi quando si tratta di riscuotere la pensione. Un problema al quale la riforma di Macron vuole porre rimedio eliminando i 42 regimi previdenziali speciali a cui i francesi possono accedere, ed aumentando, invece, la pensione minima a 1.200€ al mese. L’idea del Presidente francese è quindi quella, attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, di adottare un fisco a punti che riduca le eccezioni e si riveli più sostenibile. Già, perché il problema dell’attuale sistema previdenziale è che pare destinato a creare un buco nei conti pubblici di dimensioni ragguardevoli e in preoccupante crescita all’aumentare dei tassi d’interesse delle banche centrali.

Le pensioni costano e il piatto langue

Al pari dell’Italia, la Francia ha da tempo avviato una costante crescita del proprio debito pubblico. Negli anni ’80 questo era pari al 20,8%, mentre oggi è al 110% e le previsioni sul deficit che produrranno le pensioni da qui al 2030 non è incoraggiante. Stando ai dati riportati dal Financial Times, fino a qualche mese fa si parlava di 60-80 mld di €, mentre oggi, con l’aumento dei tassi d’interesse, il deficit oscilla già tra i 60-90 mld € e non più al 2030, ma al 2027. Occorre poi tenere a mente che tra pandemia, shock energetico e guerra, il governo francese ha già attinto a piene mani dal portafoglio, spendendo (complessivamente) quasi 415 mld di €.

Alain Minc, consigliere dell’Eliseo molto vicino a Macron, intervistato da Repubblica ha detto “bisogna fare questa riforma a causa dello spread. La realtà è che c’è un miracolo nello spread francese. Siamo cinque punti sopra la Germania e logicamente dovremmo essere 0,5 punti sotto l’Italia. In parte, la situazione macroeconomica, con l’avanzo della bilancia commerciale e il deficit primario di bilancio al netto degli oneri per interessi, è migliore in Italia. Poi la Francia è più solida, più strutturata, ma visto dall’estero, se la riforma delle pensioni non passasse, ci sarebbe un possibile allarme. Macron non ha osato dirlo”. Un rischio, quello della perdita di fiducia da parte dei mercati, che Italia e Grecia conoscono fin troppo bene e che Macron vorrebbe evitare.

Il punto di vista delle piazze

Osservata da questa prospettiva non si comprende l’atteggiamento dei francesi, che paiono protestare per non volersi adeguare a uno standard che tra l’altro l’Ue vorrebbe condiviso da tutti (italiani e tedeschi vanno in pensione a 67 anni, tanto per dire). In realtà i francesi hanno ben più di una ragione per protestare.

La prima è che dietro la riforma si nasconde in realtà, come racconta Francesco Saraceno su Domani, la forte penalizzazione di alcune fasce della popolazione: chi ha un basso titolo di studio, coloro che hanno subito interruzioni nella loro carriera lavorativa, le donne e chi ha iniziato a lavorare presto. In breve, tutti tranne quelli che hanno e che soffrono maggiormente il peso delle diseguaglianze. Gli sconfitti della globalizzazione, quell’esercito che in Francia era già sceso in piazza sotto il vessillo dei gilet gialli, pronti a enfatizzare le differenze tra centro e periferia, tra chi ha e chi no, che è poi lo stesso che oggi si riversa nelle strade francesi.

Operai delle raffinerie, netturbini, studenti, sono loro a protestare contro un governo centrale che, in un momento di forte contrazione economica, batte cassa colpendo il welfare state. Un copione già visto anche altrove e che si sta palesando di nuovo anche in Italia, basti osservare le lunghe code d’attesa che per una visita specialistica in ospedale o i fondi del Next Generation Eu diretti alla sanità: spiccioli. In Francia, inoltre, ad aggravare la situazione è stata la modalità con cui Macron ha tentato di coprire la propria fragilità alzando la posta, come nel “gioco del pollo”.

La teoria dei giochi e le proteste di piazza in Francia

Quest’ultimo altro non è che una sfida per determinare chi, tra due contendenti, possieda maggior coraggio. La prova da superare è semplice: due auto devono sfrecciare a tutta velocità verso un dirupo e la prima che sterza perde. Macron ha dato il via a questo gioco scavalcando il Parlamento, con l’articolo 49.3 (usato un centinaio di volte nella quinta Repubblica), segno di forza che nasconde in realtà una grande debolezza politica. Debolezza che è stata colta dai corpi intermedi, ovvero i sindacati, i quali hanno organizzato gli scioperi e portato la gente in piazza. E qui, nelle piazze, Macron ha dato ai manifestati, qualora ve ne fosse bisogno, il coraggio per spingersi verso il dirupo senza paura, ma anzi, col sorriso di chi sa di lottare per qualcosa più grande: ovvero, la democrazia.

La polizia, quella che dopo gli attacchi terroristici ha acquisito sempre maggior potere, ha usato armi da guerra, fatto cariche contro donne e giornalisti, e compiuto arresti intimidatori per sedare la piazza, ottenendo però l’effetto opposto rispetto a quello desiderato. Da liberale quale si era presentato, Macron ha dato prova di tenere maggiormente al proprio potere ed al suo ego, rispetto a quei valori e ideali che avrebbe invece dovuto difendere. Le immagini dei linciaggi ai danni dei giornalisti, la volontà di impedire persino ai soccorsi di intervenire in caso di necessità, sono la cifra di quanto possa essere illiberale colui che si professa liberale.

E ora? Prosegue l’attacco al welfare state

Le tensioni nelle piazze francesi sono ancora altissime, nonostante l’assenza di stipendio (a causa dello sciopero) stia fiaccando il morale dei manifestati, i quali però paiono solo voler prendere fiato prima di una maratona, la stessa che ha contraddistinto il periodo dei gilet gialli. E Macron? Tira dritto sulla sua strada e perde così l’occasione di un reale confronto con i francesi, i quali, 6 su 10, vorrebbero una riforma delle pensioni, ma non quella proposta da Macron. Difficile dire chi la spunterà, ma quello francese rischia di essere l’ennesimo attacco al welfare state dei Paesi dell’Ue, iniziato nel lontano 2011, con la crisi del debito sovrano, e oggi di nuovo in agenda per contrastare i numerosi shock economici che hanno contraddistinto gli ultimi anni.

di Claudio Dolci

Too big to fail: cosa si nasconde dietro il crack di Silicon Valley Bank e la crisi di Credit Suisse

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La cronaca finanziaria delle ultime due settimane ha risvegliato in molti risparmiatori ed analisti quella paura, mista ad angoscia ed incredulità, che 12 anni fa accompagnò la crisi dei mutui subprime, culminata, il 15 settembre 2008, col fallimento di Lehman & Brothers. Un tonfo capace indurre tutti a ripensare la finanza e il rapporto tra mercati, risparmiatori e istituzioni centrali. Ed oggi, il fallimento di Silicon Valley Bank (SVB), prima, e la crisi di Credit Suisse (CS), poi, hanno riacceso il panico nei mercati e obbligato gli analisti a un nuovo esame di coscienza: com’è stato possibile? Davvero non abbiamo imparato nulla dal passato? In parte è così, la lezione che la Grande Recessione e la Crisi del debito sovrano avrebbero dovuto impartirci è stata dimenticata sotto la spinta del denaro facile, reso accessibile a tutti grazie a un periodo prolungato di tassi bassissimi, quando non addirittura negativi, ma dietro gli shock di queste settimane vi è qualcosa di più.

Il terreno della crisi, tra denaro facile e pochi controlli

SVB e Credit Suisse rappresentano l’emblema di ciò che oggi non funziona nel mercato finanziario e delle colpe delle banche centrali, nonché della politica, ma il 2008 è stato tutto un altro film. La crisi del 2007-2008, infatti, affondava le sue radici nella fragilità del mercato immobiliare, le cui fratture erano state stuccate ad arte con i CDO, forme di aggregazione del rischio nate con l’obiettivo di gestire, rendendo profittevoli, prodotti che se trasparenti nessuno avrebbe sottoscritto a cuor leggero, anzi. La stragrande maggioranza di chi comprava questi prodotti finanziari non sapeva davvero che cosa stesse acquistando, né i rischi sottostanti, poiché ciò su cui i mediatori finanziari facevano leva era il rendimento.

Oggi, invece, la cronaca ci racconta di una banca regionale, SVB, che ha gestito incautamente i soldi di investitori e correntisti di un particolare settore, quello dell’High Tech. Per capire il crack finanziario che ha colpito la California occorre partire proprio da questo dato: SVB rappresenta perlopiù una pagina delle cronache del mercato d’oggi, al più un capitolo, non l’intero libro.

SVB e la crisi dell’obbligazionario indotta dall’ascesa dei tassi d’interesse

Tutto è cominciato tre anni fa, con l’avvento della pandemia da Sars-Cov2, quando ingenti quantità di denaro, ancora lasciato libero di riprodursi senza troppi vincoli (come stimolo ad un’inflazione ferma al palo, e ben lontana dal 2% fissato dalla teoria macroeconomica) inondava i mercati e cercava casa tra gli investimenti. La chiusura di molte attività economiche, a seguito dei lockdown, non impedì ad altre di proliferare, anche in virtù di una diversa organizzazione del lavoro. D’altronde una fabbrica di lampadine richiede una presenza sul lavoro ben diversa rispetto a quella di cui necessita una start-up del settore dell’High Tech. A fronte del blocco del lavoro, e con l’obiettivo di sostenere l’economia, le principali economie del mondo hanno dato vita a manovre espansive, le quali hanno determinato un aumento del debito pubblico dei singoli Stati. Un esempio? Come riportato da un report della Banca d’Italia a firma di Gabriele Bernardini e Valerio Ercolani (datato 30 Giugno 2021), gli Usa avevano impiegato ben più di 6.000 miliardi di dollari per fronteggiare la crisi pandemica (pari al 30% del PIL americano). E come ci ricorda l’IRA varato qualche mese fa da Biden, la pioggia di soldi facili non ha ancora mollato la sua presa sul decisore pubblico, nonostante gli ammonimenti di diversi economisti.

Di questa ingente mole di liquidità hanno giovato un po’ tutti, compresi i correntisti e gli investitori di Silicon Valley Bank, la quale, tra il 2020 e il 2022 (gli anni della pandemia) ha incrementato i suoi depositi da 102 a quasi 189 mld di dollari (come riportato dal Financial Times). Un fiume in piena in cerca di profitto a basso rischio. Già, perché coi tassi negativi e un mercato azionario non proprio stabile, l’opzione allora più sicura pareva l’obbligazionario sui titoli di Stato americani. SVB scelse così di porre in un unico paniere, a lunga scadenza, pari a 10 anni, ben 120 miliardi di dollari. Di questi, ben 91 mld erano investiti in titoli obbligazionari con un rendimento del 1,64%, che nel 2020/2021 era molto buono, ma che oggi, con l’ascesa dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali (Fed, Bce e Boe) risulta svantaggioso; ed è qui che la strategia di Svb si è rivelata poco lungimirante e per due differenti ragioni.

Gli errori commessi da SVB

La prima è che dopo una fase espansiva, per quanto prolungata possa essere (e quella del Quantitative Easing è durata più di 10 anni) ne segue sempre una restrittiva, con tassi in aumento, e così è stato. Sono i cicli economici, che quanto calibrati per evitare stagnazione e recessione, regolano l’economia tutta. Il secondo errore commesso dagli analisti di SVB è stato quello di sottovalutare il profilo dei propri clienti, e questo errore è stato forse peggiore del primo. Le start-up del settore High Tech, infatti, hanno bisogno di mobilitare ingenti quantità di capitale per produrre innovazione e quindi richiedono un accesso alla liquidità rapido e imponente, aspetti, questi, che mal si conciliano con l’investimento in titoli obbligazionari a 10 anni, il cui rendimento dipende proprio dalla capacità di lasciare i soldi fermi sino allo scadere dell’obbligazione.

Con la riprese dell’attività economica gli investitori hanno quindi domandato liquidità, che però SVB non era in grado di garantire, se non rimettendoci, e tanto. Ma perché? Perché con l’aumento dei tassi d’interesse si erano generate obbligazioni, sempre su titoli di Stato, dai rendimenti molto più alti e tali da rendere quelle contratte nel 2020 e 2021 poco appetibili. Chi comprerebbe mai un’obbligazione con un rendimento all’1,64% se può acquistarne invece una, ex-novo, che garantisce oltre il 4%? Solo un forte sconto, così come quello che oggi riguarda il petrolio degli Urali (posto sotto embargo) può spingere un investitore ad acquistare un’obbligazione del genere. Ed è così che SVB ha dovuto cercare altri modi per farsi finanziare sul mercato, ma così facendo ha ammesso pubblicamente di avere un problema, di cui nessuno sapeva nulla. E qui entrano in gioco le colpe della politica.

Il populismo americano è stato a favore della deregulation finanziaria

Nel 2018, infatti, Donald Trump decise di rivedere il Dodd-Frank Act, permettendo così alle banche regionali con un valore inferiore ai 250 mld di dollari, come SVB, di non doversi sottoporre a nessun controllo da parte della Fed centrale, ma solo a quelli dei distaccamenti della banca centrale americana disseminati nei singoli Stati. In questo modo, per quanto controllata, SVB non era soggetta allo stesso rigore di una major bank, nonostante fosse in 16 posizione nel ranking delle banche americane e di primaria importanza per un intero settore, ovvero quello dell’High Teck (oltre 1.500 aziende innovative e start-up avevano i loro conti in SVB, come riportato dal New York Times). Dopo la notizia della ricerca di liquidità è bastato un giorno per far crollare il castello di carte. Durante l’ennesimo venerdì nero sono stati prelevati dei depositi della fu banca californiana ben 42 mld di dollari e da lì il crack. A seguire l’intervento di Biden per garantire i depositi anche sopra i 250.000 dollari (dei correntisti e non degli investitori) e della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC). Non i contribuiti, ma le banche risaneranno il buco generato da SVB e dalle altre banche regionali in prossimità del baratro: questa è la promessa, anche se è assai probabile che il mondo delle istituzioni creditizie decida di rivalersi poi sui propri correntisti e quindi su tutti.

Credit Suisse: che cosa ha portato alla crisi dell’istituto bancario elvetico?

Che cosa ha determinato la crisi di Credit Suisse (CS) in Ue? Che legame c’è con SVB? La storia di Credit Suisse è simile, eppure assai diversa rispetto a quella di SVB e ci racconta di come la finanza, da ben prima del 2008, sia sì cambiata e non per il meglio.

Alla base del crollo di CS vi è l’annuncio, da parte della Saudi National Bank (SNB), partecipata per il 37% dal fondo sovrano saudita, di escludere un nuovo sostegno finanziario alla banca svizzera. SNB è il maggior azionista del Credit Suisse: per questo la notizia ha scatenato la bufera su Zurigo. Alla fine dello scorso anno gli arabi avevano acquistato una partecipazione del 9,88% dell’istituto, in concomitanza con l’aumento di capitale da 4 miliardi di franchi, così come riportato da OPEN. Come nel caso di SVB, anche in questo caso è la mancanza di liquidità ad aver dato una spinta in più a un istituto di credito da tempo in crisi.

Già, perché CS, fondata nel 1856 da Alfred Esher, è, come riportato dalla Tv nazionale svizzera, “una banca internazionale che ha perso di vista le sue radici svizzere” e non da ieri. Quindici anni fa un’azione di CS valeva 80€, mentre cinque anni fa solo 15€, ed ora è crollata a 0,76 Franchi (UBS ha infatti messo sul piatto 3 mld di Franchi svizzeri, pari a 3,2 mld $ per prendersi CS). Com’è stato possibile? In una parola? Avidità. Prima il tracollo del giocattolo di Bill Hwang e il suo Archegos Capital Management, poi Greensill, a seguire lo scandalo del tonno in Mozambico (come riportato da Repubblica), e infine i “Suisse Secrets”: ovvero i file con i nomi di 18.000 clienti che difficilmente avrebbero ottenuto un conto altrove. A tutto ciò si accompagnano le lotte tra le fazioni interne alla banca, come descritto dal giornalista finanziario Lukas Hassig: da una parte quella più attaccata alle tradizioni svizzere (depositi e poco altro) e dall’altra, invece, quella americana, più incline all’unica logica che domini la finanza, ovvero quella di Milton Friedman. Il problema è che a pagare i conti e gli errori del capitalismo senza regole, come quello libertario invocato dai magnati della Silicon Valley e delle grandi banche svizzere, sia sempre e solo lo Stato.

A salvare il capitalismo è collettività tutta

La Svizzera intera, per non perdere la credibilità acquisita in secoli d’attività, nonché la principale fonte d’introiti del Paese, ha deciso di aprire il portafoglio. Dapprima con un prestito ponte a CS per 50 mld di Franchi, bruciati, come riportano le indiscrezioni del Financial Times, in poco meno di cinque giorni, a causa di una folle corsa agli sportelli (con un prelievo di 10 mld al giorno). Poi altri 100 mld, più 9 in caso di necessità, sono stati messi sul piatto come scorta e incentivo affinché UBS decidesse di fare il passo ed acquisire lo storico rivale di sempre, CS.  

Allarme rientrato? In realtà non si sa ancora. I mercati non hanno digerito benissimo né l’acquisizione di UBS, né la fretta con cui la banca centrale svizzera ha gestito il problema, bypassando la riunione di soci azionisti di Credit Suisse, in barba alle regole (oggi sotto revisione) che essa stessa aveva scritto; tant’è che oggi gli azionisti sembrano muoversi per chiedere i danni. Insomma, il panico nato in USA fuso con la scelta del fondo saudita di non sostenere Credit Suisse insieme all’accumulo di vicende giudiziarie che hanno interessato la banca elvetica negli ultimi anni, hanno di fatto portato scatenato una bufera che ha rischiato di portarla alla banca rotta e trascinare con sé i mercati europei. Se il panico è rientrato, la tempesta non è ancora finita: perché se un istituto di credito di valenza sistemica, come CS, il cui Cet1 era pari a 14,1, è piombata nel baratro per il fallimento di una banca americana, questa volta neppure sistemica, allora c’è un problema di fondo pronto ad esplodere. I tassi d’interesse, oggi al 4,75% negli Usa e al 3,5% in Ue, stanno infatti cambiando il modo di ragionare degli investitori e dei correntisti, attratti da profitti che suggeriscono loro di non lasciar più parcheggiati i soldi sui conti correnti. Vi è poi l’onda lunga di una serie di crisi che dal 2000 in poi sembra aver sensibilizzato ed esasperato l’emotività delle persone, le quali si aspettano sempre il peggio anche quando non ve ne sarebbe ragione.

La situazione italiana: che cosa rischiamo?

E l’Italia cosa rischia? C’è la possibilità dell’effetto domino? La Repubblica fa sapere che Palazzo Chigi segue il dossier in contatto con Consob Banca d’Italia. Le controparti italiane non paiono esposte in modo significativo sugli 11,9 miliardi di euro iscritti a bilancio come debiti bancari. Quindi, secondo la premier, dal punto di vista dei numeri non c’è molto da preoccuparsi. Ma l’effetto domino è sempre dietro l’angolo: gli speculatori sono sempre alla finestra, per tentare di forzare la mano su situazioni fragili di realtà Too big too fail, cioè troppo grandi per essere lasciate fallire.

L’Unione Europea nel corso del tempo si è preparata ad evitare una seconda crisi finanziaria al pari di quella accaduta nel 2008: con l’Unione Bancaria UE i controlli sono più centralizzati, gli stress test sulle banche vengono fatte in continuazione, la liquidità deve essere garantita e il capitale a bilancio deve essere al di sopra di una certa soglia se si vogliono effettuare investimenti rischiosi. Insomma, la Bce ha garantito solidità degli istituti. Ma l’elefante dentro la stanza esiste e si chiama “liquidità”. Trilioni di dollari e di euro sono stati pompati nel mercato per far ripartire l’economia, sottovalutando i rischi su indebitamento (come SVB ci insegna) e l’inflazione eccessiva. Ora si corre ai ripari per evitare un livello dei prezzi troppo elevato stringendo come mai prima la liquidità: è come se a un fumatore accanito si consigliasse di non fumare più neanche una sigaretta dal giorno X. Effettivamente non fumerà più, così come l’inflazione scenderà. Ma a che prezzo? Recessione? Scoppio di bolle nascoste? Il terreno è un campo minato, non ci sono notti tranquille nei palazzi delle banche centrali. Il futuro è molto indeterminato.

di Claudio Dolci e Roberto Biondini

La matassa verde, un groviglio di problemi

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I nodi sono fatti così, crescono nell’incuria e ignorano il pettine che prima o poi, almeno si spera, li rimetterà in riga. Tra le necessità ambientali, la mancata volontà sociale e gli errori politici, la matassa verde si sbroglia difficilmente. Lo dimostra il recente contesto europeo e geopolitico, in cui da giorni si parla della direttiva europea sulle case green e quella sullo stop ai motori diesel e benzina, nonché del piano IRA voluto da Biden e in ultimo il blocco alla cessione dei crediti del superbonus 110. Tutti questi elementi politico-economici altro non sono che nodi posti di fronte al grande pettine del riscaldamento globale, il quale impone a tutti quelli che negli anni hanno detto “tanto c’è tempo” una brusca retromarcia, che però costerà caro ai conti pubblici e privati.

Il primo elemento da cui partire è l’UE, che dopo anni di discussioni e rinvii per i veti incrociati, ha finalmente trovato la forza politica per attuare un piano su larga scala di riduzione delle emissioni, il “Fit For 55”. L’obiettivo di questo piano è quello di ridurre, entro il 2030,  del 55% le emissioni di C02 rispetto ai livelli registrati nel 1990. Un’idea che trova la sua logica in un altro dato: dal 1990 ad oggi è stata immessa nell’atmosfera una quantità di CO2 pari a quella prodotta in tutti i secoli precedenti (come ha ricordato Chicco Testa sul Foglio). Se si continuerà con il trend degli ultimi 30 anni, fatta eccezione per il periodo pandemico (l’unico in cui si sia verificato un calo delle immissioni), l’obiettivo di contenere le temperature entro i 2°C rispetto all’era pre-industriale fallirà miseramente. Tenuto conto poi che l’attuale coalizione europea vacilla, le elezioni del 2024 sono vicine, e che il contesto geopolitico della pax americana non sta meglio, l’UE ha deciso di imprimere un cambio di passo. Le case degli europei dovranno consumare meno, quindi entro il 2033 dovranno rientrare nella classe energetica D, ed entro il 2035 non sarà più possibile acquistare veicoli a benzina e diesel, meglio un auto elettrica. Le proposte sono buone, ma scontano entrambe dei problemi di fondo che si collegano al caso del superbonus 110 in Italia, e dell’IRA negli Usa.

Il cratere creato dai bonus edilizi nei conti pubblici italiani

Giorgia Meloni ha dovuto mandare giù una medicina molto amara, sotto la prescrizione puntuale del suo Ministro dell’Economia, Giorgetti, che posando lo sguardo sull’ultima colonna di destra dei conti pubblici ha fatto una scoperta: i bonus edilizi sono costati 110 miliardi di euro. La soluzione? Basta sconti in fattura e cessioni del credito, si prosegue solo con la detrazione nella dichiarazione dei redditi. Manco a dirlo le associazioni di categoria sono già sul piede di guerra, l’Ance, il Cna e Confartigianato mostrano i numeri dietro il “gratuitamente” di Giuseppe Conte: 25.000 imprese che non sanno come cedere il credito, 90.000 cantieri fermi e 150.000 lavoratori che vagano nell’incertezza del domani. D’altro canto, spulciando i risultati dei bonus edilizi si scopre come la maggior parte dei benefici economici sia finita al ceto medio, coloro che possiedono una casa indipendente, e come il rapporto tra euro speso e beneficio energetico sia materia di leggenda. Per Giorgetti il Superbonus e gli altri incentivi all’edilizia hanno sottratto e sottrarranno dal portafoglio di ogni italiano circa 2.000€. Conte, invece, rivendica i successi dell’iniziativa avviata sotto il suo esecutivo, Pil cresciuto del 6,7% nel 2021 e del 3,9% nel 2022. Il Superbonus, come confermato da Censis e Nomisma, ha consentito la creazione di 900 mila posti di lavoro (come riporta il sito Open). Come sempre vale la legge del pollo di Trilussa, i numeri non dicono tutto.

Vero, il Superbonus è stato tra i motori della ripresa post-pandemica ed ha rappresentano una misura volta a sostenere l’investimento per eccellenza degli italiani, la casa. Ma, è vero anche che le truffe dietro i bonus sono state eclatanti ed efferate, per non parlare della regressività della misura (niente tetto ISEE). Giorgetti ha avuto gioco facile a difendere lo stop voluto dal governo Meloni, gli è bastato citare Draghi “Il problema non è il superbonus. Il problema — disse Draghi — sono i meccanismi di cessione che sono stati disegnati. Chi ha disegnato quei meccanismi senza discrimine e senza discernimento, è lui, o lei o loro, i colpevoli di questa situazione per cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti”. Preso atto di come sono stati sin qui gestiti i bonus edilizi, c’è il concreto rischio che per rendere più efficienti le 9 milioni in classe energetica G, occorrerà che ogni italiano prenda mano al portafoglio; la stima iniziale parla di 1.400 miliardi di euro.

Stop alla vendita di auto diesel e benzina.

Anche ammesso che si trovino i soldi per ristrutturare il parco immobiliare italiano, è assai difficile che dopo un simile esborso vi sia ancora lo spazio finanziario per dire basta ai motori diesel e benzina, eppure anche qui il pettine ha già dichiarato il giorno in cui incontrerà il suo nodo: 2035. La maggioranza Ursula non ha retto il voto e il Parlamento europeo ha approvato la misura con 340 si e 279 no. Qui i problemi, a differenza del dossier case green, sono tre. Il primo riguarda il costo sociale di questa iniziativa, che secondo quanto dichiarato da Thierry Breton, comporterà un taglio di 600.000 posti di lavoro in tutta l’UE e visto che le auto elettriche richiedono meno componenti, solo una parte di questi lavoratori troverà un nuovo impiego nel settore dell’automobile. E questo è il problema minore, perché il secondo, assai più complesso, riguarda l’elettrificazione di tutta l’infrastruttura stradale, ovvero le colonnine e l’energia che esse richiederanno per sostenere il parco auto circolante. Un esempio? Delle 36.722 colonnine di ricarica presenti in Italia, ben il 19% non è in funzione, perché non collegate alla rete. Servirebbero poi 150GW per ricaricare la rete e mantenerla attiva. Ora, vista la difficoltà che c’è già ora per rispettare gli obiettivi del Pnrr in materia ambiente, occorreranno correre e per davvero. Sempre ammesso che si riesca a superare indenni il terzo ostacolo: il mercato.

È da tempo che i principali marchi automobilistici stanno attuando una politica di investimento sui segmenti di lusso, tra cui quello dell’auto elettrica, in antitesi rispetto a quanto avviene oggi negli Stati Uniti e questo è un problema. Luca de Meo, CEO di Renault, non ha infatti gradito la variazione di prezzo, verso il basso, dei prezzi praticati da Tesla ed ha commentato con durezza la scelta dell’azienda di Elon Musk: “This is destroying value for the customer, for sure, when you do this.” In realtà la questione è un’altra, se calano i prezzi di Tesla, che guida il mercato dell’elettrica, allora devono diminuire anche quelli dei competitor come Renault. Ma quest’ultima, che nel 2022 ha fatto registrare il +5,6% sul suo margine operativo e perlopiù, il 40%, con la vendita di veicoli in fascia alta, non ha nessuna intenzione di abbassare i prezzi e riposizionarsi così velocemente. Una tematica, questa, che coinvolge quasi tutti i produttori di auto, Renault infatti è il terzo per auto elettriche, quindi gli altri se la passano anche peggio (fatta eccezione per Tesla e Toyota).

Se gli USA arrancano?

Tuttavia, anche negli States, patria della Tesla e del piano IRA di Biden, non tutto luccica grazie a fonti rinnovabili e i problemi da risolvere per una transizione energetica veloce sono molti. Il primo riguarda l’approvvigionamento delle terre rare e dei materiali per fabbricare le auto elettriche, poiché sono perlopiù in mano alla Cina con la quale gli Usa hanno da poco alimentato il conflitto in chiave tecnologica. Come riportato dal Financial Times “Together, China and Europe produce more than 80 per cent of the world’s cobalt, while North America makes up less than 5 per cent of production, according to the IEA. China also accounts for 60 per cent of the world’s lithium refining.” L’altro problema riguarda la forza lavoro e il tasso d’occupazione, ancora molto alto, che riguarda il mercato del lavoro americano. Serviranno infatti almeno mezzo milione di operai solo per far fronte all’attuale penuria e occorreranno standard di lavoro più alti, soprattutto in termini di garanzie e stipendi, perché è questo ciò che chiedono gli americani dopo decenni di globalizzazione. Ma sarà possibile?

Il pettine non perdona. I rischi che la transizione proceda troppo lentamente.

Sia il contesto europeo, sia quello americano ed italiano, stanno affrontando la transizione energetica con foga, ma i problemi sul tavolo, ovvero i nodi, sono tutt’altro che inclini a lasciarsi sciogliere. In UE mancano le risorse finanziarie per aiutare gli Stati dell’unione a gettare il cuore oltre l’ostacolo e senza questi soldi è difficile che Paesi come l’Italia possano seguire le nuove direttive green, anzi, è facile che le sabotino in seno al Consiglio. Il secondo problema riguarda il mercato, il quale oggi sembra intravedere la fine della crisi energetica imposta dalla guerra in Ucraina e che per questo potrebbe tornare a scommettere sul petrolio e il gas. C’è poi il problema del mercato dell’automotive, il quale guadagna ancora moltissimo dalla vendita di prodotti in fascia alta, per cui ha poco o nessun interesse a produrre auto utilitarie full electric per operai; tant’è che in Italia il parco auto elettrico si attesta a un modestissimo 2,6% e non ci sono i soldi per incentivi a pioggia stile Superbonus 110. Infine, senza potersi avvalere delle filiere della globalizzazione, abbandonate per ragioni geopolitiche, prima ancora che sanitarie, è difficile che la transizione non sollevi, anche in Europa, problemi inerenti al mercato del lavoro domestico.

di Claudio Dolci e Guglielmo De Puppi

Sovranisti e Migranti: una convivenza impossibile

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Negli ultimi decenni guerre, crisi economiche e povertà nei paesi sottosviluppati e in via di sviluppo hanno aumentato il trend migratorio. In particolare, le persone provenienti da Sud America, Africa e Asia cercano di spostarsi verso aree più ricche, come gli Stati Uniti e l’Europa. In quest’ultima, la crisi dei rifugiati è diventata un tema delicato a causa della complessa struttura gestionale dell’UE e a causa di un gran numero di membri direttamente coinvolti nel processo migratorio. Dalle prime decisioni prese a Bruxelles alle ultime opzioni discusse tra i membri europei, sembra che questo problema faccia emergere divisioni piuttosto che unità di intenti. Guardando cronologicamente i passi compiuti dall’Unione Europea, è evidente l’assenza di una visione comune nella gestione dell’immigrazione.

Un problema sottovalutato

Quando nel 1957 fu firmato il Trattato di Roma, la possibilità di affrontare una crisi dei rifugiati non era sul tavolo e il fulcro della collaborazione europea era completamente basato su questioni economiche. Dopo la fine della Guerra Fredda e il grande allargamento dell’UE, l’area economica si è allargata e confinava direttamente con l’Asia e indirettamente, attraverso il Mar Mediterraneo, con l’Africa. Le questioni sociali iniziarono ad essere al centro delle discussioni e le nazioni del sud in particolare portarono la questione migratoria all’attenzione di tutti gli Stati membri. Nei primi anni di questo secolo, le nazioni europee hanno firmato il Trattato di Dublino sulla gestione dei migranti: la nazione di arrivo del migrante dovrebbe gestire autonomamente la procedura di accoglienza. Di conseguenza, nazioni vicine ai confini europei sono state valutate con maggiori responsabilità rispetto ad altre. Questo è stato il primo segno di una mancanza di solidarietà tra gli Stati membri.

Dopo la crisi finanziaria e la guerra in Siria e in Libia, la migrazione è diventata una vera e propria crisi per i rifugiati con migliaia di persone che si sono spinte alle frontiere europee. Per aiutare le nazioni più colpite, Bruxelles ha iniziato a pensare a una nuova formulazione del trattato di Dublino, ma le divisioni tra nord e sud hanno reso impossibile la creazione di un nuovo assetto strutturale per ciò che riguarda i migranti. Tuttavia, alcune politiche sono state messe in campo: un controllo di sicurezza comune del Mar Mediterraneo per evitare partenze dall’Africa, una distribuzione volontaria dei migranti tra le nazioni europee da decidere passo dopo passo, il controllo delle frontiere esterne (come quelle tra Grecia e Turchia) per controllare chi sta tentando di attraversare la zona Schengen. Queste decisioni rappresentano certamente dei passi importanti ma sono insufficienti.

Le decisioni unilaterali senza effetti concreti

Di conseguenza, alcune nazioni hanno deciso di agire da sole: l’Ungheria ha costruito un muro al confine con stati extra UE, la Francia sta aumentando i controlli legali ai suoi confini e l’Italia respinge i migranti dalle navi delle ONG e stipula accordi indipendenti con nazioni specifiche, come la Libia, per fermare le partenze. D’altra parte, alcuni anni fa la Germania aveva deciso di accogliere migliaia di stranieri all’interno dei suoi confini in segno di solidarietà. Ma a quanto pare, non esiste una visione comune su come gestire il problema della migrazione. Infine, vale la pena notare che l’UE ha finanziato direttamente Stati stranieri come la Turchia per aiutarli a controllare i flussi migratori, ma con effetti insufficienti.

E gli effetti di questa grande confusione si manifesta nei fatti, come riporta il corriere della sera: “Solo nel Mediterraneo centrale muoiono ogni anno più di 2000 persone nel disperato tentativo di raggiungere le nostre coste. Chi riesce a sbarcare deve attendere tempi lunghissimi per l’esito della richiesta di asilo. Più o meno la metà riceve una risposta positiva, poi inizia il calvario dell’inserimento sociale e lavorativo. L’altra metà viene espulsa per mancanza dei requisiti, ma solo un terzo ritorna a casa. Gli altri finiscono per vagare come irregolari.”

Le nuove proposte europee alla prova del sovranismo di Meloni

Le istituzioni Ue hanno più volte provato a cambiare il Regolamento. Ora è sul tavolo una ambiziosa riforma chiamata «Patto europeo per l’immigrazione». Si prevede, fra l’altro, un meccanismo di solidarietà obbligatoria, con soglie minime di riallocazione dei migranti in base alla popolazione e al Pil di ciascun Paese, nonché il dovere di contribuire in altri modi all’«equa ripartizione» in situazioni di emergenza, come sempre riporta il Corriere della Sera. Il Patto è attualmente bloccato (si vota all’unanimità), principalmente per le resistenze dei Paesi nordici e l’opposizione dei Paesi di Visegrád, Polonia e Ungheria in testa. L’attuale presidenza di turno svedese non considera il Patto una priorità. A Stoccolma c’è un governo di minoranza sostenuto dall’esterno dai Democratici svedesi, un partito di estrema destra ostile all’immigrazione. Una prova eccellente di come il sovranismo funzioni.

È a questo punto che si inserisce il fattore Meloni: cosa farà la presidente italiana espressione più alta del sovranismo della penisola? Difendere ancora una volta il sovranismo e darla quindi vinta a Visegrad con l’effetto di rimanere senza aiuto comunitario o rinnegare ancora una volta il suo populismo di aria fritta e scendere a patti con gli altri stati? Nel frattempo, Meloni dà un colpo alla botte ed uno al cerchio con la Francia sul tema immigrazione forse per tattica, molto più probabilmente per inesperienza istituzionale. Anche lei è rimasta vittima del suo stesso personaggio creato ad arte per fare opposizione, meno funzionale per fare la Statista.

Ad ogni modo, la crisi dei rifugiati mostra la fragilità dell’Unione europea in termini di solidarietà. Se la crisi finanziaria, la pandemia e forse quella Ucraina hanno reso l’UE più unita nel trovare soluzioni efficaci, il tema migratorio resta un tabù a Bruxelles. L’immigrazione è sempre stata una questione di primo piano nella storia dell’umanità: la paura irrazionale che la società venga invasa da estranei ha sempre influenzato il decisore politico. Pertanto, da un punto di vista storico, non sorprende la divergenza di vedute dei paesi europei nella gestione di questo problema; è più scioccante che i governi non capiscano quanta immigrazione continuerà a colpire l’Europa, e che in questa situazione solo agendo in modo coeso l’Europa potrà affrontare la crisi e trovare soluzioni strategiche.

Di Roberto Biondini

Gli extraprofitti delle aziende energetiche: la risposta UE, tedesca e italiana

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In questi ultimi mesi abbiamo sentito parlare spesso degli extraprofitti delle aziende energetiche. Si tratta di tutte quelle entrate aggiuntive che i grandi attori operanti nel settore dell’energia si sono garantiti attraverso il rialzo dei prezzi. Non molti, tuttavia, sanno che l’Unione Europea e i Paesi Membri si stanno adoperando affinché una parte di questi extraprofitti vengano redistribuiti ai cittadini, in particolare alle famiglie e alle imprese che più risentono delle conseguenze della crisi energetica. È una scelta fondamentale per permettere ai Paesi che hanno limiti di spesa più stringenti di aiutare le realtà più colpite. Il punto di riferimento per le politiche dei vari paesi dell’UE in merito agli extraprofitti è il Regolamento del Consiglio Europeo del 6 ottobre 2022. Ne analizziamo qui le principali proposte, prima di passare alle applicazioni concrete che hanno sviluppato l’Italia e la Germania. La speranza è quella di comprendere meglio le implicazioni delle scelte di Bruxelles in materia di extraprofitti.

Che cosa stabilisce il regolamento sugli extra-profitti varato dall’Ue?

Il Regolamento del 6 ottobre 2022 stabilisce la creazione di due meccanismi volti a ricavare risorse economiche che possano tutelare i consumatori finali di energia: in primo luogo un contributo di solidarietà temporaneo per le imprese e le organizzazioni che svolgono attività nei settori del petrolio greggio, del gas naturale, del carbone e della raffineria; poi, un tetto (anche esso temporaneo) ai ricavi straordinari di mercato dei produttori che hanno costi marginali più bassi (per esempio i produttori delle rinnovabili, i cui costi di produzione dell’elettricità corrispondono per lo più ai costi inziali di investimento). Il contributo di solidarietà è una sorta di imposta che in circostanze impreviste e straordinarie permette la generazione di entrate supplementari a favore delle autorità nazionali. Il tetto, invece, rappresenta un limite massimo ai ricavi di mercato dei produttori di energia elettrica. Attualmente è fissato a 180€ per MWh, un livello che secondo le autorità europee è significativamente superiore ai costi di produzione dell’energia (LCOE) e che quindi non mette a rischio la possibilità di recuperare i costi di investimento per i produttori.

Chiariamo subito alcuni aspetti importanti per capire la natura delle decisioni dell’UE. Innanzitutto, in nessuna sezione del Regolamento Europeo citato si fa riferimento alla parola tasse. Si tratta di un elemento chiave, in quanto l’Unione Europea non ha competenza fiscale diretta (per qualsiasi decisione in merito a una tassa europea ci vorrebbe l’unanimità in Consiglio, risultato abbastanza improbabile da raggiungere oggi giorno). C’è poi anche una considerazione più strettamente politica: parlare di tasse è sempre altamente impopolare. L’avversione per misure fiscali dirette potrebbe compromettere la riuscita della misura. Perciò, chiunque si riferisca ai meccanismi sopra descritti come tasse sui ricavi o sulle aziende produttrici di energia, commette un errore (anche se quella è la sostanza).

Va compreso, poi, che trattandosi di un regolamento europeo, la misura del Consiglio rappresenta un atto giuridico direttamente applicabile in tutti gli Stati Membri (deve essere applicato in tutti i suoi elementi nell’Unione Europea). Italia e Germania si sono adoperate per tradurre al più presto le scelte del consiglio europeo in azioni concrete. L’Italia ha elaborato molto sul contributo di solidarietà, introducendolo ancor prima che l’Europa lo indicasse come via necessaria. La Germania, invece, ha sviluppato accuratamente un tetto ai ricavi, con meccanismi volti a preservare gli incentivi economici più importanti. Ecco perché questi due Paesi costituiscono degli esempi molto interessanti.

La risposta di Italia e Germania al tema degli extra-profitti

Il contributo di solidarietà in Italia è stato introdotto dal governo Draghi. Sappiamo tutti quanto l’ex premier si è battuto a livello nazionale ed europeo affinché misure di rilievo fossero attuate per mitigare gli effetti della crisi energetica (il price cap sul gas è sicuramente una vittoria che può ascriversi). Il contributo di solidarietà come inizialmente pensato avrebbe dovuto portare nelle casse dello stato oltre 10 miliardi di euro. Tuttavia, i numerosi ricorsi delle aziende energetiche hanno fatto si che l’Italia riuscisse a ricavarne solamente 1.5 mld di euro. Il contributo temporaneo è stato introdotto col decreto Taglia-prezzi, modificato una prima volta con il decreto Aiuti e di nuovo con la nuova legge di bilancio del governo Meloni. Ma come funziona quindi il contributo di solidarietà italiano?

Le aziende coinvolte devono versarlo soltanto qualora l’incremento di reddito complessivo sia superiore di almeno il 10% rispetto alla media dei redditi complessivi conseguiti nei quattro periodi d’imposta precedenti al 2023. Se l’incremento di reddito supera la soglia indicata, allora il produttore dovrà versare il 50% dell’incremento di reddito complessivo allo Stato (il 25% prima della nuova legge di bilancio, anche se applicato a una platea di attori più ampia). La misura (Contributo Straordinario), secondo le stime del Sole 24 Ore, dovrebbe portare a bilancio circa 2.5 miliardi di euro nel 2023, coinvolgendo circa 7000 imprese.

Attraverso la legge di bilancio approvata il 29 dicembre scorso l’Italia ha ufficialmente avviato l’attuazione anche del tetto ai ricavi. Secondo quanto si può apprendere dal testo pubblicato in gazzetta ufficiale il tetto riguarderà principalmente impianti a fonti rinnovabili non rientranti nel Contributo Straordinario, ma anche impianti alimenti da fonti non rinnovabili come i produttori di elettricità che utilizzano torba, lignite o petrolio greggio. Per l’applicazione del tetto il Gestore dei Servizi Energetici (GSE) calcola la differenza tra il prezzo di riferimento di 180€ per MWh stabilito dall’Unione Europea, e un prezzo di mercato pari alla media mensile del prezzo zonale orario. Se la differenza (180-X) è negativa il produttore deve versare al GSE l’importo corrispondente. Sembra esserci una certa flessibilità rispetto alla tecnologia presa in considerazione (per le fonti con costi di produzione superiore alla soglia di 180 euro, il valore di riferimento viene stabilito secondo criteri specifici dall’ARERA), anche se la Germania a riguardo ha sviluppato un piano molto più dettagliato.

Il governo tedesco, infatti, ha elaborato un sistema per limitare i ricavi estremamente dinamico e flessibile, in cui la soglia dei 180 euro per MWh è quasi assente. Il grafico qui sotto ci aiuta a comprenderne l’intuizione. Il tetto è specifico alla tecnologia considerata (più basso per le rinnovabili dove i costi di produzione sono minori, più alto per petrolio e carbone). Allo stesso tempo si tratta di un tetto mobile, che varia con i prezzi delle commodity. Gli elementi che più caratterizzano la soluzione tedesca sono altri due, tuttavia. Il fatto che soltanto il 90% degli extraprofitti sia soggetto alla misura è fondamentale per coprire i produttori dal rischio legato ai costi aggiuntivi che potrebbero insorgere e all’incertezza connessa alla produzione, ma soprattutto per preservare l’incentivo a produrre quando i prezzi dell’elettricità sono alti e c’è scarsità di offerta (questo incentivo potrebbe essere eliminato dal tetto ai ricavi, che non permetterebbe più di guadagnare di più nei momenti in cui i prezzi sono più alti). Il tetto ai ricavi tedesco, infine, tiene in forte considerazione le strategie di hedging attuate dai produttori. Nel mercato dell’elettricità stipulare contratti per la vendita e trasmissione di elettricità nel futuro è molto comune, in quanto offre delle garanzie sia ai produttori che ai consumatori. Esistono contratti di vendita per elettricità che precedono l’effettiva produzione anche di 2/3 anni. Tenere conto dei prezzi stabiliti in questi contratti, correggendo l’importo che i produttori devono versare, è fondamentale (se i contratti sono stipulati a prezzi più bassi di quelli attuali di mercato bisogna tenerne conto).

Per quanto riguarda il contributo di solidarietà temporaneo la Germania è stata meno creativa, applicando pedissequamente quanto indicato dall’Europa. Le aziende produttrici che abbiano superato almeno del 20% la media dei profitti relativi all’intervallo 2018-2021 dovranno versare il 33% dei profitti per gli anni 2022/3.

Nel cercare di descrivere nella maniera più semplice possibile la logica del Regolamento europeo del 6 ottobre 2022, abbiamo discusso e spiegato le applicazioni dei suoi due meccanismi principali da parte di Italia e Germania. Entrambi i Paesi si sono impegnati nell’attuare le scelte di Bruxelles, fornendo degli spunti di riflessione interessanti. La riuscita di queste misure, da valutare nei prossimi mesi, sarà fondamentale per reperire risorse preziose e alleviare i cittadini e le imprese dai costi delle bollette. L’Unione Europea stima che un indotto da oltre 100 miliardi di euro possa essere reperito se il contributo di solidarietà e il tetto ai ricavi funzioneranno come previsto. Una somma decisamente importante, soprattutto per i Paesi come l’Italia che, altrimenti, incontrerebbero grandi difficoltà nel trovare risorse adeguate ad aiutare i cittadini. Ricordiamo che una buona parte della legge di bilancio è stata dedicata ai rialzi in bolletta. Per quanto ancora il governo potrà destinare risorse per la crisi energetica? Attendiamo con impazienza giugno per una prima valutazione delle politiche dettate da Bruxelles e implementate da Germania e Italia.

di Guglielmo De Puppi

Le crisi che faranno l’Europa

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La Grande Moderazione sperimentata dalle economie occidentali a cavallo fra gli ultimi due secoli, grazie alla globalizzazione, sembrava aver eliminato il rischio di incappare di gravi crisi economiche. E tra i diversi attori coinvolti in questo esperimento mondiale, l’Unione Europea, soprattutto dopo Maastricht, pareva aver raggiunto la stabilità finanziaria e monetaria, nonché una crescita sostenuta. Ma dopo lo scoppio della bolla del mercato immobiliare nel 2008, l’Europa si è ritrovata di colpo in un tunnel senza luce ed esposta nuovamente alla fragilità economica, da cui ancora oggi sta cercando di uscire a suon di interventi degli istituti centrali e di politiche di bilancio pubblico più assennate. Eppure, se da un lato il susseguirsi ravvicinato di eventi destabilizzanti (crisi finanziaria, del debito sovrano, pandemia e guerra in Ucraina) ha portato alla luce l’incompletezza del progetto di federazione Europea, dovuto soprattutto ad una mancanza di coordinamento fiscale, finanziario e bancario, dall’altro lato, è pur vero che in questo lasso di tempo sono stati fatti importanti passi avanti verso un’azione comune davvero europea. Come si usa dire, non tutto il male viene per nuocere, tant’è che dal risveglio del torpore della Grande Moderazione le istituzioni europee hanno poi attuato diverse riforme strutturali. Oggi soffocate dalla miopia dei veti nazionali, dagli effetti collaterali di alcune scelte di carattere monetario e fiscale e da potenziali shock esogeni alla UE stessa.

La risposta dell’Ue e degli Stati di fronte alle insidie del mondo globalizzato

L’intreccio finanziario provocato dalla globalizzazione, ad esempio, aveva reso sensibile anche il Vecchio Continente alla crisi finanziaria americana dei mutui sub-prime. Crisi da cui gli Stati Uniti, grazie ad un’azione coesa della FED e del governo federale, uscirono con un risanamento delle banche private (si ricordi l’utilizzo del TARP come strumento), mentre in Europa la mancanza di un coordinamento politico sovranazionale in materia bancaria e finanziaria rese irrinunciabili le azioni dei singoli Stati come garanti ultimi del sistema bancario nazionale. Con l’effetto collaterale del gonfiarsi dei debiti sovrani di alcune nazioni, come la Grecia, più esposte alla crisi e più fragili fiscalmente, con l’esito finale di spaccare in due il continente, palesando i gravi squilibri nella produttività, nella bilancia dei pagamenti e nel bilancio pubblico in cui vessava parte della UE. Riconoscendosi diversi gli Stati europei hanno preferito salvare sé stessi invece di guardare al progetto di coesione che li univa e tuttora unisce.

Al contrario, la reazione politica delle istituzioni europee e degli stati membri è stata di seguito efficace per uscire dalla crisi del debito sovrano del biennio 2010-2011.

Dal punto di vista della politica monetaria, la BCE, sulla scia di quello che era già avvenuto negli USA, ha portato avanti il programma di acquisto di titoli (APP) all’interno del sistema finanziario per riportare l’inflazione al livello prossimo del 2% e immettere al contempo liquidità nel mercato, così da dare una spinta all’economia reale. Ed in modo ancora più incisivo, nel 2012, la creazione dell’OMT ha reso ancora più chiaro al mercato l’indirizzo di Francoforte, proteso verso la stabilizzazione della moneta unica, per evitare il rischio di ridenominazione del debito. Il sistema creato (e mai alla fine messo in pratica) mirava all’acquisto di debito sovrano e alla stabilizzazione delle economie del mercato unito allorquando l’instabilità macroeconomica non fosse dipesa da carenze particolari delle nazioni coinvolte che ne richiedevano l’utilizzo, ma piuttosto da speculazioni finanziarie che la BCE ritenesse ingiustificate. È fondamentale sottolineare che l’OMT sarebbe stato applicato solo in caso di una concomitante attivazione del MES da parte dello Stato richiedente e l’introduzione di un programma di riforme concordate con Bruxelles. Il gioco era chiaro: soldi garantiti dall’Ue in cambio di riforme precise e interventi nella gestione del bilancio pubblico dello Stato che si fosse avvalso di questi fondi.

Politiche monetarie convenzionali e non: quando e perché sono state adottate?

Successivamente, a seguito dello scoppio della pandemia, l’azione monetaria espansiva della Banca Centrale si è rafforzata con il programma PEPP, anch’esso con l’obiettivo di impedire una paralisi creditizia nell’eurozona e una conseguente crisi di liquidità degli attori in gioco posta in essere della brusca frenata dell’economia reale. Il blocco fisico imposto dagli Stati con i lockdown ha di fatto messo in crisi alcuni settori, tra cui in particolare quello dei servizi. Si era quindi reso necessario un intervento monetario espansivo accompagnato da politiche fiscali anticicliche di aumento del disavanzo, come anche segnalato dall’ex Presidente Mario Draghi. Ma l’utilizzo delle descritte politiche monetarie non convenzionali, per distinguerle da quelle convenzionali che riguardano invece la fissazione dei tassi d’interesse che erano però già state utilizzate oltre i limiti canonici, ha sicuramente contribuito all’uscita dalla crisi ma è stata a sua volta causa dell’ingrossamento degli attivi della BCE. Finché l’inflazione era rimasta bassa (quindi per tutto il periodo pre-Covid e lockdown annessi), ciò non era stato un problema strutturale, ma con la poderosa ripresa post-pandemica, frutto sia per una grande risalita della domanda in proporzione all’offerta presente, sia per un irrigidimento dell’offerta (i famosi colli di bottiglia), in particolare delle materie prime, intensificatasi poi con lo scoppio della guerra in Ucraina, ha reso necessario il processo inverso: politica monetaria restrittiva e di conseguenza la vendita dei titoli in “pancia” alla BCE.

È come se la BCE avesse fatto da elastico, allungandosi a sostegno dell’economia quando questa era in crisi, ovvero dopo la debacle del debito sovrano (2011) e post, per poi restringersi col surriscaldarsi dell’economia reale, quindi nell’era post-Covid.

Se da un lato, Francoforte non ha avuto difficoltà nell’attuare questa procedura, più complesso sarà capire ora se gli Stati con squilibri dei conti pubblici più marcati soffriranno di questo irrigidimento delle condizioni monetarie (l’accorciarsi dell’elastico) per quanto concerne la produzione economica e la vendita del proprio debito pubblico. Infine, è lecito domandarsi quanto l’iniezione di liquidità senza precedenti da parte delle Banche Centrali, nel periodo dal 2011 al 2019, abbia creato bolle speculative sulla falsa riga di quanto era successo con il mercato immobiliare (a cavallo tra il 2007-2008). Rispetto al tempo in esame, però, nuove regolamentazioni internazionali sono state inserite (Basilea 3 e Basilea 4) e per quanto concerne la UE, il prossimo paragrafo prende in esame le riforma apportate nel mercato unico.

Le regolamentazioni interazionali adottate dall’Ue per proteggere la sua comunità di Stati

Sempre sul lato finanziario, la crisi finanziaria e del debito sovrano hanno spinto le istituzioni europee a ristrutturare il sistema bancario in chiave unitaria attraverso la riforma dell’Unione Bancaria, basata su tre pilastri fondamentali: regole comuni per tutti le banche degli stati membri, vigilanza centralizzata nelle mani della BCE e azione uniforme nella gestione delle crisi bancarie. Se i primi due strumenti sono chiari nella loro struttura, più discrezionale e ad oggi meno convincente è come l’istituzione competente in materia di gestione della crisi bancaria (Single Sesolution Board) agisca: nonostante l’indipendenza strutturale dalla BCE, il board è comunque influenzato dalla sua vigilanza e l’utilizzo dell’innovativo procedimento del salvataggio interno (Bail-in) piuttosto che da quello esterno (Bail-Out) delle banche non trova ancora un’applicazione sistematica. Infine, all’Unione Bancaria Europea (UBE) manca ancora un quarto pilastro, quello relativo alla nascita di uno schema di assicurazione comune dei depositi bancari. Oggi ogni nazione procede singolarmente, e va da sé che non vi sia quindi equilibrio di rischio tra le nazioni della zona euro. Le banche detengono titoli di Stato in pancia in modo discrezionale e da qui nasce un evidente sbilanciamento. In teoria, i titoli di debito pubblico non vengono considerati rischiosi, non servono quindi accantonamenti specifici in contropartita. Ma la storia della crisi del debito sovrano ci ha insegnato che alcuni titoli, come fu per Grecia, Portogallo e Italia, possano, soprattutto in specifici periodi storici caratterizzati da instabilità, essere più rischiosi di altri. Ed ecco spiegato il fenomeno del circolo vizioso della crisi bancaria e quella del debito sovrano dello Stato che entra come garante: un doom-loop che si ripresenta troppo spesso. Se si vuole creare un sistema di assicurazione comune, bisogna innanzitutto imporre un limite alle banche private nell’acquisto dei titoli di debito del Paese della banca stessa.

Che cosa non ha funzionato nei meccanismi europei? Il fattore nazionale.

Dal punto di vista della politica fiscale la nascita dell’euro aveva portato con sé l’applicazione del cosiddetto Patto di Stabilità, attraverso il quale gli Stati membri avrebbero dovuto raggiungere nel lungo periodo obiettivi macroeconomici specifici, volti verso una convergenza economica efficace e uno stimolo per le riforme. La realtà recente ha però dimostrato come questa fosse perlopiù un’utopia, insufficientemente perseguita da parte della comunità europea e come i meccanismi stessi di rispetto delle regole (valutate in seguito non efficaci) fossero deboli. Difatti si è arrivati a delle riforme del Patto di Stabilità nel corso del tempo (two packs and six packs) che hanno portato in particolare alla creazione del semestre europeo. In aggiunta, è da sottolineare il passaggio dall’attuazione nella zona euro di manovre pro-cicliche a manovre anti-cicliche, a seguito della crisi finanziaria e l’utilizzo dell’indice del differenziale tra il PIL effettivo e il PIL potenziale, al fine di valutare le politiche fiscali degli stati membri, anche se poi di difficile applicazione pratica. In più, l’analisi delle condizioni macro di un Paese si sono estese alla verifica di alcune caratteristiche dell’economia in essere (disoccupazione, debito privato, bilancia dei pagamenti correnti). Ad ogni modo, la pandemia ha reso necessaria la sospensione del Patto di Stabilità e una riforma dello stesso dovrebbe essere in via di stesura a Bruxelles. Sempre la pandemia ha fatto da fattore catalizzatore per la creazione di un vero e proprio debito comunitario nella zona euro, come mai era successo nella Storia dell’unione. L’approvazione del Next Generation EU è stato come un lampo di luce accecante in una notte senza Luna prima della pandemia e sicuramente determinante per un passaggio in avanti per il progetto di federazione europea che era già unita, come visto, nella politica monetaria ma non in quella fiscale. Soprattutto gli Stati che avrebbero avuto difficoltà nell’ottenere nuovo debito sul mercato per concedere liquidità alle proprie economie durante la crisi pandemica (in cui spicca l’Italia) hanno beneficiato di debito a tassi d’interesse più bassi e di finanziamenti a fondo perduto. Si è chiaramente interposto l’obbligo di utilizzo delle risorse per riforme precise e per investimenti sulla produttività, con una vigilanza periodica delle istituzioni europee (il famoso PNRR).

Il futuro dell’Ue dipenderà dalla capacità di comprendere gli errori del passato.

Difatti, le diverse crisi che si sono susseguite a partire dal 2008 hanno portato l’Unione Europea a innovare le sue politiche monetarie e a procedere verso sia un’Unione Fiscale, sia verso un’Unione Bancaria. Il documento come evidenziato sin qui ha però messo in mostra alcuni aspetti ancora critici dell’area Euro che in assenza di un continuo processo di convergenza di politica comune, potrebbe facilitare l’emergere di nuovi squilibri tra gli Stati, considerando anche il verificarsi di shock esogeni sempre pronti a nascere, come la guerra in Ucraina. L’effetto politico di tale fragilità comunitaria riguarda l’insorgere di nuovi moti sovranisti che già hanno colpito duramente l’azione della UE nel decennio appena trascorso. Il bivio adesso è definito, o l’Ue e gli Stati membri imparano la lezione appresa in questi ultimi anni, oppure sono entrambi destinati ad essere fagocitati dai propri punti deboli e da attori geopolitici di stazza ben maggiore.

Roberto Biondini e Claudio Dolci

LEGGE DI BILANCIO 2023

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Il 29 di dicembre scorso si è concluso il tira e molla sulla legge di bilancio 2023 e con esso è svanito anche lo spettro dell’esercizio provvisorio, l’incubo numero uno di Giorgetti & Co., ma il tributo pagato per questo miracolo di Natale è stato salato. Giorgia Meloni, infatti, è scesa a compromessi con tutti i suoi più acerrimi nemici, dai percettori del RdC ai burocrati di Bruxelles, passando per la Ragioneria di Stato e le forze della sua stessa maggioranza. Ma la sfida delle sfide, e con essa la sconfitta più cocente, Meloni l’ha inflitta a sé stessa, barattando l’anima populista per quella governista: un bagno di realtà che ha dilavato all’istante tutti gli ideali, le utopie e le narrazioni che nel tempo hanno reso FdI quello che è oggi.

Lo scontro con Bruxelles e le Istituzioni italiane

Il primo scontro è arrivato con le istituzioni dell’Ue, le quali hanno sì accolto la prima delle molte bozze sulla Legge di Bilancio con benaugurante “in line”, ma riferito alle raccomandazioni di luglio e non a tutti i contenuti. La misura per i Pos, ad esempio, come quella sul tetto al contante, sono state criticate e con esse il condono sulle cartelle esattoriali e la riforma sulle pensioni (di cui si parlerà dopo). Da qui a sostenere, come ha fatto Meloni, che la Legge di Bilancio italiana sia stata tra le migliori d’Europa ce ne passa, più o meno come tra dire di fare il ponte sullo stretto di Messina. Forse la traduzione dall’inglese all’italiano può aver aiutato qualche portavoce di governo, ma i rilievi critici sulle misure delle bozze sono stati numerosi e bipartisan, visto che sono stati mossi persino dalle istituzioni italiane. La Banca d’Italia ha ricordato perché innalzare il tetto al contante aiuti l’evasione, mentre la Ragioneria dello Stato ha bocciato ben 44 emendamenti perché privi di coperture o contradditori. A forza di tagli cuci è stato addirittura necessario riportare la Legge di Bilancio in Commissione, il tutto dopo le nottate insonni di vari gruppi parlamentari, perché c’era un buco da 450 milioni di euro su di un emendamento. Morale della favola, alla fine il governo ha ceduto sotto i colpi delle regole rinunciando alla misura anti-Pos e dovendo porre rimedio là dove indicato.

Una figuraccia dietro l’altra che Meloni ha provato coprire con la conquista del price cap europeo sul gas, una battaglia combattuta da Draghi e giunta a fine stagione con un accordo a ribasso, dopo incertezze e litigi che il neo-esecutivo ha solo sfiorato, ma mai toccato con mano perché impegnato a interpretare un ruolo più che marginale, inesistente. Tutto normale? Forse sì. Salvatore Currei, sul Riformista, ricorda come l’iter della Legge di Bilancio sia ormai ostaggio di questi mille passaggi tra istituzioni nazionali ed europee, che finiscono per ingabbiare ogni esecutivo con una camicia di forza; per giunta quest’anno c’era anche da affrontare il tema energetico, che da solo ha assorbito 21 dei 35 miliardi messi in campo da Meloni. Su una tematica, però, si sarebbe potuto agire diversamente. Come riportano Ainis e Cassese, rispettivamente su Repubblica e sul Corriere, il bavaglio al Parlamento si doveva evitare. Dopo tutto che senso ha avere due camere ed eleggere dei parlamentari se tanto poi decide solo l’esecutivo? Chi si ricorda la Meloni barricadera all’opposizione sa che questo fu un suo cavallo di battaglia, eppure alla fine anche lei ha posto la fiducia sulla Legge di Bilancio, confermando la prassi, istituzionalmente sgrammaticata, del monocameralismo di fatto. E così il Parlamento è stato relegato al ruolo di passacarte e poco più, a nulla sono valsi i discorsi che FdI ha fatto negli ultimi 10 anni contro chi ha zittito i rappresentati del popolo: le lancette battono le idee.

L’abolizione del Reddito di Cittadinanza (RdC)?

Sin dal suo esordio il RdC è stato presentato per quello che non è. La povertà, infatti, c’è ancora e legare i sussidi per chi vive in condizioni di povertà alla ricerca del lavoro è stato un errore. I 5Stelle hanno venduto ai più una narrazione che non esiste, ma almeno erano riusciti a dare un po’ di sollievo agli sconfitti della società d’oggi. Meloni, invece, aveva annunciato in pompa magna di voler togliere il sussidio pentastellato sin da subito, salvo poi ripiegare su una strategia da compiersi in due anni e senza prevedere validi sostituti per aiutare chi ha poco o nulla. Dal 2023, come riportato dal sito Pagella Politica, “percettori del reddito di cittadinanza che hanno tra i 18 e i 59 anni di età e che all’interno del loro nucleo familiare non hanno minorenni, disabili e persone con più di 60 anni di età, potranno ricevere il sussidio al massimo per sette mesi.” Si tratta di circa 404.000 persone, con un risparmio per le casse dello Stato di 743 milioni di euro (il salvataggio del mondo del calcio è costato ben di più, 889mln di Euro).

L’obiettivo di questa misura è quello di impiegare la quota di percettori del RdC (gli occupabili), coloro che, per il governo, trascorrono le giornate sul divano. Da oggi, chi non accetterà la prima proposta di lavoro perderà il sussidio, mentre prima del governo Meloni queste offerte dovevano essere due e pure essere congrue. Un termine quest’ultimo su cui c’è stato molto dibattito, visto che un percettore che deve percorrere qualche centinaio di km per recarsi a lavoro, e magari è pure sprovvisto di un’auto, deve affrontare un problema oggettivo. Passato il polverone della bagarre tra FdI e opposizioni, un dossier Parlamentare suggerisce come la congruità dell’offerta rimanga un requisito tuttora valido, anche se non si capisce se per volontà dell’esecutivo o per la fretta che ha impedito di risalire all’articolo che ne garantiva l’efficacia. Nel 2024, invece, il RdC verrà abolito (sarò così?) e i suoi miliardi, 8,7 all’anno, verranno spostati altrove, in un fondo povertà e sostegno all’inclusione. Sin dal suo esordio, col governo Conte, il RdC ha ricevuto critiche (spesso legittime) ed ha fornito il carburante per la propaganda di tutti i partiti politici. Tuttavia, è difficile pensare che il governo Meloni, posto nel guado dell’inflazione a doppia cifra e della ventura recessione, possa abolire tout court questo sussidio, tant’è che l’attuale Legge di Bilancio colpisce solo una piccola parte dell’importo e dei percettori. Ed è probabile che alla fine gli si cambierà solo il nome e il funzionamento (sperando in qualcosa di più funzionale) del RdC, ma non la sostanza, anche perché i poveri esistono e votano.

La Flat Tax: chi ci perde e chi ci guadagna?

Tutti ormai sappiamo qual è il cavallo di battaglia della destra: tassa piatta per i lavoratori. In campagna elettorale eravamo rimasti ascoltatori di una corsa al ribasso dell’imposta sui redditi: dal 21% di Forza Italia, al 15% della Lega, forse per tutti, molto più probabilmente solo per gli autonomi in maniera più vigorosa. Addirittura, arrivando ad una strana proposta della tassa piatta incrementale (in italiani rimane un ossimoro) per i dipendenti. Cosa rimane di tutto questo? La flat tax per i dipendenti è scomparsa, ma per gli autonomi forfettari la base imponibile richiesta per calcolarla è aumentata fino ai redditi di 85 mila euro. Una vittoria per il centrodestra, ma che contribuisce ad alimentare numerose polemiche. Per i dipendenti si è infatti ridotto il cuneo fiscale di circa l’1%, mentre per gli autonomi lo si è ridotto in maniera più sostanziale. Oggi, a conti fatti, un autonomo forfettario con un reddito di 85 mila euro pagherà circa 10mila euro di imposte, mentre un dipendente, senza detrazioni, potrebbe arrivare quasi a 30mila! Ma a differenza di quanto si possa pensare, le critiche a questa mossa non provengono solamente dalle categorie che rappresentano i lavoratori dipendenti, ma anche quelle che rappresentano gli autonomi. Così afferma Anna Soru, la presidente di Acta che rappresenta piccole partite Iva, collaboratori, freelance, occasionali: “«La tassa piatta non ci riguarda perché non ci favorisce, anzi il confronto ora è due volte perdente: con il lavoratore dipendente, beneficiato da una no tax area più alta a 8 mila euro contro i 5.500 euro, dall’ex bonus Renzi di 80 euro e ora pure dal taglio del cuneo fiscale. Ma perdente anche rispetto ai lavoratori autonomi con reddito alto che godono della flat tax al 15% ampliata da 65 a 85 mila euro e della flat tax incrementale. A questi livelli bassi di reddito la tassa piatta al 15% non conviene a un freelance perché si perdono tutte le detrazioni e deduzioni, come le spese per mutui, sanità, bonus edilizi». Fatturati più robusti, fino a 85 mila euro, riescono invece a trarre maggiore beneficio dal 15% secco”

Insomma, gli autonomi che beneficiano di questa riforma sono coloro che appartengono alla classe media, quella che già si sostentava da sé (e che ha patito di meno l’inflazione e del caro energia), non quella più vulnerabile e a rischio. Sul tema della flat tax s’inserisce inoltre tutto il discorso dell’evasione legata alla dichiarazione dei redditi. Così il professor Carlo Cottarelli che sul tema ha espresso più di una perplessità: “Il rapporto che questo governo ci ha inviato è molto interessante anche per quello che ci dice sulla distribuzione dell’evasione. È quasi inesistente, sotto il 3%, per i lavoratori dipendenti. È invece elevatissima, oltre il 60 per cento, sull’IRPEF dei lavoratori autonomi e reddito d’impresa”. Lo stesso Luigi Marattin era entrato nel vivo della trattativa politica per trovare una soluzione per l’emersione del nero dovuto allo scatto da tassa piatta a IRPEF una volta superata la soglia di allora (65mila euro). L’idea era quella di creare un cuscinetto per coloro che nell’arco dell’anno avessero superato la soglia: una flat tax leggermente più alta per evitare il nero. Una proposta caduta però nel vuoto.

Per concludere, la flat tax rimane una manovra iniqua, a prescindere che siano autonomi o dipendenti a subirla. Ma, nonostante ciò, l’esecutivo ha tirato dritto.

Le pensioni e la tenuta dei conti dello Stato

La manovra prevede una rivalutazione al 120% delle pensioni minime e alza l’assegno minimo 600 euro per gli over 75 nel 2023. Misure che avranno un costo di circa 5,4 miliardi l’anno. Se a questo aggiungiamo i 2,4 miliardi di entrate in meno dovute agli sgravi a 8 mila euro per le assunzioni di under 35, arriviamo a un buco di 7,8 miliardi per le casse dell’Inps.” Così riporta il Corriere della Sera.

Anche sul tema delle pensioni, si sa come il centrodestra abbia sempre difeso una cancellazione della legge Fornero, un pensionamento anticipato (vedi quota 100) e una rivalutazione delle pensioni fino addirittura a 1.000 euro (vedi Forza Italia).  Ma aumentare le minime a 1.000 euro significa creare un deficit di oltre 100 miliardi per le casse dell’Inps, nel giro di soli tre anni, e distruggere la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico. Qui l’economia confligge con la giustizia sociale e le possibilità economiche del nostro Paese. Infatti, dare sostentamento alle classi meno agiate è un dovere, soprattutto in tempo di crisi, ma farlo mettendo a carico delle prossime generazioni le spese che ciò comporta è un atto immorale e ingiusto. E d’altra parte non era anche il RDC una misura per frenare la povertà? Forse bisognerebbe capire prima dove trovare i soldi per finanziare queste misure. Rimane l’opzione donna, con qualche tecnicismo sui figli a carico ma di una vera cancellazione di quota 100 ancora non se ne vede l’ombra, anche perché significherebbe quasi sicuramente default. “Il numero delle prestazioni sociali erogate ogni anno è in continuo aumento. L’eccesso di assistenzialità, a cui si sono dedicati tutti i governi negli ultimi 22 anni, ha fatto sì che le pensioni totalmente o parzialmente assistite siano ormai oltre il 45% del totale” dice ancora il Corriere della Sera, e su questo tema bisogna riflettere: quanto potrà resistere il nostro sistema pensionistico in un Paese dove chi cerca lavoro non lo trova e chi cerca lavoratori neppure?

L’analisi della legge di bilancio 2022 potrebbe continuare ancora e nelle prossime settimane ne discuteremo con ulteriori approfondimenti. Quello però emerge sin qui è che il sistema della Repubblica Parlamentare italiana ormai pare non funzionare più. Non si può continuare ad approvare leggi così importanti, come quella di Bilancio, con un sistema che presenta questo grado di disfunzionalità e caos. Urge una riforma, ma non appena la si nomina il Gattopardo ci avverte delle controindicazioni: tutto deve cambiare affinché tutto rimanga così. Che fare allora? Forse meglio festeggiare l’anno nuovo e ripensarci dopo le feste, sperando che l’ottimismo per un nuovo inizio prevalga sulla cruda realtà dell’anno appena passato.

9 miliardi e 846 milioni di euro
 
È il costo delle misure per ripagare, attraverso i crediti di imposta, una parte della spesa sostenuta dalle imprese per acquistare energia elettrica e gas.
 
2 miliardi e 515 milioni di euro
 
È il costo per i primi tre mesi del 2023 del rafforzamento del “bonus sociale”, che aiuta a ridurre la spesa sostenuta dalle famiglie in disagio economico per gas ed elettricità.
 
Un miliardo e 75 milioni di euro
 
È il costo, previsto tra il 2023 e il 2025 in termini di minori entrate per lo Stato, dell’estensione del regime forfetario al 15 per cento (quello che la Lega chiama erroneamente “flat tax”) per le partite Iva con ricavi fino a 85 mila euro.
 
810 milioni di euro
 
È il costo stimato per il 2024 della cosiddetta “flat tax incrementale”. Le partite Iva che nel 2023 hanno registrato un aumento di reddito rispetto ai tre anni precedenti vedranno tassarsi questo aumento con un’imposta fissa del 15 per cento.
 
215 milioni di euro
 
È il costo annuo della riduzione dell’Iva al 5 per cento sui prodotti dell’infanzia e per quelli dell’igiene intima femminile. Più nel dettaglio, la prima misura costa ogni anno 178,2 milioni di euro, la seconda 36,9 milioni.
 
Un miliardo e 585 milioni di euro
 
È il costo, stimato in minori entrate tra il 2023 e il 2030, di una delle misure della cosiddetta “tregua fiscale”, il condono con cui il governo ha deciso di fare uno sconto sulle sanzioni a chi ha debiti con il fisco.
 
889 milioni di euro
 
È il costo, in termini di versamenti sospesi, dell’emendamento “Salva sport”, ribattezzato anche “Salva calcio” perché permette alle federazioni e alle società sportive, in particolari a quelle calcistiche professionistiche, di riprendere a pagare le imposte, sospese con la pandemia di Covid-19, in 60 rate, più una maggiorazione del 3 per cento. Lo Stato conta dunque di recuperare tutti i versamenti sospesi entro il 2027.
 
5 miliardi di euro
 
È il costo per il 2023 del taglio del cuneo fiscale, ossia della differenza tra il lordo e il netto in busta paga. Il governo Meloni ha deciso di confermare il taglio del 2 per cento introdotto temporaneamente dal governo Draghi per i redditi fino a 35 mila euro e ha alzato al 3 per cento il taglio per chi guadagna fino a 25 mila euro l’anno.
 
2 miliardi e 158 milioni di euro
 
È il costo stimato, tra gli anni 2023 e 2025, della cosiddetta “quota 103”, che permetterà, con una serie di vincoli, di andare in pensione anticipata a chi ha almeno 62 anni di età e 41 anni di contributi versati.
 
859 milioni di euro
 
È il costo stimato dell’aumento delle pensioni minime, nel 2023 e nel 2024, da circa 525 euro a circa 564 euro. Il governo ha deciso di aumentare per le pensioni minime l’adeguamento previsto per la crescita dell’inflazione, che coinvolgerà con percentuali diverse tutte le pensioni. In più, nel 2023 le pensioni minime per le persone con più di 75 anni di età saranno portate a 600 euro.
da PagellaPolitica

Che ne sarà della globalizzazione?

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Per più di trent’anni la globalizzazione ha regolato le relazioni internazionali e riorganizzato le produzioni nazionali di quasi tutti i Paesi del mondo. L’imperativo era delocalizzare, stringere legami con chi aveva i mezzi e le risorse a più buon mercato, così da imporre col commercio ciò che la diplomazia delle idee aveva invano tentato senza mai riuscire ad ottenere, ovvero una pace perpetua. Un obiettivo ambizioso promosso dall’egemone per eccellenza, che però si è infranto ben prima dello scoppio della pandemia e della successiva guerra in Ucraina. Già da tempo, infatti, la bilancia commerciale degli Stati Uniti mostrava i segni di cedimento nei confronti della Cina. Nel 1985 il disavanzo prodotto dal commercio tra questi due Paesi aveva un saldo negativo (per gli USA) di -6 milioni di dollari, mentre nel 2022 ha raggiunto la cifra monstre di -338.103,7 milioni di dollari. A fronte di una maggiore varietà di merci a buon mercato, gli statunitensi hanno quindi importato ben di più di quanto esportato verso le terre del Dragone. Un bene, un male? Più che altro un segno del cambio dei rapporti di forza tra i due Paesi che si è ripetuto un po’ in tutto il mondo. In Ue, ad esempio, la Germania ha fatto del surplus commerciale la fonte della propria ricchezza e della globalizzazione la propria dottrina di vita, realizzando così guadagni sempre crescenti sino alla pandemia. L’Italia, invece, da Paese esportatore quale è, ha sì beneficiato del commercio globale, ma ha anche subito tutti gli shock economici da esso prodotti negli ultimi trent’anni (soprattutto a causa dell’elevato debito), finendo per muoversi come si farebbe sulle montagne russe.

Di fatto i vinti e i vincitori dello scacchiere commerciale mondiale si sono ritrovati sempre più vicini tra di loro proprio grazie alla globalizzazione, al concetto di società aperta a tutto e tutti, dove l’origine di un prodotto conta poco o nulla rispetto al profitto che esso genera. Se il gas costa meno in Russia, allora va bene a prescindere da ciò che accade in Georgia o in Cecenia. Se la Cina diventa la fabbrica del mondo non importa cosa fa degli Uiguri o delle altre minoranze etniche presenti nel proprio territorio. Se il Brasile disbosca quello che era il polmone del mondo per produrre più manzo ed estrarre le terre rare di cui necessita il comparto tecnologico, chi siamo noi per impedirlo? Questo ragionamento, esteso a tutto il mondo, ha dato l’illusione che si potesse crescere senza conflitti, senza ristabilire un minimo di comun denominatore nei rapporti internazionali capace di superare il profitto. E l’aspetto più singolare è che questo sistema è stato accettato ugualmente da vinti e vincitori, almeno sino a quando non si sono visti i limiti (per altro già evidenti) di un interscambio senza se e senza ma.

D’altronde, se appalti il 5G a un Paese che usa le telecamere e la rete informatica per spiare i propri concittadini (come avviene in Cina) corri un rischio. Se acquisti i chip che ti servono per far funzionare praticamente tutto da un’isola sui cui cieli volano caccia cinesi pronti a lanciare bombe, corri un rischio. Se costruisci i gasdotti con un Paese che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi ha eretto muri, finanziato i tuoi nemici e soppresso le opposizioni interne, corri un rischio. Eppure nulla di tutto ciò ha mai leso o rallentato la globalizzazione e i suoi entusiasti promotori. È dovuto succedere l’impensabile prima che l’Occidente prendesse coscienza del ginepraio che aveva costruito e in cui si era crogiolato per oltre un tentennio.

Il primo ad avvistare la mucca nel corridoio è stato un populista: Donald Trump. Il quale, all’inizio del suo mandato, ha dato via una guerra commerciale con la Cina per ristabilire l’equilibrio in una bilancia commerciale trasformatasi da tempo in un piano inclinato (strategia continuata dallo stesso Biden). Poi è sopraggiunta la pandemia e il mondo si è ritrovato privo di farmaci (poiché prodotti perlopiù in India) e senza dispositivi sanitari di protezione (perché fabbricati in Cina, anch’essa alle prese con la pandemia). Infine è scoppiata la guerra in casa dell’Ue, che fino a quel momento aveva ignorato i disordini nel resto del mondo, pur vedendone gli effetti ben esemplificati dai flussi migratori che da tempo spingono sempre più persone a lasciare casa propria per l’ignoto. L’aspetto più grottesco dell’intera gestione della globalizzazione senza invito è che se non fosse stato per la guerra in Ucraina probabilmente nulla sarebbe cambiato e che, nonostante l’invasione di un Paese ai confini dell’Ue, si continuino a cercare soluzioni che modifichino poco o per nulla lo status quo pre-disordini. Di fronte a un problema si è scelta la soluzione meno rischiosa e per questo più semplice.

Della guerra sotterranea giocata dai servizi segreti, dal soft power di Paesi illiberali capaci di colpire il Regno Unito con la Brexit, gli Stati Uniti con le mail di Hillary Clinton e persino l’Ue (come ha dichiarato Metsola sul Qatargate), non ci si preoccupa. Fa parte del gioco, eppure chi sta perdendo sono proprio le democrazie. Schiacciate internamente dalla fragilità della propria storia e dalla tensioni di un presente che porta con sé un conto troppo salato per essere saldato a cuor leggero.

In quest’ottica il 2022 ha rappresentato allo stesso tempo un bivio e la conclusione di un ciclo economico ben esemplificato dal rialzo dei tassi d’interesse e dalla corsa dell’inflazione. Da una parte si deve scegliere se ritornare al tavolo della diplomazia, consapevoli che ciò può condurre a periodi di tensione e divisione del mondo in blocchi, oppure riorganizzarsi e tentare di vincere un gioco che negli ultimi trent’anni ha però avvantaggiato maggiormente le autocrazie. Il tutto in un contesto economico che vede all’orizzonte una recessione e la fine della globalizzazione senza dazi, senza diritti e per questo senza invito.

di Claudio Dolci