3 min di lettura Negli ultimi mesi abbiamo assistito, diverse volte, ad annunci da parte dei media dove si affermava che il caro bollette sarebbe rientrato. Durante il lockdown alcune agenzie di informazione del calibro… Altro
Il PNRR: il Piano Nazionale di Ricerca dei Responsabili
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Il cortocircuito istituzionale che stiamo vedendo in questi giorni oscilla tra la commedia e la tragedia; quello che è certo che l’Italia non ci fa una bella figura. Il ritardo ormai certificato nell’utilizzo dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sembra quasi inarrestabile e piuttosto che soffermarsi sul “perché” (come il pragmatismo vorrebbe), la classe dirigente continua a ragionare sul “chi”, alla ricerca di un capro espiatorio capace di espiare le colpe e di veicolare l’attenzione della popolazione.
Sta di fatto che ogni giorno che passa, l’esecutivo cerca redenzione dai suoi elettori, spiegando loro l’impossibilità di poter intervenire su questo dossier, avendo le mani legate causa governi precedenti ed istituzioni comunitarie. E c’è talmente tanta confusione tra note ufficiali, dichiarazione alla stampa, voci di corridoio e media più o meno schierati, che anche i più interessati alla vicenda fanno veramente fatica a comprendere dove stia la verità. E la verità nei confronti dei cittadini che sono i destinatari di questi miliardi che ora rischiano di perdere, pare al quanto necessaria. È umano che nessuno voglia metterci la faccia per giustificare l’eventuale perdita dei fondi del PNRR, farebbe vergognare chiunque, ma impegnarsi nella cosa pubblica significa proprio assumersi le responsabilità di ciò che riguarda una comunità, di assumersi le colpe almeno quanto vengono sbandierati i successi. La maturità, la civiltà di un Paese si può intravedere proprio da questo e l’Italia dimostra di essere una piccola nazione tra le grandi nazioni.
Ma a parte queste stoccate moraliste che magari non hanno alcuna presa nella società in cui viviamo, dove forse il cinismo e la propaganda prevalgono, la mancanza di trasparenza sul PNRR, la concentrazione dell’esecutivo a trovare dei responsabili piuttosto che lavorare sul recepimento dei fondi è una mossa politicamente strategica ma rischiosa: sarebbe meglio lavorare in silenzio con la Commissione Europea, cercando di capire quali sono i punti più sensibili, magari anche giustamente vista le condizioni della nostra macchina burocratica, e negoziare una via di uscita ma al contempo impegnandosi sodo per mostrare la serietà del sistema Paese.
Perché stavolta è diverso, i compiti a casa non vengono richiesti dalla UE per il semplice obiettivo di farli (che comunque fa parte di un gioco che l’Italia ha sottoscritto) ma perché in cambio Roma riceverebbe dei finanziamenti anche a fondo perduto che da sola non potrebbe senza subbio ottenere. Se si ragiona un attimo sembra proprio una follia che questi soldi in buona parte gratis vadano persi, ma pare che essa sia di casa nel Bel Paese.
Se si perderanno i soldi, poi, l’effetto tsunami è molto più potente della scossa di terremoto in essere: perdita di credibilità con il resto dei partner commerciali e finanziari, stop a futuri fondi comunitari e probabilmente perdita di alleanze strategiche nei posti che contano. Non a caso il professor Giavazzi, già consigliere di Mario Draghi ai tempi del governo, scrive sul Corriere che perdere la faccia oggi, anche in riferimento al MES, significa essere senza amici in sede di approvazione del nuovo Patto di Stabilità e Crescita che potrebbe esserci svantaggioso se gli altri Stati dell’Unione si metteranno d’accordo per una stretta di bilancio più di quanto noi vorremmo e potremmo sopportare per le condizioni precarie in cui versiamo. Insomma, l’effetto stigma sarebbe per noi geopoliticamente svantaggioso oltre che per tutte le motivazioni finanziarie già citate.
E si torna a dare la colpa a Germania e Francia, che a quanto trapela da Palazzo Chigi, sono in combutta per poter far sfigurare Giorgia Meloni agli occhi di tutti. Che il gioco della geopolitica sia una partita a scacchi è certo; che i Paesi frugali non vedano l’ora di dimostrare quanto siamo incapaci di usare fondi comunitari è probabile; che però Macron e Scholz siano così impegnati a far cadere Meloni è pura fantasia demagogica usata per martirizzarsi nel momento in cui non sa più cosa dire. Siamo sicuri che stiamo usando al meglio le nostre carte?
di Roberto Biondini
E’ guerra delle Valute
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Che cosa sta succedendo all’economia Russa? In principio, dopo il blocco dello SWIFT, il congelamento delle riserve in valuta estera e il crollo del rublo, sembrava imminente il default economico, ma poi l’Orso ha reagito con una zampata; dapprima alzando i tassi d’interesse della banca centrale, sino al 20%, e successivamente obbligando i Paesi Occidentali ad aprire conti per la conversione degli euro in rubli presso Gazprom Bank. E in questo modo, tra mosse e contromosse artificiali, si è consumato un conflitto economico che pare ora prossimo all’epilogo, con l’avvicinarsi di un default che di reale non ha nulla, ma i cui effetti avranno modo di propagarsi ben oltre i confini russi.
La forza del dollaro
Le armi economiche sono da sempre parte dell’arsenale tattico americano, da quando cioè gli Stati Uniti si sono imposti non solo come guardiani dell’ordine globale, ma anche come possessori dell’unica moneta in grado di dettar legge nel mondo economico. Ciò fu dapprima possibile grazie al golden standard (1922), un sistema che consentiva la convertibilità del dollaro con l’oro, e poi, dal 1981, grazie a una politica monetaria molto stringente imposta da Regan e Volcker. Come scrive Luca Fantacci, su Ispi, “l’attuale paradossale versione dell’egemonia monetaria, in cui la moneta chiave (il dollaro) è tanto più forte (in termini di diffusione globale) quanto più debole (in termini di competitività) è l’economia dell’emittente: in effetti, l’accumulazione di riserve in dollari in tutto il mondo è semplicemente il riflesso dei deficit di bilancia dei pagamenti americani”. Questa peculiarità del biglietto verde per eccellenza, lo ha reso la moneta più utilizzata per gli scambi commerciali internazionali (dove occupa il 40% dei pagamenti tra Paesi) e come punto di riferimento sia per il mercato, sia per l’apprezzamento delle altre valute di riserva (come l’euro, la sterlina, lo Yen e i Renminbi). Non è quindi inusuale la presenza di ingenti quantità di dollari nella quota di valuta estera detenuta dagli Stati, come nel caso della Russia, né l’utilizzo della stessa come moneta per il rimborso delle cedole sui Bond. Sempre gli Stati Uniti, oltre alla moneta, hanno da sempre usato mezzi di pressione economica per destabilizzare economie di Paesi avversi, dal celebre embargo su Cuba agli 8,9 mld versati nel 2014 da Bnp Paribas, sanzionata dall’Ofac (Office of Foreing Assets Control), per aver fatto operazioni non consentite con Sudan, Iran e altri Paesi ritenuti ostili da parte di Washington. Di fatto esisteva una black list e un modus operandi a modi “bando” ben prima dell’attuale guerra in Ucraina, anche se questa volta ci sono almeno un paio di peculiarità degne di nota.
La guerra dei numeri
La prima è che la Russia rischia di finire in default non per incapienza o diniego nei confronti del contratto, ma perché non può materialmente adempiere al contratto, a differenza di quanto accaduto in Argentina e in Pakistan. Fino al 24 maggio, infatti, era in vigore una licenza, la 9A, che consentiva alla Russia di pagare i propri debiti in valuta esterna, ma il suo mancato rinnovo fissa oggi la data del default russo al 23-24 giugno, quando andranno in scadenza le prossime cedole. Se quindi il ministero delle finanze moscovita non dovesse riuscire a scoprire metodi alternativi per saldare i propri contratti esteri, ecco che scatterebbe l’avvio della procedura per il default, con altri 30 giorni di vita prima della definitiva messa al bando economico, sancito dall’attivazione dei Credit default swaps (già aumentati dell’85% su base settimanale).
Tuttavia, alla bancarotta russa mancherebbero quei presupposti di base che si verificarono col caso argentino. Il rublo, infatti, grazie ai continui flussi di denaro europeo (quasi un miliardo al giorno) e agli obblighi di conversione della valuta estera, aveva raggiunto il suo valore massimo degli ultimi 4 anni, per poi perdere terreno in questi giorni (a seguito del taglio degli interesse da parte della banca centrale russa, oggi scesi dal 20% all’11%). Un balzo, quello del rublo, talmente forte da imporre continue revisioni nei confronti della strategia manipolatoria adottata dalla banca centrale russa. D’altronde, nessuno vuole più i rubli e quindi l’aumento improvvido della domanda interna è un risultato del tutto artificiale, frutto dell’obbligo, per qualunque soggetto russo che tratti valuta estera, di convertirla immediatamente. Una mossa questa, che di recente ha subito un brusco dietrofront da parte della banca centrale russa stessa, che ha passato la quota di valuta da convertire in rubli dall’80% al 50%. La ragione di questa mossa è molto semplice, il rapporto tra import ed export ha creato un forte avanzo commerciale, la russa esporta materie prime ma non importa più quasi nulla; e tutto ciò non è un bene, soprattutto per un Paese che vive di esportazioni verso l’esterno, da qui la necessità di rallentare l’apprezzamento del rublo sull’euro e sul dollaro. Nei fatti però, al netto delle mosse e contromosse per compensare l’effetto delle sanzioni, l’economia russa non gode di buona salute. Il Pil, ad esempio, è già dato in caduta libera con una forchetta che oscilla tra un meno 8/10% (e solo per il 2022), mentre l’inflazione è scesa solo di qualche decimo di punto, dal 17,8 al 17,5%, restando comunque talmente alta da obbligare Putin stesso ad aumentare 10% le pensioni e il salario minimo; lasciando così intendere che l’aumento dei prezzi non calerà tanto velocemente.
In breve, è vero, la caduta dell’economia russa è frutto delle sanzioni, le quali (nonostante il continuo approvvigionamento di soldi da parte dei Paesi dell’Ue) stanno colpendo duramente Mosca. Tuttavia, vi è dell’artificio sia nel venturo default tecnico, sia nelle mosse volte a scongiurare questo epilogo. Di fatto, Russia e Stati Uniti stanno partecipando e barando allo stesso gioco e con analoghi strumenti. Da una parte si sta sostenendo la moneta domestica, il rublo, con artifici di ogni sorta, da obblighi a conti correnti paralleli, mentre dall’altra parte si dichiara un default quando lo Stato debitore, in questo caso la Russia, sarebbe disposta a pagare quanto dovuto, ma semplicemente non può. Si arriva così alla seconda peculiarità di questo duello ambientato sullo scacchiere economico internazionale, ed è il rischio che a perdere siano entrambi i contendenti, anche se per ragioni differenti.
Le conseguenze
Non è necessario essere degli indovini per capire che il contraccolpo più pesante di questa guerra economica sarà assorbito dalla Russia, come testimonia il direttore del dipartimento di Ricerca e previsione della banca centrale russa stessa, Alexander Morozov, il cui intervento è stato riportato in versione integrale da Il Foglio. Lo choc dal lato dell’offerta sarà, secondo Morozov, paragonabile a quello della recessione degli anni ’90, tranne per il fatto che serviranno più anni per riprendersi. E ciò è dovuto al fatto che i comparti ad alta innovazione tecnologica necessitano di componenti di provenienza estera, i quali sarà molto difficile, se non impossibile, sostituire, rallentando così efficienza e produttività. D’altronde, com’è stato anche per l’embargo su Cuba, il rischio è che la Russia debba regredire o nel caso migliore accontentarsi di standard tecnologici più bassi rispetto a quelli attuali e pre-invasione dell’Ucraina. Per Morozov, inoltre, “si prevede che il declino della trasformazione tecnologica dell’economia russa continuerà in questa fase, con l’invecchiamento delle strutture materiali e tecniche e la loro sostituzione con prodotti sostitutivi meno produttivi”. Nei fatti, i russi non torneranno a guidare le Lada, ma poco ci mancherà (almeno sul piano tecnologico). Sul piano internazionale, invece, il default peggiorerà ulteriormente la reputazione di Mosca, rendendo ancor più difficile l’accesso a capitali per finanziare il proprio debito. Certo, siano a quando la Russia potrà contare sui miliardi che i Paesi dell’Ue le inviano ogni giorno per gas e petrolio, l’accesso ad ulteriore credito potrebbe non servire, ma il sesto pacchetto di sanzioni potrebbe vedere la luce nelle prossime settimane rendendo imminente un cambio di strategia per il Cremlino.
Sul versante europeo, invece, il default russo potrebbe avere delle conseguenze non trascurabili, anzi. In un articolo uscito su Domani, a firma di Vittorio da Rold, viene illustrato come il debito mondiale abbia ormai raggiunto livelli preoccupati, con un importo complessivo pari a 303 mila miliardi di dollari e di come un default russo potrebbe innescare un effetto panico sui mercati di tutto il mondo. Come riportato da Rold Gopinath (numero due del Fondo Monetario Internazionale) il quale afferma che l’eventuale default russo avrebbe conseguenze soprattutto in Europa e ha nominato l’Austria e l’Italia come le più esposte alla Russia dei paesi europei. Il ministro dell’Economia Franco ha però rassicurato sul fatto che l’Italia risulta esposta con la Russia solo per 8 mld di euro, ma il commento di Gopinath era riferito soprattutto all’alto debito del nostro Paese, il quale potrebbe subire più di altri le turbolenze di un mercato irrequieto. Occorre inoltre considerare che diversi istituti di credito italiano sono esposti ben di più rispetto ai valori dichiarati dal ministro Franco. La Stampa, a marzo, riportava un’esposizione complessiva pari a 25 mld di euro di crediti elargiti dal settore bancario italiano verso la Russia e il 27 maggio, Milano Finanza, quantificava a 7,5 i mld concessi a Mosca dalla sola Unicredit.
Oltre allo choc immediato sulla finanza russa e su quella europea, non è poi da escludersi che l’arma economica impiegata dagli Usa non possa nuocere anche al dollaro stesso. Sono in molti, infatti, a ritenere che dopo questa entrata a gamba tesa sulla solvibilità dei conti di un Paese straniero possa andarsi affermando un sistema non più dollaro-centrico, magari sostituito dai renminbi. Ad oggi è solo uno scenario ipotetico, ma la Cina si è già mossa nella creazione di un sistema di pagamento internazionale sganciato dallo SWIFT e lo Yuan digitale è già una realtà, a differenza delle valute Occidentali, senza considerare poi che una gran parte del mondo ha votato contro la risoluzione che condannava la Russia per l’invasione dell’Ucraina.
L’Occidente è oggi in grado di vincere la guerra economica contro la Russia, ma non sarà a costo zero e potrebbe rivelarsi, soprattutto nel lungo periodo, un boomerang. D’altronde l’attuale domanda interna di combustibili fossili sta venendo rimpiazzata con fornitori dal pedigree non meno autocratico rispetto a quello russo e non è chiara quale sia la politica estera intrapresa dell’Europea…
di Claudio Dolci e Roberto Biondini
La matassa verde, un groviglio di problemi
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I nodi sono fatti così, crescono nell’incuria e ignorano il pettine che prima o poi, almeno si spera, li rimetterà in riga. Tra le necessità ambientali, la mancata volontà sociale e gli errori politici, la matassa verde si sbroglia difficilmente. Lo dimostra il recente contesto europeo e geopolitico, in cui da giorni si parla della direttiva europea sulle case green e quella sullo stop ai motori diesel e benzina, nonché del piano IRA voluto da Biden e in ultimo il blocco alla cessione dei crediti del superbonus 110. Tutti questi elementi politico-economici altro non sono che nodi posti di fronte al grande pettine del riscaldamento globale, il quale impone a tutti quelli che negli anni hanno detto “tanto c’è tempo” una brusca retromarcia, che però costerà caro ai conti pubblici e privati.
Il primo elemento da cui partire è l’UE, che dopo anni di discussioni e rinvii per i veti incrociati, ha finalmente trovato la forza politica per attuare un piano su larga scala di riduzione delle emissioni, il “Fit For 55”. L’obiettivo di questo piano è quello di ridurre, entro il 2030, del 55% le emissioni di C02 rispetto ai livelli registrati nel 1990. Un’idea che trova la sua logica in un altro dato: dal 1990 ad oggi è stata immessa nell’atmosfera una quantità di CO2 pari a quella prodotta in tutti i secoli precedenti (come ha ricordato Chicco Testa sul Foglio). Se si continuerà con il trend degli ultimi 30 anni, fatta eccezione per il periodo pandemico (l’unico in cui si sia verificato un calo delle immissioni), l’obiettivo di contenere le temperature entro i 2°C rispetto all’era pre-industriale fallirà miseramente. Tenuto conto poi che l’attuale coalizione europea vacilla, le elezioni del 2024 sono vicine, e che il contesto geopolitico della pax americana non sta meglio, l’UE ha deciso di imprimere un cambio di passo. Le case degli europei dovranno consumare meno, quindi entro il 2033 dovranno rientrare nella classe energetica D, ed entro il 2035 non sarà più possibile acquistare veicoli a benzina e diesel, meglio un auto elettrica. Le proposte sono buone, ma scontano entrambe dei problemi di fondo che si collegano al caso del superbonus 110 in Italia, e dell’IRA negli Usa.
Il cratere creato dai bonus edilizi nei conti pubblici italiani
Giorgia Meloni ha dovuto mandare giù una medicina molto amara, sotto la prescrizione puntuale del suo Ministro dell’Economia, Giorgetti, che posando lo sguardo sull’ultima colonna di destra dei conti pubblici ha fatto una scoperta: i bonus edilizi sono costati 110 miliardi di euro. La soluzione? Basta sconti in fattura e cessioni del credito, si prosegue solo con la detrazione nella dichiarazione dei redditi. Manco a dirlo le associazioni di categoria sono già sul piede di guerra, l’Ance, il Cna e Confartigianato mostrano i numeri dietro il “gratuitamente” di Giuseppe Conte: 25.000 imprese che non sanno come cedere il credito, 90.000 cantieri fermi e 150.000 lavoratori che vagano nell’incertezza del domani. D’altro canto, spulciando i risultati dei bonus edilizi si scopre come la maggior parte dei benefici economici sia finita al ceto medio, coloro che possiedono una casa indipendente, e come il rapporto tra euro speso e beneficio energetico sia materia di leggenda. Per Giorgetti il Superbonus e gli altri incentivi all’edilizia hanno sottratto e sottrarranno dal portafoglio di ogni italiano circa 2.000€. Conte, invece, rivendica i successi dell’iniziativa avviata sotto il suo esecutivo, “Pil cresciuto del 6,7% nel 2021 e del 3,9% nel 2022. Il Superbonus, come confermato da Censis e Nomisma, ha consentito la creazione di 900 mila posti di lavoro” (come riporta il sito Open). Come sempre vale la legge del pollo di Trilussa, i numeri non dicono tutto.
Vero, il Superbonus è stato tra i motori della ripresa post-pandemica ed ha rappresentano una misura volta a sostenere l’investimento per eccellenza degli italiani, la casa. Ma, è vero anche che le truffe dietro i bonus sono state eclatanti ed efferate, per non parlare della regressività della misura (niente tetto ISEE). Giorgetti ha avuto gioco facile a difendere lo stop voluto dal governo Meloni, gli è bastato citare Draghi “Il problema non è il superbonus. Il problema — disse Draghi — sono i meccanismi di cessione che sono stati disegnati. Chi ha disegnato quei meccanismi senza discrimine e senza discernimento, è lui, o lei o loro, i colpevoli di questa situazione per cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti”. Preso atto di come sono stati sin qui gestiti i bonus edilizi, c’è il concreto rischio che per rendere più efficienti le 9 milioni in classe energetica G, occorrerà che ogni italiano prenda mano al portafoglio; la stima iniziale parla di 1.400 miliardi di euro.
Stop alla vendita di auto diesel e benzina.
Anche ammesso che si trovino i soldi per ristrutturare il parco immobiliare italiano, è assai difficile che dopo un simile esborso vi sia ancora lo spazio finanziario per dire basta ai motori diesel e benzina, eppure anche qui il pettine ha già dichiarato il giorno in cui incontrerà il suo nodo: 2035. La maggioranza Ursula non ha retto il voto e il Parlamento europeo ha approvato la misura con 340 si e 279 no. Qui i problemi, a differenza del dossier case green, sono tre. Il primo riguarda il costo sociale di questa iniziativa, che secondo quanto dichiarato da Thierry Breton, comporterà un taglio di 600.000 posti di lavoro in tutta l’UE e visto che le auto elettriche richiedono meno componenti, solo una parte di questi lavoratori troverà un nuovo impiego nel settore dell’automobile. E questo è il problema minore, perché il secondo, assai più complesso, riguarda l’elettrificazione di tutta l’infrastruttura stradale, ovvero le colonnine e l’energia che esse richiederanno per sostenere il parco auto circolante. Un esempio? Delle 36.722 colonnine di ricarica presenti in Italia, ben il 19% non è in funzione, perché non collegate alla rete. Servirebbero poi 150GW per ricaricare la rete e mantenerla attiva. Ora, vista la difficoltà che c’è già ora per rispettare gli obiettivi del Pnrr in materia ambiente, occorreranno correre e per davvero. Sempre ammesso che si riesca a superare indenni il terzo ostacolo: il mercato.
È da tempo che i principali marchi automobilistici stanno attuando una politica di investimento sui segmenti di lusso, tra cui quello dell’auto elettrica, in antitesi rispetto a quanto avviene oggi negli Stati Uniti e questo è un problema. Luca de Meo, CEO di Renault, non ha infatti gradito la variazione di prezzo, verso il basso, dei prezzi praticati da Tesla ed ha commentato con durezza la scelta dell’azienda di Elon Musk: “This is destroying value for the customer, for sure, when you do this.” In realtà la questione è un’altra, se calano i prezzi di Tesla, che guida il mercato dell’elettrica, allora devono diminuire anche quelli dei competitor come Renault. Ma quest’ultima, che nel 2022 ha fatto registrare il +5,6% sul suo margine operativo e perlopiù, il 40%, con la vendita di veicoli in fascia alta, non ha nessuna intenzione di abbassare i prezzi e riposizionarsi così velocemente. Una tematica, questa, che coinvolge quasi tutti i produttori di auto, Renault infatti è il terzo per auto elettriche, quindi gli altri se la passano anche peggio (fatta eccezione per Tesla e Toyota).
Se gli USA arrancano?
Tuttavia, anche negli States, patria della Tesla e del piano IRA di Biden, non tutto luccica grazie a fonti rinnovabili e i problemi da risolvere per una transizione energetica veloce sono molti. Il primo riguarda l’approvvigionamento delle terre rare e dei materiali per fabbricare le auto elettriche, poiché sono perlopiù in mano alla Cina con la quale gli Usa hanno da poco alimentato il conflitto in chiave tecnologica. Come riportato dal Financial Times “Together, China and Europe produce more than 80 per cent of the world’s cobalt, while North America makes up less than 5 per cent of production, according to the IEA. China also accounts for 60 per cent of the world’s lithium refining.” L’altro problema riguarda la forza lavoro e il tasso d’occupazione, ancora molto alto, che riguarda il mercato del lavoro americano. Serviranno infatti almeno mezzo milione di operai solo per far fronte all’attuale penuria e occorreranno standard di lavoro più alti, soprattutto in termini di garanzie e stipendi, perché è questo ciò che chiedono gli americani dopo decenni di globalizzazione. Ma sarà possibile?
Il pettine non perdona. I rischi che la transizione proceda troppo lentamente.
Sia il contesto europeo, sia quello americano ed italiano, stanno affrontando la transizione energetica con foga, ma i problemi sul tavolo, ovvero i nodi, sono tutt’altro che inclini a lasciarsi sciogliere. In UE mancano le risorse finanziarie per aiutare gli Stati dell’unione a gettare il cuore oltre l’ostacolo e senza questi soldi è difficile che Paesi come l’Italia possano seguire le nuove direttive green, anzi, è facile che le sabotino in seno al Consiglio. Il secondo problema riguarda il mercato, il quale oggi sembra intravedere la fine della crisi energetica imposta dalla guerra in Ucraina e che per questo potrebbe tornare a scommettere sul petrolio e il gas. C’è poi il problema del mercato dell’automotive, il quale guadagna ancora moltissimo dalla vendita di prodotti in fascia alta, per cui ha poco o nessun interesse a produrre auto utilitarie full electric per operai; tant’è che in Italia il parco auto elettrico si attesta a un modestissimo 2,6% e non ci sono i soldi per incentivi a pioggia stile Superbonus 110. Infine, senza potersi avvalere delle filiere della globalizzazione, abbandonate per ragioni geopolitiche, prima ancora che sanitarie, è difficile che la transizione non sollevi, anche in Europa, problemi inerenti al mercato del lavoro domestico.
di Claudio Dolci e Guglielmo De Puppi
Sovranisti e Migranti: una convivenza impossibile
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Negli ultimi decenni guerre, crisi economiche e povertà nei paesi sottosviluppati e in via di sviluppo hanno aumentato il trend migratorio. In particolare, le persone provenienti da Sud America, Africa e Asia cercano di spostarsi verso aree più ricche, come gli Stati Uniti e l’Europa. In quest’ultima, la crisi dei rifugiati è diventata un tema delicato a causa della complessa struttura gestionale dell’UE e a causa di un gran numero di membri direttamente coinvolti nel processo migratorio. Dalle prime decisioni prese a Bruxelles alle ultime opzioni discusse tra i membri europei, sembra che questo problema faccia emergere divisioni piuttosto che unità di intenti. Guardando cronologicamente i passi compiuti dall’Unione Europea, è evidente l’assenza di una visione comune nella gestione dell’immigrazione.
Un problema sottovalutato
Quando nel 1957 fu firmato il Trattato di Roma, la possibilità di affrontare una crisi dei rifugiati non era sul tavolo e il fulcro della collaborazione europea era completamente basato su questioni economiche. Dopo la fine della Guerra Fredda e il grande allargamento dell’UE, l’area economica si è allargata e confinava direttamente con l’Asia e indirettamente, attraverso il Mar Mediterraneo, con l’Africa. Le questioni sociali iniziarono ad essere al centro delle discussioni e le nazioni del sud in particolare portarono la questione migratoria all’attenzione di tutti gli Stati membri. Nei primi anni di questo secolo, le nazioni europee hanno firmato il Trattato di Dublino sulla gestione dei migranti: la nazione di arrivo del migrante dovrebbe gestire autonomamente la procedura di accoglienza. Di conseguenza, nazioni vicine ai confini europei sono state valutate con maggiori responsabilità rispetto ad altre. Questo è stato il primo segno di una mancanza di solidarietà tra gli Stati membri.
Dopo la crisi finanziaria e la guerra in Siria e in Libia, la migrazione è diventata una vera e propria crisi per i rifugiati con migliaia di persone che si sono spinte alle frontiere europee. Per aiutare le nazioni più colpite, Bruxelles ha iniziato a pensare a una nuova formulazione del trattato di Dublino, ma le divisioni tra nord e sud hanno reso impossibile la creazione di un nuovo assetto strutturale per ciò che riguarda i migranti. Tuttavia, alcune politiche sono state messe in campo: un controllo di sicurezza comune del Mar Mediterraneo per evitare partenze dall’Africa, una distribuzione volontaria dei migranti tra le nazioni europee da decidere passo dopo passo, il controllo delle frontiere esterne (come quelle tra Grecia e Turchia) per controllare chi sta tentando di attraversare la zona Schengen. Queste decisioni rappresentano certamente dei passi importanti ma sono insufficienti.
Le decisioni unilaterali senza effetti concreti
Di conseguenza, alcune nazioni hanno deciso di agire da sole: l’Ungheria ha costruito un muro al confine con stati extra UE, la Francia sta aumentando i controlli legali ai suoi confini e l’Italia respinge i migranti dalle navi delle ONG e stipula accordi indipendenti con nazioni specifiche, come la Libia, per fermare le partenze. D’altra parte, alcuni anni fa la Germania aveva deciso di accogliere migliaia di stranieri all’interno dei suoi confini in segno di solidarietà. Ma a quanto pare, non esiste una visione comune su come gestire il problema della migrazione. Infine, vale la pena notare che l’UE ha finanziato direttamente Stati stranieri come la Turchia per aiutarli a controllare i flussi migratori, ma con effetti insufficienti.
E gli effetti di questa grande confusione si manifesta nei fatti, come riporta il corriere della sera: “Solo nel Mediterraneo centrale muoiono ogni anno più di 2000 persone nel disperato tentativo di raggiungere le nostre coste. Chi riesce a sbarcare deve attendere tempi lunghissimi per l’esito della richiesta di asilo. Più o meno la metà riceve una risposta positiva, poi inizia il calvario dell’inserimento sociale e lavorativo. L’altra metà viene espulsa per mancanza dei requisiti, ma solo un terzo ritorna a casa. Gli altri finiscono per vagare come irregolari.”
Le nuove proposte europee alla prova del sovranismo di Meloni
Le istituzioni Ue hanno più volte provato a cambiare il Regolamento. Ora è sul tavolo una ambiziosa riforma chiamata «Patto europeo per l’immigrazione». Si prevede, fra l’altro, un meccanismo di solidarietà obbligatoria, con soglie minime di riallocazione dei migranti in base alla popolazione e al Pil di ciascun Paese, nonché il dovere di contribuire in altri modi all’«equa ripartizione» in situazioni di emergenza, come sempre riporta il Corriere della Sera. Il Patto è attualmente bloccato (si vota all’unanimità), principalmente per le resistenze dei Paesi nordici e l’opposizione dei Paesi di Visegrád, Polonia e Ungheria in testa. L’attuale presidenza di turno svedese non considera il Patto una priorità. A Stoccolma c’è un governo di minoranza sostenuto dall’esterno dai Democratici svedesi, un partito di estrema destra ostile all’immigrazione. Una prova eccellente di come il sovranismo funzioni.
È a questo punto che si inserisce il fattore Meloni: cosa farà la presidente italiana espressione più alta del sovranismo della penisola? Difendere ancora una volta il sovranismo e darla quindi vinta a Visegrad con l’effetto di rimanere senza aiuto comunitario o rinnegare ancora una volta il suo populismo di aria fritta e scendere a patti con gli altri stati? Nel frattempo, Meloni dà un colpo alla botte ed uno al cerchio con la Francia sul tema immigrazione forse per tattica, molto più probabilmente per inesperienza istituzionale. Anche lei è rimasta vittima del suo stesso personaggio creato ad arte per fare opposizione, meno funzionale per fare la Statista.
Ad ogni modo, la crisi dei rifugiati mostra la fragilità dell’Unione europea in termini di solidarietà. Se la crisi finanziaria, la pandemia e forse quella Ucraina hanno reso l’UE più unita nel trovare soluzioni efficaci, il tema migratorio resta un tabù a Bruxelles. L’immigrazione è sempre stata una questione di primo piano nella storia dell’umanità: la paura irrazionale che la società venga invasa da estranei ha sempre influenzato il decisore politico. Pertanto, da un punto di vista storico, non sorprende la divergenza di vedute dei paesi europei nella gestione di questo problema; è più scioccante che i governi non capiscano quanta immigrazione continuerà a colpire l’Europa, e che in questa situazione solo agendo in modo coeso l’Europa potrà affrontare la crisi e trovare soluzioni strategiche.
Di Roberto Biondini
Gli extraprofitti delle aziende energetiche: la risposta UE, tedesca e italiana
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In questi ultimi mesi abbiamo sentito parlare spesso degli extraprofitti delle aziende energetiche. Si tratta di tutte quelle entrate aggiuntive che i grandi attori operanti nel settore dell’energia si sono garantiti attraverso il rialzo dei prezzi. Non molti, tuttavia, sanno che l’Unione Europea e i Paesi Membri si stanno adoperando affinché una parte di questi extraprofitti vengano redistribuiti ai cittadini, in particolare alle famiglie e alle imprese che più risentono delle conseguenze della crisi energetica. È una scelta fondamentale per permettere ai Paesi che hanno limiti di spesa più stringenti di aiutare le realtà più colpite. Il punto di riferimento per le politiche dei vari paesi dell’UE in merito agli extraprofitti è il Regolamento del Consiglio Europeo del 6 ottobre 2022. Ne analizziamo qui le principali proposte, prima di passare alle applicazioni concrete che hanno sviluppato l’Italia e la Germania. La speranza è quella di comprendere meglio le implicazioni delle scelte di Bruxelles in materia di extraprofitti.
Che cosa stabilisce il regolamento sugli extra-profitti varato dall’Ue?
Il Regolamento del 6 ottobre 2022 stabilisce la creazione di due meccanismi volti a ricavare risorse economiche che possano tutelare i consumatori finali di energia: in primo luogo un contributo di solidarietà temporaneo per le imprese e le organizzazioni che svolgono attività nei settori del petrolio greggio, del gas naturale, del carbone e della raffineria; poi, un tetto (anche esso temporaneo) ai ricavi straordinari di mercato dei produttori che hanno costi marginali più bassi (per esempio i produttori delle rinnovabili, i cui costi di produzione dell’elettricità corrispondono per lo più ai costi inziali di investimento). Il contributo di solidarietà è una sorta di imposta che in circostanze impreviste e straordinarie permette la generazione di entrate supplementari a favore delle autorità nazionali. Il tetto, invece, rappresenta un limite massimo ai ricavi di mercato dei produttori di energia elettrica. Attualmente è fissato a 180€ per MWh, un livello che secondo le autorità europee è significativamente superiore ai costi di produzione dell’energia (LCOE) e che quindi non mette a rischio la possibilità di recuperare i costi di investimento per i produttori.
Chiariamo subito alcuni aspetti importanti per capire la natura delle decisioni dell’UE. Innanzitutto, in nessuna sezione del Regolamento Europeo citato si fa riferimento alla parola tasse. Si tratta di un elemento chiave, in quanto l’Unione Europea non ha competenza fiscale diretta (per qualsiasi decisione in merito a una tassa europea ci vorrebbe l’unanimità in Consiglio, risultato abbastanza improbabile da raggiungere oggi giorno). C’è poi anche una considerazione più strettamente politica: parlare di tasse è sempre altamente impopolare. L’avversione per misure fiscali dirette potrebbe compromettere la riuscita della misura. Perciò, chiunque si riferisca ai meccanismi sopra descritti come tasse sui ricavi o sulle aziende produttrici di energia, commette un errore (anche se quella è la sostanza).
Va compreso, poi, che trattandosi di un regolamento europeo, la misura del Consiglio rappresenta un atto giuridico direttamente applicabile in tutti gli Stati Membri (deve essere applicato in tutti i suoi elementi nell’Unione Europea). Italia e Germania si sono adoperate per tradurre al più presto le scelte del consiglio europeo in azioni concrete. L’Italia ha elaborato molto sul contributo di solidarietà, introducendolo ancor prima che l’Europa lo indicasse come via necessaria. La Germania, invece, ha sviluppato accuratamente un tetto ai ricavi, con meccanismi volti a preservare gli incentivi economici più importanti. Ecco perché questi due Paesi costituiscono degli esempi molto interessanti.
La risposta di Italia e Germania al tema degli extra-profitti
Il contributo di solidarietà in Italia è stato introdotto dal governo Draghi. Sappiamo tutti quanto l’ex premier si è battuto a livello nazionale ed europeo affinché misure di rilievo fossero attuate per mitigare gli effetti della crisi energetica (il price cap sul gas è sicuramente una vittoria che può ascriversi). Il contributo di solidarietà come inizialmente pensato avrebbe dovuto portare nelle casse dello stato oltre 10 miliardi di euro. Tuttavia, i numerosi ricorsi delle aziende energetiche hanno fatto si che l’Italia riuscisse a ricavarne solamente 1.5 mld di euro. Il contributo temporaneo è stato introdotto col decreto Taglia-prezzi, modificato una prima volta con il decreto Aiuti e di nuovo con la nuova legge di bilancio del governo Meloni. Ma come funziona quindi il contributo di solidarietà italiano?
Le aziende coinvolte devono versarlo soltanto qualora l’incremento di reddito complessivo sia superiore di almeno il 10% rispetto alla media dei redditi complessivi conseguiti nei quattro periodi d’imposta precedenti al 2023. Se l’incremento di reddito supera la soglia indicata, allora il produttore dovrà versare il 50% dell’incremento di reddito complessivo allo Stato (il 25% prima della nuova legge di bilancio, anche se applicato a una platea di attori più ampia). La misura (Contributo Straordinario), secondo le stime del Sole 24 Ore, dovrebbe portare a bilancio circa 2.5 miliardi di euro nel 2023, coinvolgendo circa 7000 imprese.
Attraverso la legge di bilancio approvata il 29 dicembre scorso l’Italia ha ufficialmente avviato l’attuazione anche del tetto ai ricavi. Secondo quanto si può apprendere dal testo pubblicato in gazzetta ufficiale il tetto riguarderà principalmente impianti a fonti rinnovabili non rientranti nel Contributo Straordinario, ma anche impianti alimenti da fonti non rinnovabili come i produttori di elettricità che utilizzano torba, lignite o petrolio greggio. Per l’applicazione del tetto il Gestore dei Servizi Energetici (GSE) calcola la differenza tra il prezzo di riferimento di 180€ per MWh stabilito dall’Unione Europea, e un prezzo di mercato pari alla media mensile del prezzo zonale orario. Se la differenza (180-X) è negativa il produttore deve versare al GSE l’importo corrispondente. Sembra esserci una certa flessibilità rispetto alla tecnologia presa in considerazione (per le fonti con costi di produzione superiore alla soglia di 180 euro, il valore di riferimento viene stabilito secondo criteri specifici dall’ARERA), anche se la Germania a riguardo ha sviluppato un piano molto più dettagliato.
Il governo tedesco, infatti, ha elaborato un sistema per limitare i ricavi estremamente dinamico e flessibile, in cui la soglia dei 180 euro per MWh è quasi assente. Il grafico qui sotto ci aiuta a comprenderne l’intuizione. Il tetto è specifico alla tecnologia considerata (più basso per le rinnovabili dove i costi di produzione sono minori, più alto per petrolio e carbone). Allo stesso tempo si tratta di un tetto mobile, che varia con i prezzi delle commodity. Gli elementi che più caratterizzano la soluzione tedesca sono altri due, tuttavia. Il fatto che soltanto il 90% degli extraprofitti sia soggetto alla misura è fondamentale per coprire i produttori dal rischio legato ai costi aggiuntivi che potrebbero insorgere e all’incertezza connessa alla produzione, ma soprattutto per preservare l’incentivo a produrre quando i prezzi dell’elettricità sono alti e c’è scarsità di offerta (questo incentivo potrebbe essere eliminato dal tetto ai ricavi, che non permetterebbe più di guadagnare di più nei momenti in cui i prezzi sono più alti). Il tetto ai ricavi tedesco, infine, tiene in forte considerazione le strategie di hedging attuate dai produttori. Nel mercato dell’elettricità stipulare contratti per la vendita e trasmissione di elettricità nel futuro è molto comune, in quanto offre delle garanzie sia ai produttori che ai consumatori. Esistono contratti di vendita per elettricità che precedono l’effettiva produzione anche di 2/3 anni. Tenere conto dei prezzi stabiliti in questi contratti, correggendo l’importo che i produttori devono versare, è fondamentale (se i contratti sono stipulati a prezzi più bassi di quelli attuali di mercato bisogna tenerne conto).

Per quanto riguarda il contributo di solidarietà temporaneo la Germania è stata meno creativa, applicando pedissequamente quanto indicato dall’Europa. Le aziende produttrici che abbiano superato almeno del 20% la media dei profitti relativi all’intervallo 2018-2021 dovranno versare il 33% dei profitti per gli anni 2022/3.
Nel cercare di descrivere nella maniera più semplice possibile la logica del Regolamento europeo del 6 ottobre 2022, abbiamo discusso e spiegato le applicazioni dei suoi due meccanismi principali da parte di Italia e Germania. Entrambi i Paesi si sono impegnati nell’attuare le scelte di Bruxelles, fornendo degli spunti di riflessione interessanti. La riuscita di queste misure, da valutare nei prossimi mesi, sarà fondamentale per reperire risorse preziose e alleviare i cittadini e le imprese dai costi delle bollette. L’Unione Europea stima che un indotto da oltre 100 miliardi di euro possa essere reperito se il contributo di solidarietà e il tetto ai ricavi funzioneranno come previsto. Una somma decisamente importante, soprattutto per i Paesi come l’Italia che, altrimenti, incontrerebbero grandi difficoltà nel trovare risorse adeguate ad aiutare i cittadini. Ricordiamo che una buona parte della legge di bilancio è stata dedicata ai rialzi in bolletta. Per quanto ancora il governo potrà destinare risorse per la crisi energetica? Attendiamo con impazienza giugno per una prima valutazione delle politiche dettate da Bruxelles e implementate da Germania e Italia.
di Guglielmo De Puppi
Le crisi che faranno l’Europa
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La Grande Moderazione sperimentata dalle economie occidentali a cavallo fra gli ultimi due secoli, grazie alla globalizzazione, sembrava aver eliminato il rischio di incappare di gravi crisi economiche. E tra i diversi attori coinvolti in questo esperimento mondiale, l’Unione Europea, soprattutto dopo Maastricht, pareva aver raggiunto la stabilità finanziaria e monetaria, nonché una crescita sostenuta. Ma dopo lo scoppio della bolla del mercato immobiliare nel 2008, l’Europa si è ritrovata di colpo in un tunnel senza luce ed esposta nuovamente alla fragilità economica, da cui ancora oggi sta cercando di uscire a suon di interventi degli istituti centrali e di politiche di bilancio pubblico più assennate. Eppure, se da un lato il susseguirsi ravvicinato di eventi destabilizzanti (crisi finanziaria, del debito sovrano, pandemia e guerra in Ucraina) ha portato alla luce l’incompletezza del progetto di federazione Europea, dovuto soprattutto ad una mancanza di coordinamento fiscale, finanziario e bancario, dall’altro lato, è pur vero che in questo lasso di tempo sono stati fatti importanti passi avanti verso un’azione comune davvero europea. Come si usa dire, non tutto il male viene per nuocere, tant’è che dal risveglio del torpore della Grande Moderazione le istituzioni europee hanno poi attuato diverse riforme strutturali. Oggi soffocate dalla miopia dei veti nazionali, dagli effetti collaterali di alcune scelte di carattere monetario e fiscale e da potenziali shock esogeni alla UE stessa.
La risposta dell’Ue e degli Stati di fronte alle insidie del mondo globalizzato
L’intreccio finanziario provocato dalla globalizzazione, ad esempio, aveva reso sensibile anche il Vecchio Continente alla crisi finanziaria americana dei mutui sub-prime. Crisi da cui gli Stati Uniti, grazie ad un’azione coesa della FED e del governo federale, uscirono con un risanamento delle banche private (si ricordi l’utilizzo del TARP come strumento), mentre in Europa la mancanza di un coordinamento politico sovranazionale in materia bancaria e finanziaria rese irrinunciabili le azioni dei singoli Stati come garanti ultimi del sistema bancario nazionale. Con l’effetto collaterale del gonfiarsi dei debiti sovrani di alcune nazioni, come la Grecia, più esposte alla crisi e più fragili fiscalmente, con l’esito finale di spaccare in due il continente, palesando i gravi squilibri nella produttività, nella bilancia dei pagamenti e nel bilancio pubblico in cui vessava parte della UE. Riconoscendosi diversi gli Stati europei hanno preferito salvare sé stessi invece di guardare al progetto di coesione che li univa e tuttora unisce.
Al contrario, la reazione politica delle istituzioni europee e degli stati membri è stata di seguito efficace per uscire dalla crisi del debito sovrano del biennio 2010-2011.
Dal punto di vista della politica monetaria, la BCE, sulla scia di quello che era già avvenuto negli USA, ha portato avanti il programma di acquisto di titoli (APP) all’interno del sistema finanziario per riportare l’inflazione al livello prossimo del 2% e immettere al contempo liquidità nel mercato, così da dare una spinta all’economia reale. Ed in modo ancora più incisivo, nel 2012, la creazione dell’OMT ha reso ancora più chiaro al mercato l’indirizzo di Francoforte, proteso verso la stabilizzazione della moneta unica, per evitare il rischio di ridenominazione del debito. Il sistema creato (e mai alla fine messo in pratica) mirava all’acquisto di debito sovrano e alla stabilizzazione delle economie del mercato unito allorquando l’instabilità macroeconomica non fosse dipesa da carenze particolari delle nazioni coinvolte che ne richiedevano l’utilizzo, ma piuttosto da speculazioni finanziarie che la BCE ritenesse ingiustificate. È fondamentale sottolineare che l’OMT sarebbe stato applicato solo in caso di una concomitante attivazione del MES da parte dello Stato richiedente e l’introduzione di un programma di riforme concordate con Bruxelles. Il gioco era chiaro: soldi garantiti dall’Ue in cambio di riforme precise e interventi nella gestione del bilancio pubblico dello Stato che si fosse avvalso di questi fondi.
Politiche monetarie convenzionali e non: quando e perché sono state adottate?
Successivamente, a seguito dello scoppio della pandemia, l’azione monetaria espansiva della Banca Centrale si è rafforzata con il programma PEPP, anch’esso con l’obiettivo di impedire una paralisi creditizia nell’eurozona e una conseguente crisi di liquidità degli attori in gioco posta in essere della brusca frenata dell’economia reale. Il blocco fisico imposto dagli Stati con i lockdown ha di fatto messo in crisi alcuni settori, tra cui in particolare quello dei servizi. Si era quindi reso necessario un intervento monetario espansivo accompagnato da politiche fiscali anticicliche di aumento del disavanzo, come anche segnalato dall’ex Presidente Mario Draghi. Ma l’utilizzo delle descritte politiche monetarie non convenzionali, per distinguerle da quelle convenzionali che riguardano invece la fissazione dei tassi d’interesse che erano però già state utilizzate oltre i limiti canonici, ha sicuramente contribuito all’uscita dalla crisi ma è stata a sua volta causa dell’ingrossamento degli attivi della BCE. Finché l’inflazione era rimasta bassa (quindi per tutto il periodo pre-Covid e lockdown annessi), ciò non era stato un problema strutturale, ma con la poderosa ripresa post-pandemica, frutto sia per una grande risalita della domanda in proporzione all’offerta presente, sia per un irrigidimento dell’offerta (i famosi colli di bottiglia), in particolare delle materie prime, intensificatasi poi con lo scoppio della guerra in Ucraina, ha reso necessario il processo inverso: politica monetaria restrittiva e di conseguenza la vendita dei titoli in “pancia” alla BCE.
È come se la BCE avesse fatto da elastico, allungandosi a sostegno dell’economia quando questa era in crisi, ovvero dopo la debacle del debito sovrano (2011) e post, per poi restringersi col surriscaldarsi dell’economia reale, quindi nell’era post-Covid.
Se da un lato, Francoforte non ha avuto difficoltà nell’attuare questa procedura, più complesso sarà capire ora se gli Stati con squilibri dei conti pubblici più marcati soffriranno di questo irrigidimento delle condizioni monetarie (l’accorciarsi dell’elastico) per quanto concerne la produzione economica e la vendita del proprio debito pubblico. Infine, è lecito domandarsi quanto l’iniezione di liquidità senza precedenti da parte delle Banche Centrali, nel periodo dal 2011 al 2019, abbia creato bolle speculative sulla falsa riga di quanto era successo con il mercato immobiliare (a cavallo tra il 2007-2008). Rispetto al tempo in esame, però, nuove regolamentazioni internazionali sono state inserite (Basilea 3 e Basilea 4) e per quanto concerne la UE, il prossimo paragrafo prende in esame le riforma apportate nel mercato unico.
Le regolamentazioni interazionali adottate dall’Ue per proteggere la sua comunità di Stati
Sempre sul lato finanziario, la crisi finanziaria e del debito sovrano hanno spinto le istituzioni europee a ristrutturare il sistema bancario in chiave unitaria attraverso la riforma dell’Unione Bancaria, basata su tre pilastri fondamentali: regole comuni per tutti le banche degli stati membri, vigilanza centralizzata nelle mani della BCE e azione uniforme nella gestione delle crisi bancarie. Se i primi due strumenti sono chiari nella loro struttura, più discrezionale e ad oggi meno convincente è come l’istituzione competente in materia di gestione della crisi bancaria (Single Sesolution Board) agisca: nonostante l’indipendenza strutturale dalla BCE, il board è comunque influenzato dalla sua vigilanza e l’utilizzo dell’innovativo procedimento del salvataggio interno (Bail-in) piuttosto che da quello esterno (Bail-Out) delle banche non trova ancora un’applicazione sistematica. Infine, all’Unione Bancaria Europea (UBE) manca ancora un quarto pilastro, quello relativo alla nascita di uno schema di assicurazione comune dei depositi bancari. Oggi ogni nazione procede singolarmente, e va da sé che non vi sia quindi equilibrio di rischio tra le nazioni della zona euro. Le banche detengono titoli di Stato in pancia in modo discrezionale e da qui nasce un evidente sbilanciamento. In teoria, i titoli di debito pubblico non vengono considerati rischiosi, non servono quindi accantonamenti specifici in contropartita. Ma la storia della crisi del debito sovrano ci ha insegnato che alcuni titoli, come fu per Grecia, Portogallo e Italia, possano, soprattutto in specifici periodi storici caratterizzati da instabilità, essere più rischiosi di altri. Ed ecco spiegato il fenomeno del circolo vizioso della crisi bancaria e quella del debito sovrano dello Stato che entra come garante: un doom-loop che si ripresenta troppo spesso. Se si vuole creare un sistema di assicurazione comune, bisogna innanzitutto imporre un limite alle banche private nell’acquisto dei titoli di debito del Paese della banca stessa.
Che cosa non ha funzionato nei meccanismi europei? Il fattore nazionale.
Dal punto di vista della politica fiscale la nascita dell’euro aveva portato con sé l’applicazione del cosiddetto Patto di Stabilità, attraverso il quale gli Stati membri avrebbero dovuto raggiungere nel lungo periodo obiettivi macroeconomici specifici, volti verso una convergenza economica efficace e uno stimolo per le riforme. La realtà recente ha però dimostrato come questa fosse perlopiù un’utopia, insufficientemente perseguita da parte della comunità europea e come i meccanismi stessi di rispetto delle regole (valutate in seguito non efficaci) fossero deboli. Difatti si è arrivati a delle riforme del Patto di Stabilità nel corso del tempo (two packs and six packs) che hanno portato in particolare alla creazione del semestre europeo. In aggiunta, è da sottolineare il passaggio dall’attuazione nella zona euro di manovre pro-cicliche a manovre anti-cicliche, a seguito della crisi finanziaria e l’utilizzo dell’indice del differenziale tra il PIL effettivo e il PIL potenziale, al fine di valutare le politiche fiscali degli stati membri, anche se poi di difficile applicazione pratica. In più, l’analisi delle condizioni macro di un Paese si sono estese alla verifica di alcune caratteristiche dell’economia in essere (disoccupazione, debito privato, bilancia dei pagamenti correnti). Ad ogni modo, la pandemia ha reso necessaria la sospensione del Patto di Stabilità e una riforma dello stesso dovrebbe essere in via di stesura a Bruxelles. Sempre la pandemia ha fatto da fattore catalizzatore per la creazione di un vero e proprio debito comunitario nella zona euro, come mai era successo nella Storia dell’unione. L’approvazione del Next Generation EU è stato come un lampo di luce accecante in una notte senza Luna prima della pandemia e sicuramente determinante per un passaggio in avanti per il progetto di federazione europea che era già unita, come visto, nella politica monetaria ma non in quella fiscale. Soprattutto gli Stati che avrebbero avuto difficoltà nell’ottenere nuovo debito sul mercato per concedere liquidità alle proprie economie durante la crisi pandemica (in cui spicca l’Italia) hanno beneficiato di debito a tassi d’interesse più bassi e di finanziamenti a fondo perduto. Si è chiaramente interposto l’obbligo di utilizzo delle risorse per riforme precise e per investimenti sulla produttività, con una vigilanza periodica delle istituzioni europee (il famoso PNRR).
Il futuro dell’Ue dipenderà dalla capacità di comprendere gli errori del passato.
Difatti, le diverse crisi che si sono susseguite a partire dal 2008 hanno portato l’Unione Europea a innovare le sue politiche monetarie e a procedere verso sia un’Unione Fiscale, sia verso un’Unione Bancaria. Il documento come evidenziato sin qui ha però messo in mostra alcuni aspetti ancora critici dell’area Euro che in assenza di un continuo processo di convergenza di politica comune, potrebbe facilitare l’emergere di nuovi squilibri tra gli Stati, considerando anche il verificarsi di shock esogeni sempre pronti a nascere, come la guerra in Ucraina. L’effetto politico di tale fragilità comunitaria riguarda l’insorgere di nuovi moti sovranisti che già hanno colpito duramente l’azione della UE nel decennio appena trascorso. Il bivio adesso è definito, o l’Ue e gli Stati membri imparano la lezione appresa in questi ultimi anni, oppure sono entrambi destinati ad essere fagocitati dai propri punti deboli e da attori geopolitici di stazza ben maggiore.
Roberto Biondini e Claudio Dolci
LEGGE DI BILANCIO 2023
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Il 29 di dicembre scorso si è concluso il tira e molla sulla legge di bilancio 2023 e con esso è svanito anche lo spettro dell’esercizio provvisorio, l’incubo numero uno di Giorgetti & Co., ma il tributo pagato per questo miracolo di Natale è stato salato. Giorgia Meloni, infatti, è scesa a compromessi con tutti i suoi più acerrimi nemici, dai percettori del RdC ai burocrati di Bruxelles, passando per la Ragioneria di Stato e le forze della sua stessa maggioranza. Ma la sfida delle sfide, e con essa la sconfitta più cocente, Meloni l’ha inflitta a sé stessa, barattando l’anima populista per quella governista: un bagno di realtà che ha dilavato all’istante tutti gli ideali, le utopie e le narrazioni che nel tempo hanno reso FdI quello che è oggi.
Lo scontro con Bruxelles e le Istituzioni italiane
Il primo scontro è arrivato con le istituzioni dell’Ue, le quali hanno sì accolto la prima delle molte bozze sulla Legge di Bilancio con benaugurante “in line”, ma riferito alle raccomandazioni di luglio e non a tutti i contenuti. La misura per i Pos, ad esempio, come quella sul tetto al contante, sono state criticate e con esse il condono sulle cartelle esattoriali e la riforma sulle pensioni (di cui si parlerà dopo). Da qui a sostenere, come ha fatto Meloni, che la Legge di Bilancio italiana sia stata tra le migliori d’Europa ce ne passa, più o meno come tra dire di fare il ponte sullo stretto di Messina. Forse la traduzione dall’inglese all’italiano può aver aiutato qualche portavoce di governo, ma i rilievi critici sulle misure delle bozze sono stati numerosi e bipartisan, visto che sono stati mossi persino dalle istituzioni italiane. La Banca d’Italia ha ricordato perché innalzare il tetto al contante aiuti l’evasione, mentre la Ragioneria dello Stato ha bocciato ben 44 emendamenti perché privi di coperture o contradditori. A forza di tagli cuci è stato addirittura necessario riportare la Legge di Bilancio in Commissione, il tutto dopo le nottate insonni di vari gruppi parlamentari, perché c’era un buco da 450 milioni di euro su di un emendamento. Morale della favola, alla fine il governo ha ceduto sotto i colpi delle regole rinunciando alla misura anti-Pos e dovendo porre rimedio là dove indicato.
Una figuraccia dietro l’altra che Meloni ha provato coprire con la conquista del price cap europeo sul gas, una battaglia combattuta da Draghi e giunta a fine stagione con un accordo a ribasso, dopo incertezze e litigi che il neo-esecutivo ha solo sfiorato, ma mai toccato con mano perché impegnato a interpretare un ruolo più che marginale, inesistente. Tutto normale? Forse sì. Salvatore Currei, sul Riformista, ricorda come l’iter della Legge di Bilancio sia ormai ostaggio di questi mille passaggi tra istituzioni nazionali ed europee, che finiscono per ingabbiare ogni esecutivo con una camicia di forza; per giunta quest’anno c’era anche da affrontare il tema energetico, che da solo ha assorbito 21 dei 35 miliardi messi in campo da Meloni. Su una tematica, però, si sarebbe potuto agire diversamente. Come riportano Ainis e Cassese, rispettivamente su Repubblica e sul Corriere, il bavaglio al Parlamento si doveva evitare. Dopo tutto che senso ha avere due camere ed eleggere dei parlamentari se tanto poi decide solo l’esecutivo? Chi si ricorda la Meloni barricadera all’opposizione sa che questo fu un suo cavallo di battaglia, eppure alla fine anche lei ha posto la fiducia sulla Legge di Bilancio, confermando la prassi, istituzionalmente sgrammaticata, del monocameralismo di fatto. E così il Parlamento è stato relegato al ruolo di passacarte e poco più, a nulla sono valsi i discorsi che FdI ha fatto negli ultimi 10 anni contro chi ha zittito i rappresentati del popolo: le lancette battono le idee.
L’abolizione del Reddito di Cittadinanza (RdC)?
Sin dal suo esordio il RdC è stato presentato per quello che non è. La povertà, infatti, c’è ancora e legare i sussidi per chi vive in condizioni di povertà alla ricerca del lavoro è stato un errore. I 5Stelle hanno venduto ai più una narrazione che non esiste, ma almeno erano riusciti a dare un po’ di sollievo agli sconfitti della società d’oggi. Meloni, invece, aveva annunciato in pompa magna di voler togliere il sussidio pentastellato sin da subito, salvo poi ripiegare su una strategia da compiersi in due anni e senza prevedere validi sostituti per aiutare chi ha poco o nulla. Dal 2023, come riportato dal sito Pagella Politica, “percettori del reddito di cittadinanza che hanno tra i 18 e i 59 anni di età e che all’interno del loro nucleo familiare non hanno minorenni, disabili e persone con più di 60 anni di età, potranno ricevere il sussidio al massimo per sette mesi.” Si tratta di circa 404.000 persone, con un risparmio per le casse dello Stato di 743 milioni di euro (il salvataggio del mondo del calcio è costato ben di più, 889mln di Euro).
L’obiettivo di questa misura è quello di impiegare la quota di percettori del RdC (gli occupabili), coloro che, per il governo, trascorrono le giornate sul divano. Da oggi, chi non accetterà la prima proposta di lavoro perderà il sussidio, mentre prima del governo Meloni queste offerte dovevano essere due e pure essere congrue. Un termine quest’ultimo su cui c’è stato molto dibattito, visto che un percettore che deve percorrere qualche centinaio di km per recarsi a lavoro, e magari è pure sprovvisto di un’auto, deve affrontare un problema oggettivo. Passato il polverone della bagarre tra FdI e opposizioni, un dossier Parlamentare suggerisce come la congruità dell’offerta rimanga un requisito tuttora valido, anche se non si capisce se per volontà dell’esecutivo o per la fretta che ha impedito di risalire all’articolo che ne garantiva l’efficacia. Nel 2024, invece, il RdC verrà abolito (sarò così?) e i suoi miliardi, 8,7 all’anno, verranno spostati altrove, in un fondo povertà e sostegno all’inclusione. Sin dal suo esordio, col governo Conte, il RdC ha ricevuto critiche (spesso legittime) ed ha fornito il carburante per la propaganda di tutti i partiti politici. Tuttavia, è difficile pensare che il governo Meloni, posto nel guado dell’inflazione a doppia cifra e della ventura recessione, possa abolire tout court questo sussidio, tant’è che l’attuale Legge di Bilancio colpisce solo una piccola parte dell’importo e dei percettori. Ed è probabile che alla fine gli si cambierà solo il nome e il funzionamento (sperando in qualcosa di più funzionale) del RdC, ma non la sostanza, anche perché i poveri esistono e votano.
La Flat Tax: chi ci perde e chi ci guadagna?
Tutti ormai sappiamo qual è il cavallo di battaglia della destra: tassa piatta per i lavoratori. In campagna elettorale eravamo rimasti ascoltatori di una corsa al ribasso dell’imposta sui redditi: dal 21% di Forza Italia, al 15% della Lega, forse per tutti, molto più probabilmente solo per gli autonomi in maniera più vigorosa. Addirittura, arrivando ad una strana proposta della tassa piatta incrementale (in italiani rimane un ossimoro) per i dipendenti. Cosa rimane di tutto questo? La flat tax per i dipendenti è scomparsa, ma per gli autonomi forfettari la base imponibile richiesta per calcolarla è aumentata fino ai redditi di 85 mila euro. Una vittoria per il centrodestra, ma che contribuisce ad alimentare numerose polemiche. Per i dipendenti si è infatti ridotto il cuneo fiscale di circa l’1%, mentre per gli autonomi lo si è ridotto in maniera più sostanziale. Oggi, a conti fatti, un autonomo forfettario con un reddito di 85 mila euro pagherà circa 10mila euro di imposte, mentre un dipendente, senza detrazioni, potrebbe arrivare quasi a 30mila! Ma a differenza di quanto si possa pensare, le critiche a questa mossa non provengono solamente dalle categorie che rappresentano i lavoratori dipendenti, ma anche quelle che rappresentano gli autonomi. Così afferma Anna Soru, la presidente di Acta che rappresenta piccole partite Iva, collaboratori, freelance, occasionali: “«La tassa piatta non ci riguarda perché non ci favorisce, anzi il confronto ora è due volte perdente: con il lavoratore dipendente, beneficiato da una no tax area più alta a 8 mila euro contro i 5.500 euro, dall’ex bonus Renzi di 80 euro e ora pure dal taglio del cuneo fiscale. Ma perdente anche rispetto ai lavoratori autonomi con reddito alto che godono della flat tax al 15% ampliata da 65 a 85 mila euro e della flat tax incrementale. A questi livelli bassi di reddito la tassa piatta al 15% non conviene a un freelance perché si perdono tutte le detrazioni e deduzioni, come le spese per mutui, sanità, bonus edilizi». Fatturati più robusti, fino a 85 mila euro, riescono invece a trarre maggiore beneficio dal 15% secco”
Insomma, gli autonomi che beneficiano di questa riforma sono coloro che appartengono alla classe media, quella che già si sostentava da sé (e che ha patito di meno l’inflazione e del caro energia), non quella più vulnerabile e a rischio. Sul tema della flat tax s’inserisce inoltre tutto il discorso dell’evasione legata alla dichiarazione dei redditi. Così il professor Carlo Cottarelli che sul tema ha espresso più di una perplessità: “Il rapporto che questo governo ci ha inviato è molto interessante anche per quello che ci dice sulla distribuzione dell’evasione. È quasi inesistente, sotto il 3%, per i lavoratori dipendenti. È invece elevatissima, oltre il 60 per cento, sull’IRPEF dei lavoratori autonomi e reddito d’impresa”. Lo stesso Luigi Marattin era entrato nel vivo della trattativa politica per trovare una soluzione per l’emersione del nero dovuto allo scatto da tassa piatta a IRPEF una volta superata la soglia di allora (65mila euro). L’idea era quella di creare un cuscinetto per coloro che nell’arco dell’anno avessero superato la soglia: una flat tax leggermente più alta per evitare il nero. Una proposta caduta però nel vuoto.
Per concludere, la flat tax rimane una manovra iniqua, a prescindere che siano autonomi o dipendenti a subirla. Ma, nonostante ciò, l’esecutivo ha tirato dritto.
Le pensioni e la tenuta dei conti dello Stato
“La manovra prevede una rivalutazione al 120% delle pensioni minime e alza l’assegno minimo 600 euro per gli over 75 nel 2023. Misure che avranno un costo di circa 5,4 miliardi l’anno. Se a questo aggiungiamo i 2,4 miliardi di entrate in meno dovute agli sgravi a 8 mila euro per le assunzioni di under 35, arriviamo a un buco di 7,8 miliardi per le casse dell’Inps.” Così riporta il Corriere della Sera.
Anche sul tema delle pensioni, si sa come il centrodestra abbia sempre difeso una cancellazione della legge Fornero, un pensionamento anticipato (vedi quota 100) e una rivalutazione delle pensioni fino addirittura a 1.000 euro (vedi Forza Italia). Ma aumentare le minime a 1.000 euro significa creare un deficit di oltre 100 miliardi per le casse dell’Inps, nel giro di soli tre anni, e distruggere la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico. Qui l’economia confligge con la giustizia sociale e le possibilità economiche del nostro Paese. Infatti, dare sostentamento alle classi meno agiate è un dovere, soprattutto in tempo di crisi, ma farlo mettendo a carico delle prossime generazioni le spese che ciò comporta è un atto immorale e ingiusto. E d’altra parte non era anche il RDC una misura per frenare la povertà? Forse bisognerebbe capire prima dove trovare i soldi per finanziare queste misure. Rimane l’opzione donna, con qualche tecnicismo sui figli a carico ma di una vera cancellazione di quota 100 ancora non se ne vede l’ombra, anche perché significherebbe quasi sicuramente default. “Il numero delle prestazioni sociali erogate ogni anno è in continuo aumento. L’eccesso di assistenzialità, a cui si sono dedicati tutti i governi negli ultimi 22 anni, ha fatto sì che le pensioni totalmente o parzialmente assistite siano ormai oltre il 45% del totale” dice ancora il Corriere della Sera, e su questo tema bisogna riflettere: quanto potrà resistere il nostro sistema pensionistico in un Paese dove chi cerca lavoro non lo trova e chi cerca lavoratori neppure?
L’analisi della legge di bilancio 2022 potrebbe continuare ancora e nelle prossime settimane ne discuteremo con ulteriori approfondimenti. Quello però emerge sin qui è che il sistema della Repubblica Parlamentare italiana ormai pare non funzionare più. Non si può continuare ad approvare leggi così importanti, come quella di Bilancio, con un sistema che presenta questo grado di disfunzionalità e caos. Urge una riforma, ma non appena la si nomina il Gattopardo ci avverte delle controindicazioni: tutto deve cambiare affinché tutto rimanga così. Che fare allora? Forse meglio festeggiare l’anno nuovo e ripensarci dopo le feste, sperando che l’ottimismo per un nuovo inizio prevalga sulla cruda realtà dell’anno appena passato.
9 miliardi e 846 milioni di euro |
È il costo delle misure per ripagare, attraverso i crediti di imposta, una parte della spesa sostenuta dalle imprese per acquistare energia elettrica e gas. |
2 miliardi e 515 milioni di euro |
È il costo per i primi tre mesi del 2023 del rafforzamento del “bonus sociale”, che aiuta a ridurre la spesa sostenuta dalle famiglie in disagio economico per gas ed elettricità. |
Un miliardo e 75 milioni di euro |
È il costo, previsto tra il 2023 e il 2025 in termini di minori entrate per lo Stato, dell’estensione del regime forfetario al 15 per cento (quello che la Lega chiama erroneamente “flat tax”) per le partite Iva con ricavi fino a 85 mila euro. |
810 milioni di euro |
È il costo stimato per il 2024 della cosiddetta “flat tax incrementale”. Le partite Iva che nel 2023 hanno registrato un aumento di reddito rispetto ai tre anni precedenti vedranno tassarsi questo aumento con un’imposta fissa del 15 per cento. |
215 milioni di euro |
È il costo annuo della riduzione dell’Iva al 5 per cento sui prodotti dell’infanzia e per quelli dell’igiene intima femminile. Più nel dettaglio, la prima misura costa ogni anno 178,2 milioni di euro, la seconda 36,9 milioni. |
Un miliardo e 585 milioni di euro |
È il costo, stimato in minori entrate tra il 2023 e il 2030, di una delle misure della cosiddetta “tregua fiscale”, il condono con cui il governo ha deciso di fare uno sconto sulle sanzioni a chi ha debiti con il fisco. |
889 milioni di euro |
È il costo, in termini di versamenti sospesi, dell’emendamento “Salva sport”, ribattezzato anche “Salva calcio” perché permette alle federazioni e alle società sportive, in particolari a quelle calcistiche professionistiche, di riprendere a pagare le imposte, sospese con la pandemia di Covid-19, in 60 rate, più una maggiorazione del 3 per cento. Lo Stato conta dunque di recuperare tutti i versamenti sospesi entro il 2027. |
5 miliardi di euro |
È il costo per il 2023 del taglio del cuneo fiscale, ossia della differenza tra il lordo e il netto in busta paga. Il governo Meloni ha deciso di confermare il taglio del 2 per cento introdotto temporaneamente dal governo Draghi per i redditi fino a 35 mila euro e ha alzato al 3 per cento il taglio per chi guadagna fino a 25 mila euro l’anno. |
2 miliardi e 158 milioni di euro |
È il costo stimato, tra gli anni 2023 e 2025, della cosiddetta “quota 103”, che permetterà, con una serie di vincoli, di andare in pensione anticipata a chi ha almeno 62 anni di età e 41 anni di contributi versati. |
859 milioni di euro |
È il costo stimato dell’aumento delle pensioni minime, nel 2023 e nel 2024, da circa 525 euro a circa 564 euro. Il governo ha deciso di aumentare per le pensioni minime l’adeguamento previsto per la crescita dell’inflazione, che coinvolgerà con percentuali diverse tutte le pensioni. In più, nel 2023 le pensioni minime per le persone con più di 75 anni di età saranno portate a 600 euro. |
Che ne sarà della globalizzazione?
3 min di lettura
Per più di trent’anni la globalizzazione ha regolato le relazioni internazionali e riorganizzato le produzioni nazionali di quasi tutti i Paesi del mondo. L’imperativo era delocalizzare, stringere legami con chi aveva i mezzi e le risorse a più buon mercato, così da imporre col commercio ciò che la diplomazia delle idee aveva invano tentato senza mai riuscire ad ottenere, ovvero una pace perpetua. Un obiettivo ambizioso promosso dall’egemone per eccellenza, che però si è infranto ben prima dello scoppio della pandemia e della successiva guerra in Ucraina. Già da tempo, infatti, la bilancia commerciale degli Stati Uniti mostrava i segni di cedimento nei confronti della Cina. Nel 1985 il disavanzo prodotto dal commercio tra questi due Paesi aveva un saldo negativo (per gli USA) di -6 milioni di dollari, mentre nel 2022 ha raggiunto la cifra monstre di -338.103,7 milioni di dollari. A fronte di una maggiore varietà di merci a buon mercato, gli statunitensi hanno quindi importato ben di più di quanto esportato verso le terre del Dragone. Un bene, un male? Più che altro un segno del cambio dei rapporti di forza tra i due Paesi che si è ripetuto un po’ in tutto il mondo. In Ue, ad esempio, la Germania ha fatto del surplus commerciale la fonte della propria ricchezza e della globalizzazione la propria dottrina di vita, realizzando così guadagni sempre crescenti sino alla pandemia. L’Italia, invece, da Paese esportatore quale è, ha sì beneficiato del commercio globale, ma ha anche subito tutti gli shock economici da esso prodotti negli ultimi trent’anni (soprattutto a causa dell’elevato debito), finendo per muoversi come si farebbe sulle montagne russe.
Di fatto i vinti e i vincitori dello scacchiere commerciale mondiale si sono ritrovati sempre più vicini tra di loro proprio grazie alla globalizzazione, al concetto di società aperta a tutto e tutti, dove l’origine di un prodotto conta poco o nulla rispetto al profitto che esso genera. Se il gas costa meno in Russia, allora va bene a prescindere da ciò che accade in Georgia o in Cecenia. Se la Cina diventa la fabbrica del mondo non importa cosa fa degli Uiguri o delle altre minoranze etniche presenti nel proprio territorio. Se il Brasile disbosca quello che era il polmone del mondo per produrre più manzo ed estrarre le terre rare di cui necessita il comparto tecnologico, chi siamo noi per impedirlo? Questo ragionamento, esteso a tutto il mondo, ha dato l’illusione che si potesse crescere senza conflitti, senza ristabilire un minimo di comun denominatore nei rapporti internazionali capace di superare il profitto. E l’aspetto più singolare è che questo sistema è stato accettato ugualmente da vinti e vincitori, almeno sino a quando non si sono visti i limiti (per altro già evidenti) di un interscambio senza se e senza ma.
D’altronde, se appalti il 5G a un Paese che usa le telecamere e la rete informatica per spiare i propri concittadini (come avviene in Cina) corri un rischio. Se acquisti i chip che ti servono per far funzionare praticamente tutto da un’isola sui cui cieli volano caccia cinesi pronti a lanciare bombe, corri un rischio. Se costruisci i gasdotti con un Paese che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi ha eretto muri, finanziato i tuoi nemici e soppresso le opposizioni interne, corri un rischio. Eppure nulla di tutto ciò ha mai leso o rallentato la globalizzazione e i suoi entusiasti promotori. È dovuto succedere l’impensabile prima che l’Occidente prendesse coscienza del ginepraio che aveva costruito e in cui si era crogiolato per oltre un tentennio.
Il primo ad avvistare la mucca nel corridoio è stato un populista: Donald Trump. Il quale, all’inizio del suo mandato, ha dato via una guerra commerciale con la Cina per ristabilire l’equilibrio in una bilancia commerciale trasformatasi da tempo in un piano inclinato (strategia continuata dallo stesso Biden). Poi è sopraggiunta la pandemia e il mondo si è ritrovato privo di farmaci (poiché prodotti perlopiù in India) e senza dispositivi sanitari di protezione (perché fabbricati in Cina, anch’essa alle prese con la pandemia). Infine è scoppiata la guerra in casa dell’Ue, che fino a quel momento aveva ignorato i disordini nel resto del mondo, pur vedendone gli effetti ben esemplificati dai flussi migratori che da tempo spingono sempre più persone a lasciare casa propria per l’ignoto. L’aspetto più grottesco dell’intera gestione della globalizzazione senza invito è che se non fosse stato per la guerra in Ucraina probabilmente nulla sarebbe cambiato e che, nonostante l’invasione di un Paese ai confini dell’Ue, si continuino a cercare soluzioni che modifichino poco o per nulla lo status quo pre-disordini. Di fronte a un problema si è scelta la soluzione meno rischiosa e per questo più semplice.
Della guerra sotterranea giocata dai servizi segreti, dal soft power di Paesi illiberali capaci di colpire il Regno Unito con la Brexit, gli Stati Uniti con le mail di Hillary Clinton e persino l’Ue (come ha dichiarato Metsola sul Qatargate), non ci si preoccupa. Fa parte del gioco, eppure chi sta perdendo sono proprio le democrazie. Schiacciate internamente dalla fragilità della propria storia e dalla tensioni di un presente che porta con sé un conto troppo salato per essere saldato a cuor leggero.
In quest’ottica il 2022 ha rappresentato allo stesso tempo un bivio e la conclusione di un ciclo economico ben esemplificato dal rialzo dei tassi d’interesse e dalla corsa dell’inflazione. Da una parte si deve scegliere se ritornare al tavolo della diplomazia, consapevoli che ciò può condurre a periodi di tensione e divisione del mondo in blocchi, oppure riorganizzarsi e tentare di vincere un gioco che negli ultimi trent’anni ha però avvantaggiato maggiormente le autocrazie. Il tutto in un contesto economico che vede all’orizzonte una recessione e la fine della globalizzazione senza dazi, senza diritti e per questo senza invito.
di Claudio Dolci
Le sanzioni sul petrolio servono davvero?
5 min di lettura
La sfida tra democrazie ed autocrazie si gioca soprattutto sul terreno delle sanzioni commerciali, là dove l’Ue paga anni di delocalizzazione e l’assenza di una vera e propria strategia per l’autonomia energetica, come dimostra la sfida posta dall’embargo e dal price cap sul petrolio degli Urali. A distanza di una settimana dalla loro introduzione, entrambe le sanzioni energetiche contro la Russia (sia il blocco, sia il tetto al prezzo del greggio russo) si scontrano infatti con la realtà della burocrazia, le regole del mercato e l’imperativo di non restare a secco di carburante durante l’interno, proprio quando la domanda è più alta. Sorge così un interrogativo: qual è l’efficacia delle sanzioni contro il greggio russo e il loro tallone d’Achille?
Che cosa hanno deciso le democrazie occidentali?
Il 5 dicembre scorso i Paesi del G7 e l’Ue hanno posto sia l’embargo sul petrolio russo, sia un price cap sul prezzo al quale quest’ultimo può essere commercializzato verso altri Stati. Con l’embargo si impedisce alle navi russe di portare il loro carico di petrolio in Europa e nelle principali democrazie occidentali e successivamente si prevede di arrestare anche l’oleodotto Druzhba che ad oggi rifornisce l’Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. Una mossa che nei fatti imporrà una riorganizzazione delle diverse supply chain che smistano l’oro nero, il quale, se di origine russa, dovrà dirigersi altrove per poi magari essere raffinato, rimpacchettato con nuovo foglio di via per poi riapprodare proprio in quei Paesi che hanno posto l’embargo. In alternativa, la Russia dovrà occuparsi lei stessa della raffinazione e poi esportate il greggio così lavorato, una strategia che però ha i mesi contati, visto che dal 5 febbraio 2023 anche benzina e diesel russi saranno soggetti ad embargo.
Insieme a questa misura le democrazie occidentali hanno deciso di imporre un price cap, con tutte le eccezioni del caso dato che nessuno può impedire a un Paese terzo, come può essere il Brasile, l’India o la Cina, di acquistare petrolio russo. Pertanto la misura può essere così tradotta: se la Russia vuole commerciare il proprio petrolio sopra i 60$ al barile, questa è la soglia limite stabilita dall’accordo, le navi atte al suo trasporto non saranno assicurate dalle principali compagnie che ne tutelano il transito. Un po’ com’era stato anche con lo Swift utilizzato per bloccare le banche russe, anche in questo caso si è scelto di sfruttare a proprio vantaggio la forza dominante che le compagnie assicurative occidentali esercitano sul mercato del trasporto delle merci via mare. Ben il 90/95%% dei servizi assicurativi per questo genere di trasporti è infatti in mano ai Paesi del G7.
L’idea di quest’ultimi, e con essi dell’Ue, è quella di limitare gli introiti delle esportazione di materie prime russe che possono essere facilmente sostituibili con quelle di altri Paesi, ma in questo piano d’azione ci sono almeno tre falle che meritano attenzione.
I limiti dell’embargo e del price cap al petrolio russo.
La prima è che il mercato globale, per sua stessa natura, limita l’efficacia delle sanzioni, soprattutto quando esse investono materie prime importanti ed i Paesi che ne esportano in maggiori quantità. La Russia, infatti, è membro dell’Opec+, in quanto secondo esportatore al mondo per petrolio, con una quota pari all’8,3% di greggio a livello mondiale, dopo l’Arabia Saudita (16,5%), e seguita dal Canada (7,5%), dall’Iraq (7,3%), dagli Emirati Arabi Uniti (7,1%) e via discorrendo. Gli Usa, giusto per citare il Paese capofila del G7 (e non solo), grazie allo Shale oil riescono oggi ad aggiudicarsi un sesto posto a livello globale con una quota di esportazione pari al 4,2%, mentre la produzione nazionale è la prima al mondo (con il 17% e 706 milioni di tonnellate di greggio). Di fatto, pur essendo i primi produttori di greggio a livello mondiale (secondo quanto attesta lo IEA) gli Usa utilizzano la maggior parte di quanto estratto per sostentare la propria crescita e ciò attribuisce, di rimbalzo, maggior potere contrattuale agli altri Paesi esportatori. Com’è noto, infatti, la domanda e l’offerta di petrolio, sono perlopiù gestite dal cartello globale dell’Opec ed dell’Opec+, che all’occorrenza possono decidere di diminuire la produzione giornaliera per mantenere alto il prezzo. Ed in questo scenario la Russia ha gioco facile proprio in virtù del suo secondo posto nella classifica di Paese esportatore che le consente di reperire altri partner verso cui dirigere il propri prodotti petroliferi ed esercitare la propria forza al tavolo dei grandi produttori di greggio. Come arginare un potere simile? L’idea è quella del price cap legato alle assicurazioni marittime, ma il problema è di chi controlla quest’ultime.
La controffensiva russa al price cap e all’embargo: il ruolo delle democrature
Subito dopo l’avvio dell’invasione dell’Ucraina, e le successive contestazioni da parte delle democrazie occidentali, la Russia ha intensificato le proprie esportazioni verso Paesi terzi. Come riportato dal Sole24Ore “mentre rispetto all’anno precedente le esportazioni russe verso la UE calavano di 1,5 milioni di barili al giorno, ancor prima dell’embargo, quelle verso la Cina aumentavano di 225.000 barili al giorno, per un totale di 1,9 milioni; l’India acquistava 965.000 barili in più, per 1,1 milioni totali; la Turchia cresceva di 320.000 barili a 540.000”. Il caso di maggior rilievo è sicuramente quello dell’India, che è passata ad acquisti ingenti di oro nero grazie allo sconto praticato dalla Russia.
La domanda di petrolio nel mondo (Mt: milioni di tonnellate)

IEA: “key World Energy Statistics 2021” – Crude oil net importers: pp.13
Se oggi il Brent, indicatore del prezzo del petrolio estratto nel Nord Europa, supera tranquillamente i 75$ al barile, (oggi 80,69$) quello russo, invece, viene svenduto sul mercato asiatico con uno sconto che oscilla tra i 25/35$ al barile (come riportato dall’ISPI). E a questo prezzo i margini di guadagno russo restano comunque elevati: circa 600.000$ al giorno (nonostante il price cap). Emerge così con forza il limite dei 60$ decisi dalle democrazie occidentali: un prezzo troppo alto e assai vicino a quello a cui viene già oggi commercializzato il greggio russo, come criticato dallo stesso Zelensky.
Rimane poi aperta la questione del chi controlla cosa e come si può arginare un bene che viaggia sul mare (terza falla). Già perché mentre l’Ue e il G7 decidevano il da farsi, Putin ha dato mandato per costruire un’imponente flotta fantasma (come rivelato dal Financial Times) che ad oggi conta già più di 100 petroliere acquistate da armatori anonimi. Si tratta di navi a fine carriera, quindi con età compresa tra i 12 e i 15 anni, di grande stazza, capaci di trasportare anche 700.000 barili di greggio l’una. Ci sarebbe sempre il limite dell’assicurazione marittima, ma anche qui ci sono già almeno un paio di ostacoli che ne rendono difficile l’applicazione. Come riportato da Massimo Nicolazzi su ISPI, “Un trasportatore e/o un assicuratore non hanno di regola né il diritto né l’obbligo di conoscere il prezzo effettivo cui il carico per cui prestano servizio è venduto. Qui soccorre l’OFAC, con le sue linee guida del 22 novembre scorso. Le linee guida definiscono shippers e assicuratori come Tier 3 Actors e prevedono che “Tier 3 Actors must obtain and retain customer attestations, in which the customer commits that for the service being provided, the Russian oil was purchased or will be purchased at or below the relevant price cap”. Insomma, siamo all’autocertificazione, fate voi quanto affidabile ed efficace”. Per di più già oggi la Turchia, grande sponsor della pace tra Ucraina e Russia, nonché importatrice del greggio di quest’ultima, sta fermando le petroliere europee che transitano dal Bosforo e non quelle del Cremlino (come riportato da Futura d’Aprile su Domani). E come se tutto ciò non inficiasse già abbastanza il piano delle democrazie, il Financial Times ha poi riportato l’indagine svolta dall’Ong Global Fishing Watch la quale sostiene come le navi cisterna russe stiano attuando le stesse manovre di occultamento già impiegate da Venezuela ed Iran tramite una falsificazione dei dati del trasponder di bordo. A ciò si aggiunge la già rodata pratica di transhipment effettuati a largo e che permetto di far passare il greggio da una petroliera ad un’altra, rendendo pressoché impossibile scovarne l’origine. In realtà, come racconta lo stesso Nicolazzi su ISPI, dalla composizione del greggio si può intuire quale sia il Paese d’origine, ma anche qui occorrerebbe prima di tutto la volontà e i mezzi per fare analisi e imporre le sanzioni così come decise dalle democrazie occidentali.
Qual è l’effetto dell’embargo e del price cap sul petrolio russo?
Purtroppo non basta dire gatto per averlo messo nel sacco. Le sanzioni sul petrolio russo non stanno avendo l’effetto sperato e con il superamento delle misure draconiane imposte da Xi in materia di sanità pubblica è facile che peggiorino pure. Come raccontato da Alberto Ciò sul Foglio “Se la domanda si manterrà sostenuta e la Cina uscirà dal suo pesante lockdown sarà inevitabile un rialzo dei prezzi. Parimenti difficile potrebbe essere per l’Europa trovare fornitori alternativi al greggio russo, specie se l’Opec confermerà il taglio della sua produzione complessiva, e ancor più da febbraio ai prodotti petroliferi. Morale: la sensibile riduzione degli acquisti europei di petrolio russo già avvenuta nel corso dell’anno e la fissazione di elevati sconti da parte di Mosca ad acquirenti non europei a livelli prossimi al tetto di 60 doll/bbl non dovrebbero comportare pesanti contraccolpi per le finanze russe, così disattendendo gli obiettivi che i paesi europei miravano a conseguire”.
All’Ue non resta che prepararsi a tirare le somme anche in vista del taglio dei prodotti raffinati previsto per febbraio, che rischia di bloccare la logistica del Vecchio Continente (visto che il diesel lo si importa perlopiù dalla Russia). La prima considerazione è che senza una vera cooperazione tra Paesi amici è difficile riuscire a imporre sanzioni efficaci in un mercato globalizzato. Il petrolio interessa a tutti e l’Ue non è l’unico acquirente di facile approvvigionamento, a differenza di quanto riguarda il gas. La seconda considerazione riguarda proprio il price cap su quest’ultimo: difficile, se non impossibile, staccarsi dal gas russo a meno di non ridurre drasticamente dal domanda, cosa che ad oggi non sembra essere in agenda (almeno in Italia). Terzo, ed ultimo, lo scontro tra Occidente e autocrazie poteva essere un’occasione per rendersi indipendenti dal punto di vista energetico, magari grazie a un piano europeo finanziato col debito comune, invece ognuno è andato per la sua strada: c’è chi ha nazionalizzato, chi imposto un price cap locale e chi immesso 200 miliardi a sussidio della propria manifattura e dei cittadini. Il rischio di queste strategie a breve, se non brevissimo raggio d’azione, è che amplifichino solo il divario tra i Paesi membri dell’Ue e il risentimento che gli euroscettici nutrono nei confronto dell’Unione. L’esatto opposto di quanto si auspicava chi ha introdotto le sanzioni.
di Claudio Dolci
Balneari e Taxi. Ci risiamo!
3 min di lettura
Ci risiamo, cambia il governo e con esso le proposte di legge più scomode ripartono daccapo, come in gioco dell’oca senza fine che lascia più annoiati che stupefatti i cittadini e le istituzioni. Questa volta ad essere in procinto di ripartire dalla casella di partenza è il ddl Concorrenza varato dal governo Draghi, che prevedeva la messa a bando delle concessioni balneari e l’adeguamento del servizio di trasporto pubblico (quindi anche e soprattutto dei taxi) e che ora dev’essere ratificato da un governo che ha come ministro del turismo Daniela Santanché.
Qualche dubbio con annesso sopracciglio alzato è più che legittimo, visto che nel governo ci sono anche Salvini e Meloni (nonché Berlusconi) e infatti Milena Gabanelli ha già dedicato uno dei suoi DataRoom sul tema, ribadendo il concetto: basta gioco dell’oca. La direttiva Bolkestein è stata adottata dall’Ue nel 2006 e da allora in Italia è stato un susseguirsi di “sì, la implementeremo, ma domani”, senza mai specificare che cosa si intendesse con questa formula. L’ultimo governo Berlusconi decise che quel domani sarebbe stato il 31 dicembre del 2015, poi Monti optò per il San Silvestro del 2020 e Conte, che i multipli di cinque non li voleva usare, aveva proposto per direttissima il 2033. In breve, prima di Draghi l’idea della politica italiana era quella di adottare la direttiva Bolkestein con soli 27 anni di ritardo rispetto a quanto stabilito dall’Ue (sempre nel migliore degli scenari) e una lunga sfilza di richiami e multe da parte della comunità europea.
Draghi, dal canto suo, propose di porre di freno a tutto ciò anticipando la regolamentazione delle licenze al 31 dicembre del 2023, così da poter raggiungere anche tutti gli obiettivi previsti dal Pnrr (anche se non strettamente necessari per l’ottenimento dei fondi), ma soprattutto sanare un contenzioso che danneggia più l’erario italiano che qualche burocrate di Bruxelles. Risultato? Il governo è terminato in anticipo e ora c’è il caso che quello nuovo, per mezzo della neoministra del turismo, possa decidere che i tempi siano stati anticipati frettolosamente. A Palazzo Chigi quella sulle concessioni è una battaglia che non può finire nel 2023; d’altronde,vi sarà ben una via di mezzo tra 2023 e 2033? La risposta più ovvia è un secco no, sostenuto dal fatto che l’Italia è già in infrazione da anni e che tergiversare ulteriormente non farebbe altro che confermare l’inamovibilità italica. Già, perché oltre al ddl Concorrenza resta ancora aperta la questione Tim, Monte dei Paschi, Ilva e quell’arcinoto carosello di aziende private e pubbliche (la combinazione peggiore si trova nel guado tra questi due estremi) ove nessuno vuole decidere davvero che cosa fare, se non rimandare a domani. In questi giorni verrà varata la finanziaria del 2023, sapremo di più su quello che il governo più a destra della storia repubblicana vorrà fare. Ma se anche Mario Draghi dovette scendere a patti con i sindacati dei tassisti qualche mese fa, difficile pensare che l’applicazione della direttiva UE avverrà linearmente.
Il tema delle liberalizzazioni in Italia è a tutti gli effetti un evergreen. L’Italia è la penisola liberista quando si tratta di criticare l’assistenzialismo statale (come nel caso del Reddito di Cittadinanza) o vincere le elezioni contro i comunisti. Il nostro è lo stivale delle corporazioni e della difesa dello status quo quando si tratta di creare più concorrenza e aiutare sia il consumatore che l’innovazione.
Se una famiglia presso uno stabilimento balneare può arrivare a pagare centinaia di euro per un solo weekend al mare, allo Stato arrivano solamente 2.500 euro l’anno, che nel 2022 sono diventati 2.698 per gli aumenti Istat (qui il decreto- legge 14 agosto 2020, n. 104, art. 100). Una cifra che si ripaga con l’affitto di 2 ombrelloni per 3 mesi a 15 euro al giorno. E il servizio chiaramente non è ottimale essendo di fatto in una situazione di oligopolio dove la concorrenza è quasi nulla.
Simile situazione si riscontra per il servizio taxi, così riporta DataRoom: “la legge che disciplina il settore è la n. 21 del 1992 che rinvia ai Comuni il compito di stabilire il numero di licenze, i turni con il numero di taxi per fasce orarie e le tariffe (art. 5). Chi ha una licenza da più di 5 anni, o ha compiuto i 60 anni, o per malattia, può indicare al Comune a chi trasferirla. In caso di morte può passare a uno degli eredi, o a chi indicato da loro (art. 9)”. Praticamente un’oligarchia ereditaria dove è impossibile entrare, con le licenze che se vendute possono arrivare a costare 200mila euro. E il servizio ne risente: a Milano, l’allora assessore ai Trasporti Marco Granelli ammise: «È necessario ampliare il contingente in servizio con 450 nuove licenze». Il motivo? Sulle 33.400 chiamate al giorno tra le 8 e le 10 ne risulta inevaso il 15%; tra le 19 e le 21 il 27%, il sabato e domenica tra le 19 e le 21 il 31%; tra mezzanotte e le 5 il 42%. E casi comprovati aggiungono spesso l’indisponibilità ad usare i mezzi di pagamento elettronici per le corse già care di per sé.
Ma a Roma di rivedere la liberalizzazione di questi settori non ne vuole proprio sentir parlare: le associazioni collegate hanno un potere lobbistico al limite della comprensione razionale. Volta dopo volta escono le paure degli acquisti rapaci delle “multinazionali straniere” contro “l’azienda di famiglia italiana”. Ma alla prima pagina di qualsiasi libro di testo di microeconomia già si legge e si capisce come in un mercato economico sviluppato come lo è il nostro, è la concorrenza il motore principale per migliorare i servizi e trovarne dei nuovi. Ed è umano (troppo umano!) che quando invece la concorrenza venga a mancare allora subentri di petto la speculazione: vedere i prezzi delle materie prime per credere. Un italiano che volesse intraprendere la carriera di bagnino o di tassista (ma questo vale per qualsiasi classe di impiego che è protetta dalla concorrenza) non potrebbe avere la possibilità di farlo perché il blocco all’entrata è molto alto rispetto che altrove. Non sono quindi gli imprenditori italiani ad essere penalizzati dalla concorrenza ma lo sono gli imprenditori italiani che propongono prodotti concorrenziali.
Non vogliamo considerare il lato economico per i consumatori? Non vogliamo considerare il profitto gratuito dovuto all’oligopolio? Non vogliamo considerare la perdita secca delle entrate nelle casse dello Stato? Non vogliamo neppure considerare il lato etico, semmai ce ne fosse bisogno? Sappiamo almeno che queste regole che ora sembrano essere state imposte dall’alto fanno parte di una struttura (la UE) che non solo come nazione abbiamo accettato di farne parte ma agisce anche in nome di un parlamento eletto dai cittadini delle nazioni aderenti. Non si vuole ascoltare il turpiloquio della teoria economica? Si ascolti almeno la volontà dei cittadini che hanno detto basta, con la legge Bolkestein, alle corporazioni e sì alla libera concorrenza!
Di Roberto Biondini e Claudio Dolci
Il soft power: la nuova arma delle autocrazie
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Pensare che le guerre si vincano solo con carrarmati e soldati significa ignorare il potere del soft power, che dal XX secolo in poi ha determinato l’estendersi, ed il rimpicciolirsi, delle zone d’influenza delle principali potenze globali. Blue jeans, hamburger e film sono stati a lungo impiegati dagli Stati Uniti durante la guerra fredda come strumento per intercettare e deviare l’orbita di tutti quei Paesi satellite, Italia compresa, che dopo la caduta dei totalitarismi hanno mostrato incertezza circa il loro posizionamento geopolitico. L’idea è semplice, se coercizione fisica (quindi militare) ed economica falliscono, allora può valer la pena impiegare strumenti di condizionamento di carattere culturale, tecnologico e terroristico. I quali, per loro natura, non vengono percepiti immediatamente come invasivi, nonostante esercitino spesso un potere pari se non superiore a quelli di natura coercitiva.
Ed in effetti, l’ammirazione per il capitalismo e per lo stile di vita della società occidentale (ovvero quella a stelle e strisce) crebbe molto sia durante la Guerra Fredda, sia dopo la caduta del comunismo, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo. Tant’è che molte delle democrazie sviluppatesi dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno preso ispirazione dalle democrazie occidentali allora più influenti (Usa e Regno Unito in testa). Ma il passaggio al XXI secolo ha comportato un capovolgimento di scenario, il quale pone oggi in discussione quel sodalizio instauratosi tempo fa tra diplomazia tradizionale di stampo occidentale e il soft power.
Che cos’è il soft power?
“Un Paese può ottenere i risultati che desidera nella politica mondiale perché altri Paesi – ammirandone i valori, emulandone l’esempio, aspirando al suo livello di prosperità e apertura – vogliono seguirlo. In questo senso, è anche importante stabilire l’agenda e attrarre altri nella politica mondiale, e non solo costringerli a cambiare minacciando la forza militare o sanzioni economiche. Questo soft power – convincere gli altri a volere i risultati che desideri tu – coopta le persone anziché costringerle.” Questa è la definizione e il meccanismo del soft power spiegato da Nye Joseph e finché il mondo è stato unipolare (salvo la parentesi dell’URSS), dietro l’influenza dell’egemone c’erano solo gli Stati Uniti.
Oggi però il mondo è diviso in almeno due blocchi: da una parte ci sono le democrazie di vecchio conio e dall’altra i nuovi regimi autoritari, i quali condividono tra di loro un unico grande comun denominatore, ovvero ristabilire la natura multipolare dei rapporti di forza geopolitici. Cina, Russia, Arabia Saudita, Turchia, India e molti altri Paesi, che tra l’altro si sono astenuti durante il voto dell’Assemblea Generale dell’Onu (chiamata ad esprimersi sulla sospensione della Russia dal Consiglio dei Diritti Umani per quanto accaduto nel conflitto in Ucraina) pretendono il loro posto alla tavola dei potenti e non più da paria.
La natura del potere d’influenza di questi nuovi attori geopolitici è presto spiegata attraverso due esempi, il primo è quello della guerra commerciale, tuttora in corso, tra Cina e Stati Uniti (che nell’era Trump accelerò in modo dirompente coi i dazi e il caso Huawei), il secondo, invece, riguarda il ricatto del gas e del grano imposto dalla Russia dopo le sanzioni varate dall’Ue e l’intero blocco Occidentale per fermare l’invasione dell’Ucraina.
Nel primo caso, quello della guerra commerciale tra Cina e Usa, le due potenze si sfidano ancora oggi, giorno dopo giorno, per affermare quale sia il miglior sistema per affrontare le sfide globali e cercano, in modalità perlopiù diplomatica (fatta eccezione per l’incognita di Taiwan), di vincersi a vicenda. Ad oggi, salvo le tensioni innescate dagli annunci, la guerra viene portata avanti con microchip, acquisto di titoli di Stato e container. Caso diverso, invece, è quello Russo, ove vi è anche il sostegno militare da parte dell’Occidente nei confronti dell’Ucraina e per questo uno scontro commerciale ben più serrato. Entrambi questi esempi mostrano come il soft power americano resti attrattivo solo per alcuni Paesi del mondo e venga del tutto rispedito al mittente in altri i quali, a loro volta, esercitano il proprio.
Questo scontro globale è propriamente un conflitto tra due mondi e altrettante visioni differenti, in cui l’ammirazione reciproca ha ceduto il passo a uno scontro acceso.
L’arma degli influencer: il soft power che non ti aspetti
Tra le armi più potenti e allo stesso tempo più furtive nelle mani delle autocrazie ci sono gli influencer, che altro non sono che un aggiornamento 2.0 dei film americani post Seconda Guerra Mondiale. Come riportato dal Fatto Quotidiano, in un articolo di Giulia Pompili, “Un nuovo studio condotto da Fergus Ryan, Daria Impiombato e HsiTing Pai e pubblicato dall’australian strategic policy institute, uno dei think-tank più importanti per quanto riguarda gli affari cinesi, svela i rapporti tra quelli che potrebbero sembrare semplici cittadini cinesi che usano internet per nazionalismo e veri dipendenti della propaganda.” D’altronde chi mai penserebbe che dietro a un video di cucina o sui costumi cinesi si nasconda in realtà il manifesto di propaganda del Partito Comunista? Eppure, succede, come dimostra il blocco da parte di Twitter dell’account di @Xinjiangguli perché fonte di disinformazione. Ed in questo solco si muove anche l’Arabia Saudita.
In un’inchiesta, anch’essa pubblicata dal Fatto Quotidiano a firma di Yunnes Abzouz, viene raccontato come attrici e attori, travel blogger modelle e persino calciatori si siano prestati a viaggi in Arabia Saudita, dietro lauto compenso, per incensare l’immagine del Paese da cui è venuto il mandato per la morte del giornalista dissidente Khashoggi. D’altronde, “se l’Arabia Saudita, per promuovere i suoi siti turistici, ha deciso di fare ricorso alle star di Instagram, invece di usare forme di pubblicità più tradizionali, è perché il regno gode di cattiva reputazione e quindi non può permettersi il lusso di una comunicazione più convenzionale.”. In tal senso emerge con forza l’azione persuasiva del soft power a mezzo influencer, la quale può essere accoppiata al terrorismo, come emerge dall’analisi del quadro geopolitico africano.
In Burkina Faso siamo già al secondo colpo Stato in meno di un anno. Il primo, condotto da colonello Paul Henri Demiba, mentre il secondo è stato portato a termine da Ibrahim Traoré. Ed è dietro a quest’ultimo che sembra celarsi la mano dell’oligarca russo Yevgeniy Prigozhin e della Wagner (l’esercito di mercenari al soldo di Putin). Il modus operandi, come riportato da Andrea Lanzetta su Tpi, è lo stesso adottato in altri Paesi africani del Sahel, come il Mali. Scrive Lanzetta “come certifica anche un’inchiesta di Jeune Afrique, Mosca sfrutta diversi influencer che si battono contro il colonialismo […]. Le legittime battaglie di questi influencer e attivisti sono rivolte contro il vecchio colonialismo, soprattutto di matrice francese, tesi che Putin riesce a sfruttare per i propri scopi espandendo la sua influenza in Africa”. L’obiettivo dell’azione russa è lo stesso che perseguì la Cina con i vaccini contro il Covid: ottenere l’accesso a risorse naturali in cambio di tecnologia ed appoggio militare (con i militari, com’è in Libia). Sempre Lanzetta chiarisce come “in un rapporto del Center for Strategic & International Studies la Russia sembra ricorrere al gruppo Wagner più come mezzo per garantirsi l’accesso a porti, aeroporti e risorse naturali in Africa allo scopo di finanziare le proprie attività che come forza efficace sul campo di battaglia”.
Il ruolo della diplomazia
Tutti questi casi dimostrano come l’appeal delle democrazie stia cedendo il passo alle autocrazie ed il loro soft power. D’altronde, come dimostra il caso dei vaccini anti Covid-19 e quello delle compensazioni economiche per il cambiamento climatico, è evidente come oggi la democrazia arrivi troppo spesso in ritardo e come la sua azione possa alle volte persino essere ribaltata dalle autocrazie. Si pensi ad esempio alle sanzioni per fermare la guerra in Ucraina, o ai divieti di inquinamento previsti per Cina e India (grandi assenti della Cop 27). Rispetto al mondo unipolare post caduta del muro di Berlino, oggi è in corso un’ascesa delle autocrazie, le quali utilizzano gli stessi mezzi utilizzati in passato da Stati Uniti, Regno Unito e Francia, ma con maggiore efficacia, almeno per quanto riguarda l’uso del soft power. Troppo a lungo ci si è dimenticati che lo scontro tra potenze non riguarda solo il piano economico e militare, ma coinvolge direttamente le popolazioni, le quali hanno bisogno di una narrazione efficace che dia un senso al loro sforzo. Soprattutto oggi, in un contesto dove il rallentamento della globalizzazione si fa sentire con maggior vigore e crescono quasi ovunque tensioni sociali prive di argine.
Che modalità verrà quindi utilizzata nel prossimo futuro dalle potenze mondiali per raggiungere i propri obiettivi? Il parere di chi scrive è che il soft power delle democrazie stia perdendo forza giorno dopo giorno. In quei paesi sottosviluppati dove in passato il capitalismo e l’asse atlantico hanno o avrebbero potuto avere enorme forza, il soft power è in effetti ancora un’arma adeguata ma vincente per le nuove autocrazie, in primis la Cina. D’altra parte, la diplomazia rimarrà centrale tra i due blocchi per evitare scontri più accesi (o per concluderli). Se la fine della Guerra Fredda ci aveva fatto pensare che fosse arrivata anche la fine della Storia, gli eventi recenti ci fanno ben vedere come ciò fosse una sciocchezza. La diplomazia dall’alto, quella pensata e ragionata continuerà essere centrale per gli stati occidentali che sono a rischio crisi strutturale in questa epoca storica. Guardare film hollywoodiani, credere nel sogno americano e ottenere e difendere certi diritti etici ci faranno sicuramente sentire meglio ma non ci difenderanno più davanti al Nuovo Mondo che si sta formando e che è giorno dopo giorno ci sta prendendo il posto come player centrale. Ci andrà bene lo stesso?
Di Claudio Dolci e Roberto Biondini